Un giovane pianista sta preparando un esame al conservatorio e, intanto, riscuote per il padre gangster i soldi ricavati da scommesse illegali. Gli toccherà vendicare il genitore, ucciso da un rivale. Sconvolto dall’episodio, non riuscirà a dedicare la necessaria attenzione al suo esame…
sostituita versione con questa 720p, non ho trovato versione in italiano
Il fragile Charlie è diviso tra la volontà di fare l’arrampicata sociale con l’aiuto di uno zio mafioso, l’amicizia per il mattocchio Johnny Boy e l’amore per la sua epilettica cugina. Ambientato nella Little Italy di New York con l’affetto di chi la conosce come le proprie tasche, il puntiglio di un antropologo, l’occhio attento al neorealismo italiano e l’estro di un narratore di razza, questo film violento e tenero rivelò il trentenne Scorsese e lanciò De Niro verso Il padrino – Parte II e Novecento .
Dei sei partecipanti alla rapina fallita di una gioielleria a Los Angeles – che non si conoscono nemmeno tra loro e sono stati ribattezzati con nomi di colori – due sono morti (Mr. Blue = Bunker e Mr. Brown = Tarantino) e un terzo (Mr. Orange = Roth) è ferito. I quattro superstiti si ritrovano in un deposito: uno di loro è una spia. Il deposito è il teatro principale dell’azione, frantumata in sconnessioni temporali che forniscono notizie su quel che è successo prima e dopo la rapina/trappola. Ottimo esordio di un giovane attore-sceneggiatore (1963) che allunga la lista eccellente dei registi americani di origine italiana con un film sotto il segno della morte e della violenza, caso raro di opera d’autore a basso costo nel quadro del cinema gangsteristico. Anche nella scena più cruda – la tortura del poliziotto – non c’è compiacimento: Tarantino è radicale, non morboso. Nella rappresentazione del mondo del crimine manca qualsiasi alone romantico. La compagnia degli interpreti è eccellente: oltre a Keitel (Mr. White) che del film è anche uno dei produttori, bisogna citare almeno Roth e Buscemi (Mr. Pink). Madsen è il sadico Mr. Blonde. Rititolato in Italia, con eguale insuccesso, Cani da rapina , dopo Pulp Fiction . V.M. 18 anni.
Tratto da un romanzo (1955) del greco Nikos Kazantzakis, si alimenta di tre idee strutturali. La prima è di raccontare un uomo che tenta di opporsi alla scoperta della propria divinità e che avrebbe potuto vivere una vita comune, ma è costretto ad accettare la sua missione ubbidendo a Dio padre. Questa è la parte che ha dato esca allo scandalo. La seconda idea è il rapporto di Gesù (Dafoe) con Giuda (Keitel), presentato come il primo, il più intelligente e appassionato dei suoi seguaci, costretto a tradirlo dal disegno divino, e con Maria Maddalena (Hershey), diventata prostituta a causa del suo rifiuto di amarla. La terza idea è la dimensione figurativa: Scorsese rifiuta i tre modelli cinematografici a disposizione (il colossal hollywoodiano, Rossellini, Pasolini) e persegue una propria via, discutibile ma sicuramente personale. Recupera la cultura cattolica meridionale di Little Italy di cui s’è alimentato nell’infanzia, la filtra attraverso la sua memoria di cinéphile onnivoro e la “cristologia” rock degli anni ’70 (eloquente la scelta di Peter Gabriel per le musiche) e tenta persino di rappresentare Cristo in modi “barbarici” come potrebbero vederlo uomini africani o latinoamericani, di cultura diversa da quella euro-occidentale. Il suo è un Dio delle debolezze che ha preso sul serio l’incarnazione e che ha uno spessore teologico maggiore di quel che è sembrato alla maggioranza dei critici e dei cattolici scandalizzati.
Debutto nella regia di Paul Schrader che riesce a cavare ottime prestazioni dai tre attori principali. Protagonisti sono gli operai di una fabbrica d’auto in conflitto sindacale (permanente) con i datori di lavoro. Quando capiscono (o credono) che il sindacato fa il gioco dei padroni, decidono di rapinare la cassa dell’associazione.
Palma d’Oro, ex aequo, al Festival di Cannes. L’originale regista di Sweetie e Un angelo alla mia tavola debutta nel grande cinema ufficiale. Ciò comporta co-produzioni, grandi nomi, capitali cospicui e una storia di buona presa per il pubblico.Ma la Campion mantiene intatta la sua personalità di autrice. Purtroppo la bravura tecnica questa volta sfiora il manierismo. Ancora una volta la protagonista è una donna con problemi di comunicazione con gli altri. È muta, vedova con una figlia, e per convenienza familiare deve sposare uno sconosciuto. Si trasferisce con lui in un’isola sperduta in Nuova Zelanda. Non le è concesso di suonare il piano, sua unica consolazione. Ma con l’aiuto di un uomo all’apparenza rozzo, in realtà molto sensibile, il suo desiderio sarà esaudito. Tra loro nasce un particolare idillio che farà uscire di senno il marito. Dopo colpi di scena degni di un melodramma, il lieto fine è d’obbligo.
A Los Angeles una macro-holding giapponese tratta l’acquisto di un gruppo americano. Durante la festa relativa viene uccisa una prostituta d’altissimo bordo. La scena è stata registrata, con tanto di immagine dell’assassino, il potentissimo Sakamura. Il capitano Connor (Connery) e il tenente Smith (Snipes) sono incaricati dell’indagine. Connor è un grande conoscitore della civiltà nipponica e sa muoversi fra i loro riti complicati. Si convince che Sakamura non è l’uomo giusto. I giapponesi, maestri in quel gioco, sono riusciti a truccare il disco audiovisivo. Viene in evidenza il solito senatore corrotto e odioso e l’altrettanto solito giovane manager impeccabilmente vestito. Fra karatè, filosofia orientale, golf e ammiccamenti amorosi, alla fine tutto va a posto.
Parte seconda di Smoke. C’è ancora la tabaccheria di Keitel a un incrocio di Brooklyn. Passano i soliti originali e diseredati: chi racconta, chi si fa scippare, chi fuma, chi ricorda. Ne esce un quadro di Brooklyn, città nella città, con una sua anima particolare. Viene persino resuscitato un campione di baseball degli anni Cinquanta. Il mite tabaccaio Harvey guarda tutto dal suo angolo. Film di montaggio e di fantasia, persino surreale. Ma come tutti i numeri due che hanno la tendenza a involversi e a strafare ecco che questo Smoke 2non ha il rigore e la semplicità del suo predecessore, capolavoro autentico. Fossero molti i film di allegra intelligenza come questo.
Dolorosa istoria della dodicenne sicula Rosa, figlia di un maniscalco alcolista: violentata da un gerarca fascista, finisce in riformatorio; maggiorenne, ritrova la madre fedifraga, la “vipera” del titolo, e forse il figlio che le fu tolto di forza e che fa il cantastorie. Il più anomalo e marginale dei cineasti italiani ha fatto il suo film più freak e meno consolatorio con 2 novità: l’ambientazione siciliana ai tempi di un’Italia ormai dimenticata, ma storicamente connotata e asse portante della nerissima favola, la maternità. La 1ª parte – la migliore – coincide con un soggetto ( La pietà di una cosa ) pubblicato nel 1989; nella 2ª si ha “l’impressione di assistere a un discorso privato, che segue una logica sua, lasciando in campo solo simboli che faticano a comunicare” (A. Pezzotta). Nemmeno l’esperta mano del cosceneggiatore V. Cerami v’ha posto rimedio. Melli, la “vipera”, è anche produttrice.
La vera storia di Meyer Lansky, mafioso bielorusso naturalizzato statunitense, esponente principale del cosiddetto “Sindacato ebraico”. Ritiratosi a Miami sotto la protezione dell’FBI decide di raccontare la sua storia al giornalista David Stone. Pian piano però si trasformerà in un gioco al massacro organizzato da Lansky per continuare a truffare tutto e tutti.
Il film, presentato a Venezia nel 1998 e scritto da Jane Campion in collaborazione con sua sorella Anna, racconta una storia di grandi passioni. Ruth (Kate Winslet) è una bella ragazza australiana che si reca in India alla ricerca di una nuova spiritualità. Quando la famiglia viene a sapere che Ruth viene plagiata da un Guru del posto, preoccupata, decide di affidare a P. J. (Harvey Keitel), consulente spirituale, il compito di riportare a casa la ragazza. Giunto in India, P. J. rimarrà incantato da Ruth e dalla sua sensualità e, se da un lato riuscirà a liberare la giovane dal plagio spirituale del santone, dall’altro non riuscirà a liberare se stesso dal grande potere seduttivo che Ruth esercita su di lui. Film intenso, ben girato, ben recitato.
Robin Wright, con il suo vero nome, vive sola con due figli a ridosso di un aeroporto. Ha un figlio problematico, affascinato dal volo. La sua carriera di attrice è in crisi da tempo, ora le viene offerta l’ultima possibilità: cedere per sempre i diritti della sua immagine, che verrà digitalizzata e utilizzata a piacimento dalla Miramount. Ma lei non potrà più recitare. 20 anni dopo il mondo è diviso in due blocchi: uno reale e uno virtuale. E il film passa dagli attori reali all’animazione. Tratto da Il Congresso di futurologia di Stanislaw Lem, che l’israeliano Folman ( Valzer con Bashir ) propone come singolare lettura del futuro digitale hollywoodiano. Il film funziona meglio con gli attori, una Wright magnificamente intensa, Keitel agente disincantato, Huston cinico produttore, Giamatti partecipe psicologo, mentre i voli fantasiosi del mondo virtuale popolato da avatar di famosi pittori, profeti, cantanti e celebrità varie non riescono a decollare.
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