Roma 1922, alla vigilia della Marcia. Capitato in una famiglia di anarchici da operetta, giovane provinciale si fa passare per sovversivo inviato dalla Spagna per compiere un attentato. Film tutto di testa ma delizioso, di una buffoneria sempre lucida e controllata, senza una stecca né una concessione alla volgarità, alla facilità, con una durata comica eccezionale. Tutto è di gusto raffinato. Uno dei rari film comici di A. Delon. E di R. Clément
Le inchieste del commissario Maigret è una serie di sedici sceneggiati divisi in quattro stagioni, per un totale di trentasei puntate, andata in onda sulla RAI dal 1964 al 1972 per la regia di Mario Landi, con Gino Cervi nel ruolo di Maigret.Fotografati in bianco e nero, gli sceneggiati ebbero molto successo: l’ultima serie riuscì ad incollare davanti alla televisione diciotto milioni e mezzo di telespettatori[1]. Per le prime due serie, andate in onda fra il 1964 e il 1966, gran parte delle sequenze, persino per alcune ambientazioni da esterno, erano girate in interni, nei teatri di posa e studi televisivi della RAI. Solo poche sequenze, fra le quali quelle delle sigle iniziali, venivano filmate a Parigi in esterno, per assicurare qualche momento di maggiore autenticità alla ambientazione. Negli anni successivi, per la terza e quarta serie, andate in onda fra il 1968 e il 1972, potendo contare su una tecnologia televisiva più evoluta, poté essere inserito un maggior numero di sequenze girate in esterni[2] Dello stesso regista e sempre con Gino Cervi nel ruolo di Maigret, il filmitalo–francese del 1967Maigret a Pigalle: le atmosfere e le ambientazioni sono le stesse della serie televisiva, ma il film è a colori e cambia parte del cast. Per una singolare coincidenza, nello stesso anno 1972 in cui viene mandato in onda l’ultimo episodio della serie tv, che è proprio quello nel quale Maigret va in pensione, si assiste anche al ritiro dalle scene di Gino Cervi come attore e di Georges Simenon come autore del celebre commissario, dato che in quello stesso anno pubblica il suo ultimo romanzo con Maigret protagonista (Maigret e il signor Charles).
Dopo l’8 settembre del ’43 il partito fascista di Ferrara stringe le fila, ma è lacerato tra due diverse tendenze: quella del moderato federale Bolognesi e quella del fanatico Aretusi, che fa assassinare il primo e, attribuendo il delitto agli antifascisti, scatena una violenta rappresaglia, facendo fucilare undici ostaggi. Ma il tempo cancella molte cose: il figlio di una delle vittime, Franco, fuggito in Svizzera, torna a Ferrara dopo 18 anni e incontrando Aretusi gli stringe cordialmente la mano.
Èun’ennesima versione del romanzo di Tolstoj sceneggiato oltre che dallo stesso Duvivier anche dal celebre commediografo Jean Anouilh. L’interpretazione di Vivien Leigh, diversissima da quella della Garbo, è efficacissima.
Nell’Inghilterra del XII secolo Enrico II nomina arcivescovo di Canterbury Thomas Becket, già suo cancelliere e amico. I rapporti tra i due si guastano: prima la libertà della Chiesa, poi l’amicizia. 7 nomination ma un solo Oscar per E. Anhalt che riscrisse con sagacia il noto dramma di J. Anouilh. Teatro in scatola con un superbo duetto di protagonisti. Tutti gli altri ok. Accurata la scenografia.
Clara Manni, ex commessa diventata una divetta del cinema commerciale, sposa con riluttanza un produttore al quale chiede di poter interpretare un film su Giovanna d’Arco. Il film è un fiasco e per aiutare il marito a risollevarsi prende parte a un film mediocre ma redditizio, poi divorzia. 2° lungometraggio di M. Antonioni che riesce soltanto in parte a descrivere il mondo del cinema, analizzandone la mercificazione, la precarietà, il mediocre cinismo. Lo schema narrativo è ancora melodrammatico, ma sono le decantazioni, le diramazioni, i prolungamenti, i modi di costruzione dell’inquadratura, gli sfondi figurativi che contano. È una tipica opera di transizione tra il vecchio e il nuovo. Giudicandolo troppo autobiografico, Gina Lollobrigida rifiutò la parte. Grolla d’oro per A. Checchi.
Nel fantastico regno di Kindaor, su cui regna Sedemondo che ha ucciso il fratello Licinio, usurpandone il trono, il passaggio della corona di ferro sancisce la rovina del tiranno e la pace tra due popoli. Film in costume, ma buttato sul fantastico della favola, con latenti venature pacifiste. Sorta di parabola ariana complicata da ossessioni erotiche e contaminazioni culturali diverse, tra Ariosto e Sem Benelli. Momenti di Kitsch sublime. 3° film di M. Girotti, che lo lanciò: bello come un Tarzan.
Una domestica non più freschissima (interpretata con verve da una Elsa Merlini riproposta come primadonna dopo i fasti dell’anteguerra) passa da un “servizio” all’altro e intrattiene col maturo fidanzato un rapporto piuttosto turbolento: ciò consente di cucire tra loro alcuni episodi moderatamente divertenti.
Un gruppo di italiani è a Palma in cerca d’avventure sentimentali. Due giovanotti della compagnia finiscono però nelle reti tese da alcune mamme desiderose di accasare le figlie. C’è anche un maturo industriale che si fa spillar quattrini dall’amichetta; c’è l’astuto zoppetto italiano Pandolfini, e tanta altra “fauna” eterogenea.
Un industriale cerca di corrompere il vicesindaco sfruttandone la vanità oratoria, per evitare che la veduta panoramica della sua villa venga deturpata da un ospizio. La fuga d’amore di due adolescenti manderà all’aria il proposito.
Un’americana sposata trascorre qualche settimana di vacanza a Roma. Qui si innamora di un professore e ne diventa l’amante. Un giorno, dopo una telefonata da casa, la donna decide di partire. A nulla valgono i tentativi dell’uomo per trattenerla: la paura dello scandalo è più forte di lei, benché giuri allo spasimante che lo amerà per sempre.
Un agente segreto tedesco emissario di Canaris, capo dello spionaggio tedesco, cerca di impedire l’entrata in guerra di Germania e Italia. La missione, è ovvio, fallisce.
Nel 1937 arriva, in una cittadina del meridione (gli esterni sono girati a Matera), un assicuratore che viene scambiato per un gerarca inviato per una ispezione, e colmato di attenzioni e favori. La trilogia satirica sul fascismo di Zampa, scritta da V. Brancati, morto nel 1954, diventa quadrilogia con questa commedia, sceneggiata da E. Scola e R. Maccari, inclini a raccontare una storia del passato con l’occhio al presente. Il lontano modello è L’ispettore generale (Revizor, 1836) di N.V. Gogol. Mette in valore Manfredi e il suo duttile gioco di rimessa e una compagnia di bravi attori tra cui spicca S. Randone.
Questo film, che segna il debutto cinematografico di Elisa Cegani e nel quale appare lo stesso Blasetti in una piccola parte, narra la storia di un ufficiale di marina che mette in pericolo la sua carriera per i capricci della moglie. Solo dopo un’importante missione si ristabilirà l’equilibrio della coppia.
Alla base della vicenda troviamo l’incontro-scontro fra il commendator Paoloni (Gino Cervi) con Gennaro Vaccariello (Totò). Paoloni è un “esperto soccorritore” di persone finite per incidente o tentativo di suicidio nelle acque del Tevere e Gennaro diventa per lui il venticinquesimo caso di salvataggio di cui fregiarsi. Di lì a poco si pentirà del nobile gesto quando Gennaro imporrà con varie astuzie la sua presenza (con figli al seguito) in casa Paoloni, ma col passare del tempo si accorgerà che proprio Gennaro saprà essergli più amico rispetto a chi credeva erroneamente persona di fiducia e che lo aiuterà tanto nella risoluzione di problemi sentimentali quanto nel lavoro, salvando la sua azienda dal fallimento. Sarà per la felice accoppiata di due attori del calibro di Totò e Gino Cervi, sarà per la storia ben costruita, Il coraggio colpisce e convince. Forse soprattutto perché si muove bene fra le corde del comico e quelle del drammatico, toccando con leggerezza i delicatissimi temi della vita e della morte e l’eterno gioco delle parti fra ricchezza e povertà. Il film inoltre trasmette in maniera sorridente valori profondi come quelli della generosità, della fedeltà, dell’onestà… Tutto ciò in modo originale, perché Totò non interpreta certo uno stinco di santo, ma un poveraccio che ha fatto di necessità virtù specializzandosi nell’arte di arrangiarsi per salvaguardare sé e i suoi numerosi figli. La sua furbizia, che conquista da subito lo spettatore e lo fa divertire nel corso della vicenda, è perfettamente controbilanciata dall’integrità sui generis del personaggio, che si rivela a modo suo un benefattore. Oltre all’espressiva recitazione di Cervi e Totò (davvero efficaci certi primi piani sui loro volti) il film funziona grazie a una ben architettata sceneggiatura che dà rilievo anche a personaggi secondari (come l’amante di Paoloni) e al subplot sentimentale della storia fra il figlio di Gennaro e la figlia del commendatore. Per tutti questi motivi Il coraggio si rivela una commedia di grande spessore.
La vicenda ha per protagonista un pittore dalla doppia personalità, che sotto le spoglie dello spadaccino Formica si batte per il popolo oppresso dal viceré di Napoli e dal conte Lamberto.
Commesso viaggiatore, sposato, accetta di fingersi marito di una ragazza incinta che ha paura di tornare dai suoi, gente di campagna e all’antica. Il trucco viene scoperto, ma lui riesce a far perdonare la ragazza-madre. Sceneggiato da De Benedetti, Zavattini e Amato, è garbato e incisivo nella 1ª parte, un po’ convenzionale e dolciastro nella 2ª. Fu considerato – con Ossessione e I bambini ci guardano – uno dei film che anticiparono il neorealismo postbellico. Rifatto 2 volte, come Era di venerdì 17 (1956) e Il profumo del mosto selvatico (1995).
Nella Roma imperiale viene misteriosamente assassinato un senatore. Fabiola, sua figlia, crede, come tutti, che i colpevoli siano i cristiani ma in seguito, imparando a conoscerli, si persuade della loro innocenza. Le persecuzioni fanno strage delle innocenti vittime; intanto Costantino, con l’armata cristiana, si sta avvicinando.
Ettore Fieramosca, famoso cavaliere di ventura, combatte vittoriosamente tra le file spagnole. Per vendicarsi delle maligne insinuazioni fatte sull’Italia da alcuni prigionieri francesi ne sfida, con dodici compagni, un ugual numero.
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