In una New York metastorica l’elettrotecnico Lafayette è in rapporto con il megalomane direttore di un museo delle cere di Roma antica, un solitario anarchico italiano, un gruppo di femministe teatranti (fra cui Angelica che s’innamora di lui) e soprattutto con un piccolo scimpanzé di cui diventa padre putativo. Scritto con G. Brach e R. Azcona, questo film catastrofico, non disperato, anzi quietamente ottimista, è ricco di situazioni e invenzioni, svariante nel registro narrativo. Una favola angosciosa e ilare che s’avvale, come spazio drammatico, di una New York magica e allucinante, come vista dall’oblò di un’astronave.
Quattro amici _ un giudice (Noiret), un pilota di linea (Mastroianni), un ristoratore (Tognazzi), un produttore TV (Piccoli) _ si riuniscono in una villa di Neuilly, fuori Parigi, decisi a compiere un quadruplice harakiri gastronomico-erotico. Li accompagna, pingue angelo della morte, un’insaziabile e materna maestra (Ferréol). Scritto con Rafael Azcona, è probabilmente il più grande successo internazionale (di scandalo) nell’itinerario di Ferreri. Questo apologo iperrealista ha gli scatti di una buffoneria salace e irriverente, i toni furibondi di una predica quaresimalista e, insieme, l’empietà provocatrice di un pamphlet satirico; e chi lo prende per un film rabelaisiano, non ne ha inteso la sacrale tristezza. C’è piuttosto l’umor nero, la mestizia, la disperazione di uno Swift. Con qualcosa in più: la pena. La sua forza traumatica risiede nella calma lucidità dello sguardo, e nell’onestà di un linguaggio che Ferreri conserva anche e soprattutto quando non arretra davanti a nulla. Se si esclude parzialmente Mastroianni, forse il meno riuscito del quartetto, i personaggi non sono mai volgari. Nonostante le apparenze realistiche (di un neorealismo fenomenico e irrazionalistico), sfocia nel clima allucinato di un apologo fantastico come certi segni e invenzioni suggeriscono. Fotografia di Mario Vulpiani, costumi di Gitt Magrini, pietanze di Fauchon (Parigi). Premio Fipresci a Cannes 1973. Distribuito nei paesi di lingua inglese come Blow-out.
A Roma, in pieno giorno, compare nel cielo una statua di Gesù Cristo trasportata da un elicottero. La visione suscita l’interesse di gran parte della popolazione, dai ragazzi delle periferie alle ricche signore degli attici del centro storico, e un cronista, Marcello Rubini, ne approfitta per far immortalare le scene dai suoi amici fotografi e dal fedele fotoreporter d’assalto Paparazzo. Marcello è un aspirante scrittore che lavora per un giornale scandalistico, stazionando ogni sera di fronte ai locali di via Vittorio Veneto in cerca di qualche pettegolezzo o foto sensazionale sulle frequentazioni di personaggi del mondo dello spettacolo, di ricchi borghesi o di nobili in cerca di eccessi. Nonostante conviva con una donna molto gelosa e depressa, Emma, Marcello ha frequentazioni con donne di ogni tipo e di ogni ambiente. Nel giorno in cui arriva a Roma un’importante attrice svedese, Marcello accompagna la delegazione in un locale all’aperto tra le rovine romane e poi scappa con la donna per le vie del centro di Roma. Nel 1960 in Francia nasce la Nouvelle Vague e in Italia muore il Neorealismo. I fondamenti di quel cinema dell’indecidibilità del quotidiano, su cui molti giovani turchi dei Cahiers hanno concepito un’etica rigorosa e un’estetica radicale, vengono completamente riformulati da un’opera che allo sguardo stretto e ravvicinato delle “piccole voci” del Dopoguerra sostituisce la visione allargata del boom economico, soppiantando l’attenzione per miserie e indigenza con una panoramica che attraversa trasversalmente più classi sociali. La dolce vita impone un nuovo modo di guardare alla realtà: traccia un quadro più ampio e trasfigurato, capace di trattenere il respiro di un’intera epoca, al punto da diventare il paradigma non solo poetico ma soprattutto storico del suo immaginario. In una Roma rifigurata attraverso le pagine dei rotocalchi, la frenesia del divismo e il razionalismo dell’urbanizzazione, Fellini – con Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano (e Pasolini non accreditato) – fanno muovere in lungo e in largo il personaggio di Marcello Rubini, giornalista bello e amato quanto invisibile e inetto. Mastroianni crea la figura di un viveur tragico e insoddisfatto: un intellettuale meschino che vive nella mondanità e sulle spalle di essa, tanto frustrato dall’imbastardimento delle proprie aspirazioni letterarie quanto indolentemente appagato dall’incapacità a opporvi resistenza. Fellini si serve di Marcello per stabilire una continuità fra una serie di episodi senza un preciso legame narrativo, se non quello, più stretto, che racconta l’involuzione del personaggio e quello, più ampio, che cerca di dipingere un affresco delle varie realtà socio-economiche di Roma. In questa serie di sequenze temporalmente sconnesse, indefinite, sospese, Marcello attraversa varie forme e ambienti sociali (dai frequentatori e le ballerine dei night club alle prostitute della periferia dell’Appia Nuova, dai salotti intellettuali ai ricevimenti dei nobili nel viterbese) per narrare il grande spettacolo della decadenza contemporanea. Fellini concepisce ogni singolo episodio attorno a un’idea costante di apparizione-rappresentazione, all’interno di un paesaggio che si presenta vuoto e disabitato oppure caotico e sovraffollato. Continuamente sospese fra vitalità e senso di morte, sacro e profano, moralismo e trasgressione, le varie sequenze si costituiscono come altrettanti numeri di una messa in scena tenuta da manichini e faccendieri. Una rappresentazione metafisica e “neodecadente” allestita tanto negli orizzonti degli scenari quanto negli occhi dei personaggi (non ultimi, quelli della creatura marina del finale), nella quale possiamo scorgere non solo la patina dei rotocalchi di quegli anni, ma anche, come sosteneva Serge Daney, «una sorta di anticipazione ironica, perfino cinica, di quella che sarà la programmazione televisiva».
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Don Raffaele, professore di mandolino costretto a guadagnarsi da vivere sui marciapiedi, è incastrato in una serie di misteriosi omicidi che hanno per posta un bel gruzzolo di milioni. Corbucci e i suoi sceneggiatori si devono essere assai divertiti a scrivere e dirigere questo canovaccio macchinoso di sgangherata efficacia. Mastroianni si esibisce in un esercizio di alto macchiettismo buffonesco. Ultimo film di P. De Filippo.
Una bella ragazza finisce a sua insaputa sulla copertina di un giornale. È il primo passo verso il mondo dello spettacolo. Innamoratasi del fotografo che l’ha scoperta, fa il possibile per renderlo geloso flirtando con un nobile. I suoi sogni di gloria svaniscono di fronte alla dura realtà; le resta il fotografo che, accantonato l’orgoglio, dimostra di ricambiare il suo sentimento.
Diario di bordo di un esploratore (Snaporaz = Mastroianni = Fellini) nel suo viaggio sul Pianeta Donna, ma anche tentativo di autoritratto in forma di fantasia onirica, sincero di quella sincerità che in F. Fellini è sfilata, festa, carosello, bella confusione. Di straordinaria ricchezza inventiva, è anche un film sul cinema in chiave di memoria. Film passionale più che ideologico con la forza, e i limiti, di chi si mantiene nell’area autobiografica. Scritto con B. Zapponi e B. Rondi. 4 Nastri d’argento: regia, fotografia (Giuseppe Rotunno), scene (Dante Ferretti), costumi (Gabriella Pescucci). Musica: Luis Bacalov. Il Leitmotiv è di Meri Lao.
Giovane medico (M. Mastroianni), sostenitore di una nuova tecnica di parto indolore, ha una relazione con una delle sue infermiere (G. Ralli) che rimane incinta. Complicazioni. Perduti il brio e lo smalto dei primi film, qui L. Emmer si immerge nel rosa di una commedia all’insegna di un edificante didascalismo.
Èuno dei film televisivi scritti e diretti da Giannetti appositamente per Anna Magnani. Il suo personaggio è ancora una volta quello di una appassionata e coraggiosa popolana, Teresa, il cui marito, Augusto, giace malato nelle prigioni dello Stato pontificio, perché patriota oppositore del potere temporale della Chiesa. Con la breccia di Porta Pia, Roma torna italiana e i prigionieri politici vengono liberati: Augusto è però già in fin di vita e muore tra le braccia di Teresa che gli descrive commossa l’arrivo dei piemontesi in città.
Un uomo si divide tra la famiglia e l’amante e lavora nell’ambiente artistico con un compagno. Questa vita a suo modo ordinata e tranquilla viene improvvisamente sconvolta: il collega lo lascia, l’amante anche, un figlio comincia a rubare e la moglie aspetta un figlio da un altro.
Filumena Marturano è una giovanissima prostituta e Don Domenico Soriano è un signorotto benestante. I due si incontrano durante un bombardamento in una casa di tolleranza e l’uomo, intenerito e affascinato, fa di lei la sua amante per anni. Ma Filumena non si accontenta e, un giorno, finge la morte per farsi sposare in extremis. Scoperta la beffa, stupisce nuovamente il consorte informandolo di essere la madre di tre ragazzi, uno dei quali è figlio suo, ma si guarda bene dal rivelargli quale. Mentre cerca di scoprirlo, Domenico si accorge di essere, in verità, padre felice di tutti e tre i figli.
Un lavoro senza grande spreco di talento né per De Sica né per i suoi attori; solo professionismo. Si racconta l’incontro di July, un’americana condannata da una malattia incurabile, e Valerio. I due trascorrono una breve vacanza in montagna. L’uomo viene a conoscenza del male che minaccia la sua compagna e decide di restarle vicino.
Un antiquario è condotto a un posto di polizia per essere interrogato. Nessuno però gli spiega la ragione del fermo e l’uomo cerca di immaginare quale può essere la sua colpa. Ecco dunque che dai ricordi esce una sorta di esame di coscienza che comunque non lo porta vicino alla verità, che è ben più grave. È infatti sospettato di aver ucciso una donna. Quando il vero colpevole viene arrestato, l’esperienza sarà stata così intensa che la vita dell’antiquario cambierà.
Nella Lisbona del 1938, sotto la cappa del fascismo salazariano, un anziano giornalista culturale con la passione dei necrologi di scrittori illustri incontra due giovani impegnati nella lotta clandestina contro il regime e un medico colto e democratico che l’aiutano a uscire dal guscio della sua quieta neutralità. E a ribellarsi. Tratto dal romanzo (1994) di Antonio Tabucchi, è una limpida trasposizione secondo un criterio di scrupolosa fedeltà (con poche variazioni, e un’importante aggiunta nel finale) che è anche il suo limite. Un ottimo Mastroianni in perfetta osmosi con il personaggio. Un po’ spenti gli altri.
Bella mugnaia dai rustici vezzi accende le voglie di un governatore potente e babbeo. Ne derivano insidie all’onore coniugale e alla domestica pace. Remake di Il cappello a tre punte , realizzato nel ’34 dallo stesso Camerini con i De Filippo. Minestra riscaldata. E più gaglioffa. La Loren e la Sanson, per una volta insieme, gareggiano in scollature.
Publio Cornelio Scipione detto l’Africano e suo fratello Lucio detto l’Asiatico sono accusati da Catone, moralista accanito e un po’ opportunista, di essersi appropriati di 500 talenti, tributo di Antioco, re della Siria. Il colpevole è l’Asiatico, e l’integerrimo Africano lo denuncia a Catone. Poi, sapendo che l’ormai corrotta Repubblica non tollera gli onesti come lui, accusa se stesso davanti al Senato. Allora i senatori lo perdonano, ma lui sceglie l’esilio. 3° film di Magni, anche sceneggiatore, dopo il successo di Nell’anno del Signore… I riferimenti satirici a un’altra repubblica, quella italiana di due millenni dopo, sono evidenti, intinti di un’amarezza che affiora quando in questa commedia popolaresca le parole dei dialoghi prevalgono sulle immagini: la parlata romanesca la fa scivolare in una riduttiva goliardia. Fotografia: Arturo Zavattini. Musica: Severino Gazzelloni. Montaggio: Ruggero Mastroianni, Amedeo Salfa.
Un professore (lo scrittore G. Bassani, doppiato) assiste dalla celebre piazza romana ai casi malinconici di tre ragazze di borgata che lavorano in una grande sartoria. Scritto da S. Amidei, è il 3° film di Emmer, campione (milanese) del neorealismo rosa in salsa romana. Grazioso, garbato, con qualche pungente notazione sociologica, ma già sull’orlo dell’Arcadia neorealistica. Mastroianni è doppiato da N. Manfredi. Rifatto per la TV nel 1998.
Disavventure di un piazzista, sposino novello, nel quale una mitomane riconosce il proprio consorte fuggiasco. Nonostante le firme di S. Amidei (soggetto), V. Talarico e F. Rosi, inclina alla farsa più che alla commedia. Mastroianni sprecato, Valeri infallibile, De Sica strepitoso come smemorato principe del foro.
In un villaggio della Corsica vige un’usanza secondo la quale nelle osterie si elegge un capo che, per la durata di una bevuta, ha il diritto di giudicare gli astanti senza che questi possano replicare. Allo stesso modo, in paese, un riccone locale detta legge sulla vita altrui scavalcando l’autorità costituita.
Due giovani paesani dovrebbero sposarsi, ma non hanno i mezzi per affrontare l’apparato delle nozze con tutte le spese che comporta. D’accordo con i genitori, lui rapisce la fidanzata, per accelerare tutto.
E’ il ritratto di Massimo, piccolo delinquente di quartiere privo di scrupoli: tradisce l’amante Elena e cerca di farla abortire contro la sua volontà, fa arrestare il vecchio amico Daniele, simula il suicidio di un ragazzo che ha coinvolto in traffici illegali. Poi tutti i personaggi oppressi da Massimo si ribellano e lo denunciano alla polizia.
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