Toulon, 1815. Jean Valjean è il prigioniero numero 24601, condannato a diciannove inverni di lavori forzati per aver rubato un pezzo di pane sfamando un nipote affamato. Rilasciato a seguito di un’amnistia prova a ricostruirsi una vita e una dignità nel mondo, nonostante gli avvertimenti e le intimidazioni di Javert, integerrimo secondino della prigione convinto che un ladro non possa che perseverare nel male. Convertito al bene dall’atto caritatevole di Monsignor Myriel, Valjean prende coscienza dei suoi peccati e decide di mondare il suo destino, assumendo il nome di Monsieur Madeleine.
Pennsylvania, in una cittadina di provincia. La serena vita di Keller Dover – falegname benestante, moglie amata, erede maschio cui insegna a sparare agli animali e figlioletta deliziosa – è sconvolta quando, durante la consueta festa del Ringraziamento, la bimbetta sparisce insieme a una coetanea figlia dei vicini. Il detective Loki arresta un ragazzo ritardato che vive con una vecchia zia. Senza prove è rilasciato. Dover si scatena. Non è solo un thriller di indagine poliziesca (la sceneggiatura di Aaron Guzikowski non fa una grinza), né solo la storia di un’inarrestabile discesa all’inferno del protagonista ma anche del poliziotto – 2 non-eroi, 2 uomini molto diversi, 2 solitudini, 2 concezioni del mondo e dell’ordine -, ma un affresco moderno della provincia USA, dove la linda facciata nasconde sempre “altro”, dove il Male contagia, infetta, distrugge. Splendida fotografia (Roger Deakins).
Sondra (Scarlett Johansson) è una giornalista in erba che riceve dal fantasma di un famoso reporter, appena morto, alcune informazioni su un serial killer ancora in libertà. Sebbene grazie a circostanze ben poco credibili, Sondra ha in mano l’occasione della sua vita. E insieme al mago da avanspettacolo Sid Waterman inizia a seguire le tracce del presunto assassino, l’aristocratico e affascinante Peter Lyman. Woody Allen, dopo Match Point, gira ancora una volta a Londra, e si mette in gioco in prima persona, interpretando la figura di un improbabile mago dai trucchi da strapazzo. La sua presenza è sempre ben accolta dal pubblico perché garantisce una dose di battute (almeno tre indimenticabili) che danno colore e vita a un film semplice, a una commedia-thriller dai risvolti prevedibili, con il piacere di vedere gli attori immersi alla perfezione nei ruoli. La sua nuova musa Scarlett Johansson è coccolata da Allen a tal punto da farla apparire in quasi tutte le sequenze del film. La sua è ancora una volta un’interpretazione corretta, nei dettagli e nell’insieme. Poi viene Hugh Jackman che, abituato a ruoli fantasy, si trova comunque a suo agio nei panni del Lord inglese, con un sorriso accennato che stenderebbe ogni donna. E infine Woody stesso, in equilibrio fra magia e santità, che si mette in gioco e si diverte ancora a irridersi, a scherzare con la morte, a ironizzare su ebraismo e “Union Jack”, consapevole del fatto che Scoop è un giocattolino che non ha niente della perfezione di Match Point, e proprio per questo ha un finale tradizionale. Certo che, con le parole, Woody Allen le magie le fa veramente.
Londra, fine ‘800. Robert Angier (Jackman) e Alfred Borden (Bale) sono due prestigiatori/illusionisti di successo, specialmente il primo. Da amici com’erano, sono diventati più che rivali: si odiano. Nella loro acerrima competizione sono coinvolti il comune maestro di un tempo (Caine), una giovane apprendista (Johansson) e l’inventore (Bowie) di un marchingegno di teletrasporto. Come si dice nel film, ogni trucco è diviso in tre tempi: la presentazione, il colpo di scena e il prestigio, qualcosa che non si era mai visto prima. Sembra un film da (sullo) spettacolo, un esercizio elegante e sorprendente sull’illusione contrapposta alla realtà. Tratto da un romanzo di Christopher Priest. Grazie alla calibrata sceneggiatura – scritta con il fratello Jonathan – l’inglese C. Nolan va al di là e in profondo su temi gravi: ambizione, inganno, vendetta, ossessione, gelosia, insomma il legno storto dell’umanità. Alla resa dell’ambiente e dell’atmosfera dà molto la fotografia di Wally Pfister. Attori magnetici.
Thomas Creo è rispettivamente un conquistador, uno scienziato e un astronauta che vuole vincere la morte e salvare la donna che ama, Isabel: una scrittrice, una regina, un pensiero fatto albero di vita. Il viaggio epico di Thomas ha inizio nella Spagna del sedicesimo secolo, governata da Isabella e minacciata dal Grande Inquisitore, prosegue nello studio di un biologo del ventunesimo secolo e termina con un esploratore del futuro in viaggio verso Xibalba, una nebulosa lontana. Tre storie, un personaggio e un solo amore per tre periodi temporali che confluiranno davanti all’Albero della Vita, una pianta leggendaria la cui linfa dona a chi la beve la vita eterna. La ricerca dell’immortalità diventa una corsa contro il tempo per salvare il proprio amore. Ma è la morte l’unica via percorribile per ricongiungersi all’amata. Tutti vorremmo vivere per sempre ma nessuno ha più accesso diretto all’Albero della Vita, così facciamo i conti con la morte, la nostra e quella delle persone care. Darren Aronofsky prova a riflettere su questo desiderio di eternità ideando un racconto decisamente innovativo che attraversa lo spazio e il tempo alla ricerca della Fontana della Giovinezza. L’idea del regista è più magica che religiosa, il Thomas sospeso nella bolla è un mago divinatore che interroga le forze che governano il mondo per salvare chi lo abita. Il suo spirito, innalzato dalla disciplina (quella militare e quella scientifica), è al di sopra del mondo materiale ed esprime una cosmologia fantastica, sostenuta da scenografie ed effetti visivi squisitamente new age. Per concepire la fountain del titolo originale (la fontana della giovinezza viene intesa come un albero rovesciato), il regista si è ispirato alle culture e alle mitologie che meglio di altre hanno saputo rappresentarla. Combinando la cultura Maya con quella biblica, Aronofsky crea un mondo nuovo, che risulta familiare perché risponde a esigenze conoscitive e classificatorie presenti a tutte le società. Modelli archetipici noti e miti di creazione e di fondazione della realtà condivisi, che soddisfano il bisogno di cercare spiegazioni e di darsi ragione sul bisogno di infinità ed eternità. Ma L’albero della vita è anche e più semplicemente una storia d’amore, è una dichiarazione di fallibilità, è l’accesso negato al segreto della vita eterna e l’invito a rassegnarsi alla propria natura umana come fa la giovane moglie del protagonista. In tempi in cui si è persa familiarità con la morte, quella privata e non quella rappresentata in diretta (suicidio o esecuzione capitale), il regista statunitense ne affronta il mistero in un’opera controversa, sospesa e confusa tra fantasy e metafisica. Dopo Pi greco – Il teorema del delirio e Requiem for a dream, Aronofsky come Thomas prosegue la sua ricerca del significato ultimo della vita. Fosse anche celato dietro una stella estinta o dentro un amore ostinato.
Australia, 1939. Sarah Ashley, un’aristocratica inglese, lascia Londra alla volta di Darwin, decisa a ricondurre a casa e al talamo coniugale il proprio consorte. Scortata da un mandriano brusco e attaccabrighe alla tenuta di Faraway Downs, Sarah scopre con sgomento la morte di Lord Ashley e la crisi in cui versa il ranch. L’incontro con una terra orgogliosa e selvaggia e l’affetto per Nullah, un orfano nato da madre aborigena e padre inglese, la convincono a restare e a risollevare le sorti della proprietà.
Thomas Creo è rispettivamente un conquistador, uno scienziato e un astronauta che vuole vincere la morte e salvare la donna che ama, Isabel: una scrittrice, una regina, un pensiero fatto albero di vita. Il viaggio epico di Thomas ha inizio nella Spagna del sedicesimo secolo, governata da Isabella e minacciata dal Grande Inquisitore, prosegue nello studio di un biologo del ventunesimo secolo e termina con un esploratore del futuro in viaggio verso Xibalba, una nebulosa lontana. Tre storie, un personaggio e un solo amore per tre periodi temporali che confluiranno davanti all’Albero della Vita, una pianta leggendaria la cui linfa dona a chi la beve la vita eterna.
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