Si tratta della trasposizione cinematografica di un famoso telefilm americano che originariamente era interpretato da James Garner, che qui fa la parte dello sceriffo. Maverick è un baro che ispira simpatia e fiducia. Girovaga tra un saloon e l’altro con Annabelle, anche lei ladra. I due incontrano a St. Louis uno sceriffo di pochi scrupoli. Nella ridente cittadina si tiene un torneo di poker. Mel Gibson fa troppe smorfie e la regia di Richard Donner non riesce a esaltare la vicenda.
Carolina del sud 1776, guerra d’indipendenza americana. Benjamin Martin (Gibson) è un proprietario terriero, vedovo, con sette figli. Si tratta di decidere l’entrata in guerra dello Stato. Ben vorrebbe starne fuori, ma suo figlio maggiore si arruola e per salvarlo dall’impiccagione è costretto a esporsi. Con un’azione degna di Braveheart uccide venti inglesi e diventa una leggenda. A capo di un gruppo di volontari affianca l’esercito regolare e passa di vittoria in vittoria. A questo punto il film si carica di tutti i possibili luoghi comuni dell’azione e non: c’è il nero che ragiona di un mondo nuovo, c’è la bambina che non parlava e che miracolosamente parlerà, c’è il colonnello inglese cattivissimo che assume tutto l’odio di Ben (e dello spettatore) per un adeguato, liberatorio lieto fine, e c’è l’immancabile tappeto musicale di John Williams che tutto enfatizza e blandisce. Insomma non manca nulla del prevedibile, vige un eccesso di spettacolo, però il film è gradevole. E va sempre guardato con simpatia il tentativo di raccontare l’avventura, persino con una pretesa di epica.
L’attacco alla base americana di Pearl Harbor apre un nuovo fronte delle ostilità in Giappone. Desmond Doss, cresciuto sulle montagne della Virginia e in una famiglia vessata da un padre alcolizzato, decide di arruolarsi e di servire il suo Paese. Ma Desmond non è come gli altri. Cristiano avventista e obiettore di coscienza, il ragazzo rifiuta di impugnare il fucile e uccidere un uomo. Fosse anche nemico. In un mondo dilaniato dalla guerra, Desmond ha deciso di rimettere assieme i pezzi. Arruolato come soccorritore medico e spedito sull’isola di Okinawa combatterà contro l’esercito nipponico, contro il pregiudizio dei compagni e contro i fantasmi di dentro che urlano più forte nel clangore della battaglia.
Alla guida del mitico VII Cavalleggeri in versione high-tech, con i cavalli sostituiti dagli elicotteri, gravato dall’ombra del generale Custer, il colonnello Hal Moore (Gibson) affronta l’esercito nordvietnamita nella battaglia della Drang Valley (14/11/1965) che segnò l’inizio della guerra del Vietnam. Evita a stento il bis di Little Big Horn e incassa una vittoria di Pirro. Tratto da un libro dello stesso Moore e di Joseph L. Galloway, sceneggiato e diretto con mestiere da Wallace, ha al suo attivo alcune riprese aeree, il parallelismo tra infuriare della battaglia e vita quotidiana delle mogli rimaste a casa e soprattutto la rappresentazione, seppur parziale, del punto di vista e dei sentimenti del nemico, cui spetta anche l’onore dell’ultima, veritiera parola. È però zavorrato da una tripla retorica: patriottica, familiare, religiosa.
Arma letale è il soprannome di un poliziotto dalla pistola facile, Martin Riggs, un reduce dal Vietnam incattivito dalla guerra e dalla perdita della moglie adorata, uccisa da un criminale. Messo in coppia con un maturo poliziotto di colore, Roger, si affeziona a lui e alla sua famiglia. Quando la figlia del collega viene rapita da una banda di trafficanti di droga anche Martin e Roger vengono catturati e torturati. Ma Riggs si libera e stermina la banda.
Il reverendo Graham Hess vive a Bucks County in Pennsylvania con i suoi due figlioletti e il fratello un po’ svanito. Sua moglie è morta in un incidente e da quel momento l’uomo ha perso la fede. Un giorno scopre degli ampi cerchi tracciati nei campi intorno alla sua fattoria. Il fenomeno si manifesta anche in India e, successivamente, in tutto il mondo. E’ opera di alieni particolarmente pericolosi e abili nel non farsi individuare. Qualcuno di loro si muove anche nei pressi della fattoria. Graham riuscirà a venire a capo del mistero. M. Night Shyamalan si muove con sicurezza nel territorio del paranormale e del contatto con gli alieni. Da qui a proporlo come il nuovo Spielberg però ce ne corre.Anche perché questa volta si avvale di un Gibson sempre più piatto e in caduta libera (v.anche We were soldiers). Manca la suspense e tutto appare prevedibile. Ciò che non lo è affatto è invece il finale. Ma non sul piano della pura narrazione quanto su quello dei simboli. Guardate i ‘segni’ che costellano gli ultimi minuti del film e provate a chiedervi se parte del successo del film negli Usa non sia dovuta anche al fatto che questo è il primo, vero manifesto cinematografico americano del dopo 11 settembre. Dire di più rovinerebbe la sorpresa.
Charles è appena stato bocciato all’esame di ammissione all’accademia di West Point. La sua è una famiglia strana, c’è la mamma e ci sono due sorelle, tutti figli di diverso padre. Charles ha un suo mondo interno particolare, che nessuno capisce; anzi gli viene attribuita scarsa intelligenza.
Il film vede come protagonista l’ex poliziotto Max Rockatansky, detto “Mad Max” oppure “Max il pazzo”, interpretato dall’attore Mel Gibson e successivamente da Tom Hardy.
In un futuro imprecisato post-apocalittico la Terra è in mano ai predoni. Tra questi Immortan Joe, che controlla la Cittadella con il pugno di ferro, imponendo il culto della personalità. Finché la sua compagna e “Imperatrice”, Furiosa, lo tradisce, portando con sé le schiave e concubine di Immortan. Reboot, mash up o remake sono termini che aiutano a capire ma che non inquadrano completamente l’operazione alla base di Mad Max: Fury Road. Il ritorno alla regia di George Miller, atteso quanto insperato, forse prepara a una nuova saga, tutto sembra farlo credere, ma soprattutto cerca di riscrivere l’ultimo e debole – al di là dell’impatto iconografico della sfera del tuono – capitolo con Mel Gibson e Tina Turner, riproponendo Max in un contesto come quello attuale, sovraccarico di supereroi invincibili e di action movies che dall’universo distopico di Mad Max molto hanno saccheggiato.
Nella Scozia del XIII secolo, vessata dagli inglesi, William Wallace (1267-1305), al quale hanno ucciso la moglie, si mette a capo di un gruppo di disperati ribelli, li trasforma in esercito, batte gli inglesi a Stirling (1297), conquista la stima della regina Isabella, prosegue la guerriglia, è sconfitto a Falkirk (1304), abbandonato dai nobili passati al re Edoardo I finché è preso e giustiziato. Idealmente diviso in 3 parti (adolescenza, prime prove di coraggio e dolori di Wallace; le battaglie; i conti con la Storia), è un filmone epico che punta sullo spettacolo, su grandi temi popolari (la lotta per la libertà e la giustizia), sui luoghi canonici del genere. Vale soprattutto per le battaglie che coniugano i quadri di Paolo Uccello con la tecnologia del cinema moderno. Successo internazionale e 5 Oscar: film, regia, fotografia (John Tull), effetti speciali sonori e trucco. 1700 comparse e interminabili titoli di coda.
Basato su un fatto vero, la fuga di un condannato da un penitenziario di Pittsburgh nel 1902, con la complicità della moglie del direttore innamorata di lui. L’uomo era condannato a morte, ma le lettere inviate ai giornali nei mesi prima dell’esecuzione ne avevano fatto una figura romantica e suggestiva. Anche presso la moglie del direttore evidentemente, che decide di accompagnarlo nella fuga. Alla fine l’evaso è ucciso. La donna tenta il suicidio, ma non muore. Un melodramma girato con vigore dall’australiana Armstrong, ma che non riesce a ricreare l’impatto degli antichi film sugli evasi degli anni ’30.
Dopo La bisbetica domata e Romeo e Giulietta,Franco Zeffirelli si cimenta per la terza volta con un dramma di Shakespeare. L’ Amleto viene rivisitato in veste moderna, pur rimanendo identico il periodo storico, e cioè meno femmineo e ambiguo che in passato. Questo in sintonia con il pubblico giovane abituato agli eroi ultramaschili e potenti fisicamente. Mel Gibson recita con una certa bravura i versi del drammaturgo inglese, coadiuvato da Glenn Close in versione dolce e da due mostri sacri del teatro e del cinema inglese: Alan Bates e Paul Scofield. Lo spettacolo regge, ma in alcuni momenti si rischia il ridicolo. Tutti gli accessori, scenografia, costumi e musiche sono egregiamente orchestrati. Ma non cercano finezze psicologiche.
Un film di Nicolas Winding Refn. Con Callum Mitchell, Douglas Russell, Gary McCormack, Andrew Flanagan, Gordon Brown, Stewart Porter, Matthew Zajac, Maarten Steven, Robert Harrison, James Ramsey, P.B. McBeath, Rony Bridges, Ewan Stewart. Azione, Ratings: Kids+16, durata 90 min. – Danimarca, Gran Bretagna 2009. MYMONETRO Valhalla Rising valutazione media: 2,67 su 29 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
In un tempo mitologico sconosciuto, c’era una volta uno schiavo di incredibile forza guerresca. Con l’aiuto di un giovane ragazzo, un giorno riuscì a liberarsi e riversò la sua furia sugli uomini che lo avevano tenuto prigioniero per anni torturandoli e uccidendoli. Attraverso le valli della Scozia, questo guerriero orbo e muto ma dalla potenza sovrumana si imbarcò su un vascello di nobili vichinghi per intraprendere una crociata in Scandinavia, ma, passando attraverso una bruma inquietante e ripetuti attacchi da una forza sconosciuta, comprese presto di essersi addentrato in una terra oltre i confini della natura e che il suo fato era già stato scritto dagli dei. L’immaginario della mitologia norrena è ricco di suggestioni legate alla natura selvaggia, intesa sia come paesaggi incontaminati che come brutalità primordiale dell’uomo. Proprio a partire da queste stesse due componenti cerca di costruire la fascinazione del suo film il danese Nicolas Winding Refn, proseguendo un percorso di estetizzazione della violenza iniziato con la trilogia di Pusher. Tutelato da illustri precedenti assai simili nella logica e nello stile (Apocalypto di Mel Gibson; 300 di Zack Snyder), il regista di Copenhagen filma nello stesso modo tanto i grandiosi paesaggi scozzesi quanto la violenza perpetrata contro i corpi squartati dal silenzioso guerriero protagonista. Non conta la distanza: che sia in campo lungo come la verde vallata immersa nella bruma o in primissimo piano come i volti e le ferite dei personaggi, ogni inquadratura è costruita per suscitare contemplazione, per rispettare non tanto un principio di mitopoiesi quanto una riconoscibile rappresentazione del furore cosmico. La continua esibizione di primi piani obliqui, viraggi al rosso, sotto o sovraesposizioni pare essere l’unico modo che il regista conosce per tematizzare una storia che parla della brutalità della natura umana in termini di religione e sacrificio. E che, anche a voler mettere da parte i naturali dubbi etici, è davvero troppo poco per un film che ambirebbe ad essere un personale Ashes of Time di terra scandinava e che invece rappresenta solo l’ennesimo capitolo di un'”invasione barbarica” di certo cinema contemporaneo che mitizza la violenza.
Assoldato per un rapina durante una fiera Parker viene tradito dai criminali della sua banda e scaricato mezzo morto per strada. Raccattato e rimesso in sesto da una coppia di campagnoli il criminale medita una vendetta ad ampio raggio, un piano clamoroso nel quale viene coinvolta suo malgrado anche un’agente immobiliare in crisi finanziaria. Dall’incontro di due generi ben precisi, le storie di Donald Westlake con protagonista il criminale costantemente malmenato Parker e i film d’azione con Jason Statham, esce fuori un curioso ibrido che forse non rende giustizia a nessuna delle due fonti d’ispirazione. I romanzi di Westlake sono stati ampiamente saccheggiati dal cinema nel corso degli anni e in maniere a dir poco burrascose poichè lo scrittore non aveva un buon rapporto con gli studios. Ne hanno usufruito tra i molti anche Lee Marvin, Mel Gibson, Robert Redford e Jean-Luc Godard, però Parker è il primo film a basarsi su un suo racconto da quando l’autore è deceduto e per questo il primo a poter usare il nome del protagonista (dettaglio così decisivo da finire nel titolo). Seguendo quindi gli eventi di Flashfire: fuoco a volontàTaylor Hackford lentamente piega tutti gli angoli e smussa tutto ciò che non rientrerebbe nella parabola dell’eroe da Jason Statham, ovvero il duro senza scampo, dotato di un piano preciso e una vendetta da portare a termine. Per questo motivo ad ogni angolo e prima di ogni svolta sembra di intuire il meglio e poi ci si ritrova con una sua versione un po’ svogliata. Non solo il Parker adattato ai personaggi di Jason Statham perde quel senso di disperazione umana da noir filmico che era riuscito a guadagnare nelle sue precedenti incarnazioni cinematografiche (sorprendente quella di Mel Gibson in Payback) ma non guadagna nemmeno l’asciutta e spietata determinazione che l’attore britannico ha portato negli action movie moderni, finendo più dalle parti della vendetta nello stile del Conte di Montecristo. Anche l’unica caratteristica che hanno in comune i due personaggi (ovvero Parker e quelli solitamente incarnati da Statham), vale a dire la capacità di incassare senza fermarsi, nutrirsi di colpi ricevuti più che dati come un’instancabile macchina umana (sublimata dall’attore britannico in Crank), non sembra essere resa con la dovizia che sarebbe stato lecito aspettarsi. È allora il personaggio di Jennifer Lopez, agente immobiliare in cerca di denaro per una vita migliore, quello a cui più facilmente ci si affeziona. Entra in scena a metà film ma il suo mondo e i suoi problemi sembrano immediatamente più interessanti e coinvolgenti di quelli del protagonista. In questa storia trasformata in film di vendetta iperbolico e fumettoso (in cui anche un cockney come Statham viene creduto texano quando ne imita malissimo l’accento), Jennifer Lopez porta un peso umano e reale non indifferente, una complessità sentimentale e romantica (quella sì davvero da noir) che sorprendono. Quando i due agiscono in coppia sembra lei la protagonista del film, ovvero il personaggio le cui traversie sono più determinanti per lo spettatore.
2001. Skinner è un detective incaricato di investigare sulla morte del figlio di un miliardario avvenuta in un fatiscente hotel dai gloriosi fasti, ora rifugio di psicolabili e disadattati.
Nel 1915 il porto turco di Gallipoli fu lungamente, inutilmente, sanguinosamente assediato dalle truppe britanniche. Con gagliardo ardimento i volontari australiani si fecero massacrare. Più che un film bellico – sull’ignominia della guerra – è un racconto picaresco di viaggio, avventure, amicizie virili. Weir ha mano felice nell’affettuosa descrizione dei personaggi, nella rievocazione di un’epoca. Belle pagine di atletica nella 1ª parte, la più riuscita.
Non è facile la vita di Tom (Gibson) e Mae (Spacek), volenterosi agricoltori alle prese con gli speculatori e con le intemperie che gonfiano il fiume facendolo straripare. Ma i valori fondamentali della famiglia, del coraggio e dell’attaccamento alla terra non andranno mai perduti. Film rurale, intimista e spettacolare ad un tempo, molto ben fotografato da Vilmos Zsigmond e interpretato da una notevolissima Spacek.
Un film di Richard Donner. Con Julia Roberts, Mel Gibson, Patrick Stewart Titolo originale Conspiracy Theory. Giallo, durata 134 min. – USA 1997. MYMONETRO Ipotesi di complotto valutazione media: 3,15 su 13 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Jerry Fletcher (Gibson) è uno sciroccato taxista di New York che soffre in modo acuto della sindrome del complotto. Sembra un mattoide, ma non lo è: c’è qualcosa nel suo passato che ha dimenticato, ma che potrebbe ricordare. Se ne convince il procuratore Alice Sutton (Roberts), figlia di un incorruttibile giudice assassinato, che diventa con lui il bersaglio di una potente sezione deviata della CIA. Prodotto da Joel Silver per la Warner e scritto da Brian Helgeland (Oscar per L.A. Confidential ), è un thriller che rielabora un tema di Telefon (1977) di Don Siegel e, pur in modo allusivo, fa del famoso romanzo di Salinger Il giovane Holden il suo referente letterario. “Osservato con più attenzione, Jerry è una versione quasi perfetta del giovane Caulfield in età adulta… e come Holden è un romantico sotto mentite spoglie” (A. Zaccuri). Storia stramba, in bilico sull’assurdo, che incuriosisce, tiene sulla corda, copre bene le sue carte con una certa originalità nei particolari e sagaci scene d’azione.
Un film di Steve Miner. Con Mel Gibson, Jamie Lee Curtis, Elijah Wood Titolo originale Forever Young. Sentimentale, durata 102 min. – USA 1992. MYMONETRO Amore per sempre valutazione media: 2,71 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Una occupazione stimolante, anche se pericolosa, una bella ragazza che non sa decidersi a chiedere in moglie, una cerchia di amici sinceri, primo fra tutti Harry, che è anche un geniale inventore. Daniel McCormick (Gibson), giovane pilota collaudatore americano, sembra non aver altro da chiedere alla vita. E’ il 1939, ma la seconda guerra mondiale vista dagli Stati Uniti sembra ancora lontanissima, anche se Daniel sta testando il prototipo del bimotore B-25 “Mitchell”, l’aereo che tre anni più tardi diverrà protagonista del primo bombardamento di Tokyo. In ritardo per le titubanze di Daniel, Helen ha un grave incidente attraversando la strada, e cade in coma irreversibile. Sconvolto, il pilota si offre come cavia per un esperimento di ibernazione che Harry sta conducendo, ma il laboratorio viene distrutto da un incendio e lo scienziato muore nel tentativo di salvare l’amico. Dimenticata, la capsula criogenica finisce in un magazzino dell’esercito e solo il caso riporta alla vita Daniel, per mano di due ragazzini che, giocando, riescono ad aprirla. Quando si avventura all’esterno, Daniel si trova in un mondo sconosciuto, e scopre che il periodo trascorso in stato di ibernazione non è durato un anno come progettato, ma oltre 50, e che ora si trova nel 1992. Ospite in casa di Nat Cooper, uno dei due bambini che l’hanno risvegliato, il pilota comincia ad accusare strani malesseri, e cercando di rintracciare l’amico Harry, trova alla fine la figlia di questi, ormai donna di mezza età, che conserva tutti gli appunti del padre. Dai quaderni Daniel apprende ciò che Harry aveva scoperto troppo tardi, e cioè che una volta uscito dall’ibernazione l’organismo recupera fatalmente il tempo passato in stasi: i dolori accusati segnalano l’avvio dell’inarrestabile processo di invecchiamento che lo sta riportando alla sua età anagrafica. Ma Daniel fa anche un’altra incredibile scoperta: la sua Helen, guarita, ha vissuto la sua vita senza di lui ed ora si è ritirata a vivere nella cittadina costiera dove ambedue sono cresciuti. Inseguito dall’FBI che lo ha identificato e vuole ad ogni costo mettere le mani sulla tecnologia dell’ibernazione, Daniel – ormai canuto ottantenne – riesce a raggiungere la donna, per trascorrere con lei il tempo che gli rimane. La critica più intransigente ha bollato questo film come bieca operazione commerciale che punta al successo attraverso una storia strappalacrime. Giudizio severo, cui forse non è estraneo il timore di mostrare commozione, sinonimo per qualcuno di debolezza, davanti ad una storia di buoni sentimenti, di malinconia e di rimpianto per le cose non dette, che avrebbero potuto cambiare eventi e destini. Il film rimane comunque un prodotto assai ben confezionato, non privo di ironia e con un cast notevole, tra cui il piccolo ma già bravissimo Elijah Wood, futuro Frodo ne Il Signore degli Anelli.
Un film di M. Night Shyamalan. Con Paul Giamatti, Bryce Dallas Howard, Bob Balaban, Jeffrey Wright, Sarita Choudhury.Thriller, durata 110 min. – USA 2006. uscita venerdì 29settembre 2006. MYMONETRO Lady in the Water valutazione media: 2,86 su 115 recensioni di critica, pubblico e dizionari. The Cove è un residence di Philadelphia costruito intorno a una piscina. Cleveland Heep ne è il custode tutto fare. Una notte dalle acque della piscina emerge una fanciulla dai capelli rossi, una narf, una creatura acquatica del mondo azzurro. Story, il suo nome, ha una storia da raccontare a uno scrittore. Dopo aver annunciato agli uomini un futuro migliore deve fare ritorno nel regno azzurro, ma uno Scrunt, una creatura malvagia coperta di fili d’erba, vuole impedirglielo. Cleveland e i suoi coinquilini, come cavalieri medievali, serviranno la causa di Story e della salvezza del mondo.
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