Un regista gira un film su una coppia newyorkese in crisi. I problemi nascono per l’assoluta immedesimazione dei due interpreti e del regista. I primi consumano una violenta relazione e il secondo si innamora dell’attrice. Fino al drammatico finale. Ferrara, regista eclettico, nell’ultimo periodo ha trovato una stabilità qualitativa che non si riusciva a riscontrare nelle primissime opere. Fuller comunque rimane uno dei suoi riferimenti.
Questo può essere considerato a ragione il miglior film di questo eclettico, ma anche diseguale regista. Con King of New York un certo salto di qualità c’era già stato. Un film duro e violento ma non gratuito. Corrotto e drogato, un tenente di polizia ha sempre ostentato il suo potere con tutti. Spaccia, corrompe, ricatta come se si trattasse di normale amministrazione. Ma nella sua ottica del “tutto è permesso” ha un difetto: è cattolico praticante. Così, mentre è nei guai fino al collo per delle scommesse legate al baseball, si prende a cuore il caso di una suora che è stata violentata. La tragedia lo attende al varco. Servito non sempre bene dal doppiaggio, che fa risultare quasi ridicola la scena molto intensa della visione di Cristo in chiesa, il film ha avuto una inadeguata distribuzione sul nostro territorio.
A Vienna, nell’indagare sul tentato, forse istigato, suicidio di una divorziata americana (Russell), un ispettore di polizia (Keitel) scopre che ha una torbida relazione con uno studioso di psicanalisi (Garfunkel) affetto da gelosia possessiva e da inclinazioni perverse. Dopo alcune incursioni nel territorio congeniale del cinema fantastico, Roeg, noto direttore della fotografia passato alla regia, ha diretto questo labirintico sex melodrama, scritto da Yale Udoff, dove, più che i rimandi a Freud e a Pinter, contano le suggestioni figurative sotto il segno grafico di Klimt e Schiele. Affascinante, intrigante, ai limiti del Kitsch. Musiche degli Who, Keith Jarrett, Billie Holliday. È il 1° dei film che la Russell ha interpretato sotto la guida del marito.
Fred e Mick sono due amici da moltissimo tempo e ora, ottantenni, stanno trascorrendo un periodo di vacanza in un hotel nelle Alpi svizzere. Fred, compositore e direttore d’orchestra famoso, non ha alcuna intenzione di tornare a dirigere un’orchestra anche se a chiederglielo fosse la regina Elisabetta d’Inghilterra. Mick, regista di altrettanta notorietà e fama, sta invece lavorando al suo nuovo e presumibilmente ultimo film per il quale vuole come protagonista la vecchia amica e star internazionale Brenda Morel. Entrambi hanno una forte consapevolezza del tempo che sta passando in modo inesorabile. Paolo Sorrentino era atteso al varco con questo film che arriva dopo l’Oscar de La grande bellezza e la sua estetica così personale tanto da aver diviso critica e pubblico in estimatori e detrattori molto decisi. Per di più il regista tornava in competizione a Cannes dove solo due anni fa la giuria non aveva degnato del benché minimo riconoscimento il film ricoperto successivamente da molteplici allori. Il rischio maggiore però, che era più che lecito paventare da parte di chi amava il suo cinema ma non era impazzito di gioia dinanzi al suo ultimo lavoro, era quello di ritrovare un Sorrentino ormai divenuto manierista di se stesso. Il trailer del film seminava più di un indizio in tal senso ma, fortunatamente, i trailer non sono i film. Perché il Sorrentino regista è tornato a confrontarsi con il Sorrentino sceneggiatore. Se entrambi avevano deciso di convivere senza intralciare il lavoro dell’altro dando così luogo a ridondanze e compiacimenti oltremisura, in questa occasione l’uno non ha concesso all’altro (e viceversa) più di quanto fosse giusto concedergli. Ne è nato così un film compatto a cui non nuocciono neppure le molteplici sottolineature del finale. Perché questa volta il modello di Sorrentino torna ad essere se stesso, senza più o meno consci confronti con i maestri che, anche quando citati, vengono metabolizzati nel suo universo creativo. Non mancano anche qui personaggi più o meno misteriosi che appaiono e scompaiono e a cui ora è comunque lo spettatore a poter assegnare la valenza simbolica che preferisce. Perché Fred e Mick sono persone che sono state personaggi nella loro vita ma che su questo schermo tornano a presentarsi come persone. Con le loro angosce, con le loro attese, con i loro segreti e, soprattutto, con la consapevolezza di una memoria destinata a perdersi nel tempo come le lacrime del Roy Batty bladerunneriano. Sorrentino non ne fa due vecchie glorie più o meno coscienti delle proprie attuali forze fisiche e intellettuali ma offre loro anche i ruoli di genitori che conoscono luci ed ombre di un’arte altrettanto difficile: quella che i figli pretendono che venga esercitata nei loro confronti, non importa in quale età essi si trovino. In tutto ciò, ci si può chiedere, che ruolo viene assegnato alla giovinezza del titolo? Quello di specchio riflettente (e deformante al contempo) di passioni, desideri, fragilità. Su tutto questo e su molto altro ancora Sorrentino torna a trovare la profondità, la leggerezza ma anche la concentrazione che permettono al film di levitare. Chi lo vedrà capirà il senso del verbo.
Dopo una sanguinosa rapina in una banca del Texas, i due fratelli Seth (G. Clooney) e Richard (Q. Tarantino) prendono in ostaggio un predicatore disilluso che viaggia in camper con due figli (J. Lewis e il piccolo E. Lui) e sconfinano nel Messico dove approdano al locale “Titty Twister”. Un volo finale in dolly della cinepresa svela il mistero. Basato su una vecchia (1990) sceneggiatura di Q. Tarantino, il 3° film del messicano Rodriguez ( El Mariachi ) – anche operatore alla macchina e montatore – è una sagra del tarantinismo più trash , in altalena tra la parodia cinica e l’estasi del pecoreccio. L’edizione originale era di 108′, potata vigorosamente in quella italiana, insignita tuttavia di un V.M. 18 e ancor più ridotta per farla passare in TV.
Qui Tarantino è attore non regista. Mamma mia cos’era Salma Hayek in questo film.
Nella Little Italy di New York J.R. passa le sue giornate con gli amici Joey e Sally (Salvatore) detto Gagà, tutti e tre vitelloni un po’ ribaldi, americanizzati ma ancora impregnati della cultura dei loro genitori immigrati dall’Italia del Sud. 1° film lungo di M. Scorsese, girato a basso costo (40 000 dollari), parzialmente in 16 mm, influenzato da Godard e Cassavetes. Appare a ritroso come un brogliaccio di Mean Streets (1973) dove il racconto è subordinato alla descrizione dell’ambiente e dei personaggi sui temi dell’educazione sessuale, dell’etica sessuale e del maschilismo. La legna di Scorsese è ancora verde, e spesso fa fumo, ma è legna buona. 1° film di H. Keitel. Altri titoli: Bring on the Dancing Girls , I Call First , J.R. Distribuito in Italia nel 1978.
La giovane Maggie è condannata a morte per l’omicidio di un agente. Dopo una finta esecuzione viene invece addestrata, grazie alla sua particolare aggressività, per diventare una killer professionista. Così da un lato viene introdotta alle tecniche di difesa e di offesa e, al contempo, le vengono insegnate le buone maniere. Il suo primo incarico sarà quello di eliminare un individuo minaccioso insieme alla sua scorta. Ma c’è una trappola che l’attende. Il titolo italiano rimanda con intenti commerciali al film di BessonNikita (e difatti di remake si tratta) ma in The Assassin c’è anche dell’altro. C’è da un lato l’attenzione nel seguire una psicologia che viene progressivamente plasmata per uccidere non più in nome del crimine ma della legge e c’è alla regia un Badham nella sua veste più positiva. Il regista offre un ritmo serrato a una protagonista come Bridget Fonda che riesce a mostrare con raffinatezza (per quanto possibile in un film di azione) come il potere possa trasformare una personalità ai propri fini. Anche se… c’è poi (e non poteva mancare) uno sguardo made in Usa che cerca quanto e più vicino a un possibile happy end. L’Europa è lontana.
Harry e Moe, uno italo-americano, l’altro ebreo-italiano, due criminali di piccolo calibro, vivacchiano alle dipendenze di un boss che li usa come cavie (assaggiano i cibi o avviano il motore dell’auto per proteggerlo da eventuale omicidio) e sognano di avere un ristorante. Un giorno scappano con l’ingente somma che dovevano puntare, per il capo, su un altro cavallo. Ne vedranno di tutti i colori ma poi riusciranno a recuperare i fondi per il loro ristorante.
I due maestri del genere fantastico si sono divisi in parti uguali un omaggio allo scrittore Edgar Allan Poe. Romero ha trasposto La verità sul caso di Mr. Valdemar, nel quale un vecchio sta per morire ma non intende favorire nel testamento la giovane moglie. Lei cerca in tutti i modi di liberarsi di lui, ma senza perdere l’eredità. La scelta di Argento è caduta su Il gatto nero opportunamente riadattato: un fotografo specializzato in raffigurazioni sanguinose e criminali vive con una violinista che possiede un gatto nero. L’animale ossessiona il fotografo che decide di sopprimerlo. Due stili diversi attraversano gli episodi: quello di Romero ha un taglio claustrofobico, quasi televisivo, mentre quello di Argento, di gran lunga migliore, crea suggestioni di taglio visionario che lo rendono inquietante. Particolarmente incisiva l’interpretazione di Harvey Keitel.
Dal romanzo omonimo di Richard Price. Della morte violenta del gestore notturno di un fast food a Brooklyn (New York) si accusa un nero, onesto padre di famiglia, ma l’anziano poliziotto bianco Rocco Klein concentra le indagini su un suo fratello sedicenne che spaccia droga pesante. Sul piano del racconto realistico corale sulla cultura della droga e della violenza nei ghetti neri, alimentata dai mass media, è ineccepibile, ma su quello dei risultati espressivi rivela uno S. Lee riconciliato e un po’ incerto. In un primo tempo doveva essere diretto da Martin Scorsese che ne è uno dei produttori.
Indispone già nei titoli, quando il nome Leonardo Pieraccioni entra trionfante e precede quello di Harvey Keitel. Nel suo west il regista cita Leone (i lunghi duelli), Pollack (le montagne di Corvo Rosso), Costner (gli indiani e la lingua) e altri. Tocca persino i classici alla Ford, con qualche tentativo di mito di frontiera (il pistolero solitario Keitel che arriva da lontano). Sì, davvero diligente Veronesi, ha esplorato proprio tutto. Pieraccioni è Doc, ben visto nel villaggio. Arriva Johnny, suo padre, che ha un passato, e cominciano i guai. C’è naturalmente il killer che vuole ucciderlo per farsi una reputazione. Pieraccioni è esattamente lo stesso personaggio del Ciclone e dei Fuochi d’artificio, raccapricciante in quel contesto. Il tutto narrato da un bambino, figlio di Doc, che fa anche discorsi ecologici. Risolviamo il giudizio con un quesito: come avrebbe commentato John Ford (ma vale per Hawks, Mann, Sturgess, De Mille e altri) la facciotta furbesca e borghesina e le spallucce spioventi di Leonardo se qualcuno gliele avesse proposte per un casting?
William F. Cody ovvero Buffalo Bill, sul finire del XIX secolo dirige una spettacolo circense che rievoca le sue imprese. Tra i tendoni si aggira, non gradito, Ned Buntline, colui che ha trasformato un cacciatore di bisonti in un mito inventandone in buona parte le imprese. Per attrarre un maggior numero di spettatori Cody ingaggia il vero Toro Seduto il quale parla con lui solo attraverso un portavoce. Il rapporto tra i due non è dei migliori ma il capo indiano vuole fondamentalmente conservare la propria dignità. Robert Altman, dopo aver dedicato il suo capolavoro Nashville all’America in cui vive torna a celebrare a suo modo il Bicentenario andando a scavare alle radici del mito fondante cioè quello del ‘selvaggio West’. Lo fa con una star (Paul Newman) nel ruolo di una star di una leggenda che vive più di finzione che di realtà ripartendo da quel circo con cui aveva chiuso Anche gli uccelli uccidono. Gli spettacoli del West Wild Show di Buffalo Bill sono stati reali (sono giunti anche in Italia per ben due volte) così come originali sono le marcette che vengono eseguite nel film ma quello che più conta in questo film non è la traduzione cinematografica di un altro celebre film: L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford con la sua celebre frase su leggenda e realtà. Altman vuole sì entrare polemicamente a dire la sua sul rapporto tra cowboys e pellerossa e, in senso ancora più lato, tra l’istituzione e ciò che è diverso (vedi il Presidente in visita allo Show) ma soprattutto sta elaborando un saggio teorico sul rapporto tra realtà e rappresentazione. Non è un caso che sia Buntline (interpretato da una star come Burt Lancaster) a offrirci una precisa cifra di lettura del film: è lui che ha ‘creato’ Buffalo Bill, è lui che ne viene tenuto a distanza ora che il mito si è consolidato ed è sempre lui ad abbandonarlo ai soliloqui allucinati che possono solo tradursi in un’ennesima finzione con se stesso e con gli altri. La scena in cui Toro Seduto (che nel gioco continuo tra essere e apparire risulta troppo poco imponente in relazione alle imprese che gli vengono attribuite, entra di notte nell’appartamento di Cody è rivelatrice. Sorpreso nel sonno la prima cosa di cui il nostro ‘eroe’ si preoccupa è di essere stato sorpreso senza il suo toupet tutto boccoli ricadenti sulle spalle. La finzione è stata rivelata e a nulla varrà il tentativo di Buffalo di screditare il capo indiano nel momento in cui entrerà per la prima volta in pista. Per i due il modo di rapportarsi con la rappresentazione è estremamente diverso e in questo sta anche il lor modo di affrontare la realtà.
Dopo il crollo del Terzo Reich, l’ingresso delle truppe alleate in Berlino dà avvio, oltre che alla spartizione della città, al processo di denazificazione. Chiunque abbia collaborato coi nazisti deve essere epurato. Cio’ avviene in tutti i settori, nessuno escluso. Un alto graduato americano, interpretato da Harvey Keitel, ha l’incarico di occuparsi di Wilhelm Furtwangler, il famoso direttore d’orchestra. Il Maestro è principalmente accusato di aver diretto un concerto in occasione del compleanno di Hitler. Lo scontro tra l’accusatore e l’accusato occupa ampia parte del film. Ma non si tratta né di un film biografico, né, ancor meno, di una di quelle opere che mutuano dal cinema processuale le loro figure retoriche. Grazie alla recitazione dei protagonisti il confronto tra due uomini si tramuta in uno scontro tra culture. Su un tema facilmente manipolabile come è quello dell’acquiescenza alla dittatura, Szabó innesta una riflessione sulla chiusura mentale del militare statunitense. Anche nel compiere un’azione utile e necessaria dimostra i limiti di una cultura con radici troppo recenti per potersi addentrare in territori ‘alti’. Quando poi la giovane assistente dice all’americano: “Sono stata interrogata dalla Gestapo e i metodi erano come i suoi” la memoria non può non andare alla prigione di Guantanamo. Coraggiosa la Berlinale a programmarlo.
A. (Keitel), regista greco, torna in patria per la prima di un suo film e per cercare tre bobine di un negativo ( Le tessitrici ) impressionato nel 1905 dai fratelli Maniakas, pionieri del cinema, girovaghi nei Balcani. Il suo viaggio di ricerca attraversa Albania, Macedonia, Bulgaria, Romania e approda alla straziata Sarajevo dove l’attende un anziano cinetecario (Josephson). (La parte era destinata a Gian Maria Volonté, morto dopo pochi giorni di riprese.) Capolavoro imperfetto? Nella malinconica liturgia solenne del suo cinema di riflessione sulla Storia le pagine opache non mancano, ma le pagine riuscite sono di alto livello, e più numerose. Scritto con Tonino Guerra e Petros Markartis, il 10° film di T. Anghelopulos conferma che questo regista isolato, peculiare e inimitabile è uno dei pochi cui si può attribuire la qualifica di “europeo”: il suo è “un invito alla ragione (non alla ragion di Stato), di cui abbiamo bisogno perché il relativo sonno non generi altri goyeschi mostri” (L. Pellizzari). Non c’è ritorno a Itaca per il suo Ulisse: l’epica sfocia in tragedia. Lo sguardo innocente dei pionieri del cinema è perduto per sempre. Gran Premio della Giuria a Cannes 1995 quando la Palma d’oro toccò a Underground di Kusturica, come dire l’Odissea e l’Iliade di questa fine di secolo.
Ha avuto dieci nominations per l’Oscar e ne ha vinti solo due minori (direzione artistica e costumi). Beatty e Keitel, pur non avendo l’Oscar per l’interpretazione sono i migliori sul campo. Infatti la regia di Levinson, brillante ma anche plateale, ha solo qualche vero sprazzo: come un dialogo tra Beatty e la Bening creato con le ombre cinesi. L’immagine poi di questo gangster assassino è troppo ambigua. Troppo simpatico, eppure sanguinario, troppo romantico nel suo sogno di creare Las Vegas ma al tempo stesso pronto a uccidere un grande amico con le lacrime agli occhi. E come le “prime” delle opere di Puccini, l’anteprima della Città del gioco è un fiasco per poi esplodere commercialmente una volta che il creatore è morto. Garbata la musica di Morricone, candidato all’Oscar.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Un ex marine, reduce dal Vietnam, fa il tassista di notte e ne vede di tutti i colori in una New York lercia e violenta. Scritto da Paul Schrader, è un compendio del realismo violento degli anni ’70 di cui riprende, trasfigurandolo, il tema del giustiziere privato. Può essere letto come una parafrasi urbana di Sentieri selvaggi (1956) di John Ford. De Niro è eccellente nel rendere l’ambigua schizofrenia di Travis. Ultima colonna musicale di Bernard Herrmann, musicista preferito di Alfred Hitchcock, e funzionale fotografia di Michael Chapman. Palma d’oro a Cannes per il miglior film.
Premiato al Festival di Berlino con l’orso d’argento. Hurt è uno scrittore che ha perso la giovane moglie, incinta, Keitel un tabaccaio di Brooklyn. Nella sua tabaccheria passa il mondo, per lo più poveracci. Mentre Hurt dà asilo a un giovane nero in cerca di un padre mai visto, Harvey affronta una drogata che forse è sua figlia.Nel frattempo si racconta: vicende nella vicenda, pure parole. Keitel ha riempito decine di album della stessa fotografia. Da oltre dieci anni, alle otto del mattino, nella stessa posizione, fotografa l’incrocio davanti al suo negozio, col caldo, col freddo, con tanta gente diversa. Casualmente viene inquadrata anche la moglie dello scrittore, che si commuove fino a piangere. Il “New York Times” commissiona a Hurt il racconto di Natale, è una grande occasione per lui, ma non ha l’ispirazione. È Harvey che lo aiuta, raccontandogli una storia straordinaria, di un certo natale di molti anni prima. Nel frattempo tutti i personaggi, proprio tutti, stanno sempre fumando qualcosa. Il film ha anche questa funzione, è una grande promozione del fumo. Film straordinario, il migliore dell’anno insieme a Lisbon Story. Film di parole, dove per una volta vale più lo scrittore del regista. Non è un caso infatti che il film rechi la firma di entrambi. Paul Auster, lo scrittore, è uno dei grandi talenti emergenti nel panorama americano. Si dimostra che la qualità vera, l’intelligenza, il talento recitativo, valgono sempre, e moltissimo. Per lunghe sequenze i due protagonisti raccontano a macchina ferma sul primo piano. Gli ultimi cinque minuti, che visualizzano il racconto natalizio di Keitel, possono entrare nella leggenda del cinema. Un omaggio infine a Harvey Keitel, presente in tanti film decisivi del nostro tempo. La ragione c’è: è il migliore attore cinematografico del mondo.
A causa di un errore, il computer del Ministero della Difesa americana ordina un attacco nucleare sulla città di Mosca. Il presidente e i capi militari si lanciano in una corsa contro il tempo per impedire la catastrofe mondiale. Rifacimento di “A prova di errore” 1964.
Chi ha voluto leggere nella vicenda umana di queste due ragazze di provincia una mera fiaba didascalica sul femminismo si perde il microcosmo racchiuso nei…continui giochi di rimando di significati creato dall’armonia del compenso tra la spigolosità del volto della Sarandon e quello da bambola della Davis.E così nei loro nomi, spesso ipostatizzati nella forza fagocitatrice di un titolo che suggerisce la smania di un brand o di un marchio di sigarette, vi è la fragilità disperata con cui le due ragazze abdicano allo stillicidio quotidiano per risorgere in un anomico non luogo dei ruoli sociali, che le accompagnerà per tutta la loro corsa fino al Gran Canyon. In realtà, la tensione dell’intera pellicola, è una spinta continua sul pedale dell’emancipazione delle due protagoniste. La risata degli ultimi fotogrammi, immortalata nell’immaginario collettivo delle generazioni cinematografiche a venire, non è follia, né un cedimento momentaneo e irreversibile all’emotività, ma la più alta affermazione di dignità e libertà. Scelgono di non esserci più per esserci per sempre: il fotogramma finale dell’auto sospesa nel dirupo è metafora dell’ellisse di una fine che coincide con un inizio. Gli sguardi complici non indicano nulla di improvvisato, anche se lo spettatore viene colto di sorpresa a perpetrare la sua incredulità: perché l’auto di Thelma & Louise, se anche fosse in nostro potere proiettare degli ideali fotogrammi successivi, sul fondo del dirupo del Gran Canyon, non ci arriverà mai. Pellicola di un eccellente Ridley Scott che trascende qualsiasi genere, pur possedendo uno scheletro western, con la scenografia di uno sterminato Arkansas a fare da sfondo, e più che mai attuale e paradigmatico in una generazione in cui la violenza e l’eccidio femminile appare tutt’altro che sopito dai resoconti della cronaca nera. Il viaggio tutto interiore che le trasporta dall’Arkansas all’Oklaoma, fino al Colorado, con la scelta irreversibile dell’omicidio dell’uomo, ne rivela la fragilità ma anche l’incapacità di rapportarsi a un universo maschile assolutista e prepotente, palesandone la mancata educazione alla necessità di una complementarietà dei ruoli sessuali (ti elimino perché sei un ostacolo, perché ti reputo distruttivo ma anche insormontabile all’impellente e disperante necessità di affermazione del mio Io; ti ammazzo poiché la stessa dimensione collettiva del momento storico non contempla una tale chance di scambio dialettico ed edificante; ti uccido perché è tutto ciò che mi resta per dimostrarti e dimostrarmi che non sei il più forte).
Un giovane pianista sta preparando un esame al conservatorio e, intanto, riscuote per il padre gangster i soldi ricavati da scommesse illegali. Gli toccherà vendicare il genitore, ucciso da un rivale. Sconvolto dall’episodio, non riuscirà a dedicare la necessaria attenzione al suo esame…
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