Storia vera di Rubin Carter, detto “Hurricane”, uragano, un pugile di colore ingiustamente arrestato per omicidio nel ’64. È un’occasione per Jewison di andare oltre e mostrare l’America di quel decennio, inquieta, violenta e contraddittoria.
Netturbino nella Pittsburgh degli anni ’50, Troy Maxson combatte ogni giorno contro le ingiustizie sociali e i demoni interiori. Spirito indomabile e ciarliero, ha una moglie, un’amante, un amico inseparabile e due figli di cui non approva le vocazioni. Lyons suona il jazz e Troy canta il blues, Cory pratica il football e Troy gioca a baseball. Chiuso nel recinto che sta costruendo per Rose e in quello che ha innalzato nel cuore, Troy è un’onda implacabile che frange i suoi affetti. Inviso al figlio minore, a cui tarpa le ali per proteggerlo dalle discriminazioni razziali, e persuaso dall’amico a prendere una decisione sulla sua (doppia) vita, confessa alla moglie il tradimento e spalanca tra loro un abisso di dolore. Rimasto solo nel cortile del suo scontento, Troy ricompone i brandelli esistenziali e aspetta la morte.
Whip Whitaker è un pilota di linea col vizio dell’alcool. Dopo una notte di bagordi consumata con una giovane hostess, il comandante si prepara ad affrontare l’ennesimo volo, affiancato da un primo ufficiale diligente e pignolo. Quello che doveva essere un’ordinaria corsa tra Orlando e Atlanta si trasforma presto in un incubo, precipitando aereo e situazione. Un improvviso cedimento della struttura impedisce all’aereo di volare e costringe Whitaker a una manovra di emergenza che prova a mantenere in quota l’aereo, rivoltandolo per rallentarlo, rimettendolo in posizione dritta e tentando un atterraggio il più lontano possibile da case e civili. L’operazione disperata riesce e Whitaker rovina a terra, salvando novantasei persone e perdendone sei. Eroe per la stampa e per l’opinione pubblica, l’intrepido pilota deve adesso vedersela con la NTSB (National Transportation Safety Board). Se da una parte le indagini rivelano la causa meccanica che ha provocato la tragedia, dall’altra tradiscono il segreto indicibile di Whip Whitaker: l’alcolismo. In attesa del processo, Whip incontrerà Nicole, una tossicodipendente con cui condivide il dramma della dipendenza. Nell’abisso in cui lo ha precipitato il suo volo, non si vedono però uscite di emergenza. I film di Robert Zemeckis parlano sempre del tempo, una coordinata che può contrarsi o espandersi, arrestarsi o accelerare. Flight non fa eccezione e ‘decolla’ alle 7.13. Un minuto dopo è ‘tempo’ di sveglia (digitale) per il comandante di Denzel Washington, ordinary man a due ore dal confronto con un contesto narrativo straordinario. Alla maniera del naufrago di Cast Away, Whip Whitaker viene precipitato dal cielo in una situazione che lo eccede e dentro la quale la sua missione è quella di colmare uno scarto: una distanza da coprire per ritornare alla vita (normale) e per rientrare nello scorrere ordinato e cronologico di un’esistenza bevuta in un sorso. Naufragato e risvegliato su un’isola ideale, Whitaker abita una bolla d’aria, uno spazio interiore dove gli elementi di instabilità personale cercano una soluzione. Soluzione che il regista rimanda frustrando protagonista e spettatore e rivelando, in un’esemplare ellissi temporale sul volto di Washington, il tempo ‘reale’ del film che è il tempo di un racconto. Un racconto di un passato che nel presente vede finalmente il futuro. Niente macchine del tempo e scienziati pazzi (Ritorno al futuro), niente gambe che corrono più rapide di un cervello dentro la storia americana (Forrest Gump), niente naufraghi del tempo (Cast Away), in Flight è la memoria a svolgere le memorie di un uomo, che in cielo ha mantenuto un controllo impossibile da mantenere in terra. Salvando i suoi passeggeri e buona parte del suo equipaggio, il comandante Whitaker ha assecondato le ossessioni tipiche dello stile di vita americano. Stile di vita che ha bisogno di eroi e di colpevoli, provocando un divario sempre più incolmabile tra chi arriva in cima e chi resta a guardare. Il leader nero di un aeromobile in avaria, tanto eroico quanto colpevole, interpreta forse il tempo problematico di una nazione che ha vissuto gli ultimi quindici anni come il protagonista al di sopra delle proprie possibilità. 11 settembre, guerra al terrore, crisi economica e finanziaria hanno collassato il Paese e arrestato il ‘volo’, insinuando la paura nel suo orizzonte politico e psicologico. Ma dopo l’apocalisse una ‘seconda possibilità’ è pensabile dentro uno sguardo (di una bambina e di una donna che ha salvato un bambino) e attraverso un atto di responsabilità individuale che diventa collettivo. Zemeckis, in ogni caso, non assolve nessuno, tantomeno il suo (im)pavido pilota, partecipando alla sua sofferenza ma ponendolo davanti al buco nero della sua colpa. Nel modo di Wilson, il pallone affettivamente risemantizzato da Tom Hanks sull’isola di Cast Away, una piccola (e smisurata) bottiglia di vodka diventa un vero personaggio, unica e insidiosa forma di relazionalità ancora possibile nella solitudine di una vita bruciata. Wilson e la bottiglia sono amici-nemici immaginari, simulacri di una socialità diversamente perduta, residuo bisogno di un legame, di una ‘dipendenza’ (affettiva/alcolica) che cerca e trova per entrambi un’indipendenza. Indipendenza che abbatte l’idolo e libera dalla ‘prigionia’. Con Flight Robert Zemeckis fa di nuovo esperienza del tempo. Un tempo a cui il suo cinema impone un ritmo umano, permettendo al naufrago del cielo di recuperarne il senso, riprendendo a esistere.
30 anni dopo la solita catastrofica guerra, un uomo viaggia attraverso il deserto di quel che è rimasto della Terra, passando per grigi resti di città, incontrando bande di umani trasformati in selvaggi senza morale né pietà. Ma lui, Eli, è inarrestabile e prosegue il suo viaggio, lasciando dietro di sé altri cadaveri, difendendo ferocemente un prezioso manufatto (l’ultima copia della Bibbia rimasta!) su cui vuol metter le mani il potente despota di una città abitata da killer e delinquenti tutti al suo servizio. Con sovrannumero di citazioni, un “mix irrisolto di Mad Max e Bernadette , di Leone e Corman, fra pallottole vaganti, gli Hughes bros disperdono il loro talento in un rumoroso western grigio” (M. Porro), con Washington involontariamente ridicolo come profeta difensore della fede, cieco e invincibile, Oldman psicopatico sadico e un’apparizione di Tom Waits troppo breve.
Non si tratta di un film sul jazz, se così fosse sarebbe un fallimento. Sul piano del sesso sarebbe inferiore a Lola Darlin’, sempre diretto da questo piccolo genio. Volendo parlare di un jazzista senza percorrere le strade classiche, il regista cade però in altri tranelli come i personaggi cattivi impersonati da due strozzini ebrei. Bleek Gilliam divide il suo amore tra due donne, Indigo e Clarke. Presuntuoso ed egoista, le perde entrambe e subisce un incidente al labbro che ridimensiona le sue possibilità di suonare la tromba. Dopo essersi pentito avrà un figlio da Indigo che chiamerà Miles in onore del musicista Miles Davis
Muore nella camera a gas un assassino arrestato a suo tempo dal poliziotto Hobbes (Washington). L’uomo è quasi tranquillo, in realtà sa che non morirà perché darà vita a un mostro del male capace di trasferirsi di corpo in corpo. Il mostro, il male, va a occupare un sacco di persone, e arriva naturalmente agli intimi del poliziotto e poi al poliziotto stesso. Partito come ottimo thriller il film non resiste alla tentazione della contaminazione: ormai si sa, se non c’è una qualunque implicazione fantasy i miliardi non si incassano. Un vero peccato: per una volta si poteva anche resistere a quella tentazione, fin troppo abusata nel cinema contemporaneo.
Dall’autobiografia di Malcolm X, redatta con la collaborazione di Alex Haley. Vita e morte dell’afroamericano Malcolm Little (Omaha, Nebraska, 1925 – New York, 1965), ragazzo di strada soprannominato Detroit Red e Satan, convertito all’Islam col nome di Malcolm X dove la “X” sta al posto del cognome perduto nel tempo, ucciso il 21 febbraio 1965 da un commando di 5 sicari. La pista dei mandanti si biforca in 2 direzioni opposte: l’FBI da una parte e l’ala radicale della Nation of Islam dall’altra. Il film di Lee contiene 3 storie: un manifesto per i neri d’America, ossia un film a programma e di propaganda; una biografia agiografica in bilico tra il musical e il gangster movie ; una parabola evangelica su un profeta e martire. A tenere insieme le tre componenti ci sono un attore (Washington con la voce di Francesco Pannofino) e la regia di un direttore d’orchestra che conosce bene la sua musica. Pur con il suo pittoresco stereotipato, i passaggi agiografici, le omissioni strumentali, i manierismi, le astuzie oratorie, è il ritratto di un principe.
Con la promessa di uno sconto di pena Jake (Washington), condannato a vent’anni per uxoricidio involontario, ottiene sette giorni di libertà vigilata per tornare a Coney Island e convincere il figlio diciottenne Jesus (Allen), famoso e conteso giocatore di pallacanestro delle scuole superiori, ad accettare una borsa di studio della Big State University, cara al cuore del governatore dello Stato. Compito difficile: il figlio lo odia. Con questo suo film (n. 11) didattico, manicheo e predicatorio Lee conferma la sua vocazione di “fulminante moralista del mondo nero, antitradizionale predicatore della cultura sociale afroamericana contrapposta alla Gomorra dei costumi bianchi” (R. Menarini). Il basket è uno sport che si presta bene a essere filmato per molte ragioni, ma qui diventa un veicolo di comunicazione (quasi un codice simbolico-espressivo nel rapporto tra padre e figlio), metafora esistenziale, strumento di critica sociale. Nessuno aveva mai analizzato con lucidità altrettanto caustica un mondo e un sistema dominati dall’industria, dal potere, dal denaro, dalla politica dei bianchi, dai trafficoni italoamericani, dagli agenti mafiosi, dagli sfruttatori del circo mediatico.
Jake Hoyt è un giovane poliziotto, idealista e di belle speranze, che è stato appena assegnato alla sezione narcotici del dipartimento di polizia di Los Angeles. Animato dal fuoco sacro della giustizia, Jake ha un solo giorno per dimostrare di avere la stoffa per quel lavoro. A giudicarlo è il sergente Alonzo Harris, veterano della sezione antidroga, che lavora da tredici anni nei quartieri più caldi della città, violente centrali di spaccio, animate da energumeni sudamericani a suon di rap e proiettili. Il problema è che la pratica con i criminali ha reso la pelle di Alonzo fin troppo dura. Muovendosi costantemente in bilico tra legalità e corruzione, il sergente trasforma il giorno di addestramento dell’ingenua recluta in un cinico e crudele gioco all’ultimo sangue. Dove solo i più forti vincono. Di certo il giovane Jake non avrebbe mai immaginato che il suo “training day” si sarebbe trasformato in un incubo, per mano di quella stessa istituzione che si è impegnato a servire con tutto se stesso. All’inizio del film lo vediamo emozionato e pieno di entusiasmo, mentre saluta la moglie e la figlia di pochi mesi, con la faccia da bravo ragazzo di Ethan Hawke. Sul finale è un uomo, ma il prezzo da pagare è fin troppo alto. Il suo rito di iniziazione è a cura di un Caronte fin troppo navigato, un massiccio Denzel Washington, giacca di pelle nera e ciondoloni pacchiani al collo. Identico, e non solo nell’aspetto, ai criminali che incastra. Non senza prima approfittare dei benefici illeciti delle loro condotte. È la netta e spietata contrapposizione tra i caratteri e le aspirazioni dei due protagonisti a reggere l’intero film e conferirgli interesse. Una dicotomia, quella tra poliziotto idealista e poliziotto marcio (e quella, così americana, tra bene e male), già vista tante volte sullo schermo, ma qui rinnovata grazie al talento dei due attori principali, entrambi perfetti nei ruoli assegnati. Con un Denzel Washington che ha una marcia in più nei panni del cattivo e si è meritato l’Oscar come miglior attore protagonista, battendo il collega Hawke, anche lui nominato. A dirigerli, con piglio deciso e professionale, è l’esperto di action movies Antoine Fuqua, con una gavetta nei videoclip evidente anche nelle scelte musicali a base di rap, che ben caratterizzano i quartieri selvaggi e periferici in cui è ambientata la storia (e dove è stata girata, con tanto di permesso dalle vere gang locali), e nei camei di volti noti di quell’universo musicale, da Snoop Doggy Dogg a Macy Gray, passando per Dr. Dre. Il regista sa come conferire ritmo, tensione e adrenalina alle situazioni, anche a quelle più violente, coadiuvato da un rapido montaggio. Ma la contrapposizione tra i due protagonisti si misura meglio sul piano verbale che su quello fisico e lo sceneggiatore David Ayer fa un ottimo lavoro, scrivendo personaggi così ben caratterizzati ed efficaci, dialoghi serrati e battute da manuale, seppur cadendo in qualche forzatura logica nello svolgimento dell’intreccio. I riflettori sono tutti puntati su un mondo che più sporco non si può, proprio a causa di chi dovrebbe tenerlo pulito. A confronto dei quali gli spacciatori, animati dalla stessa brama di denaro e potere degli sbirri, sembrano quasi più umani, almeno sul piano dell’onore. E allora, di fronte a tanto cinico pessimismo, ci saremmo auspicati un finale meno conciliante, meno compromesso con la logica dello show business.
Quattro persone vestite da imbianchini entrano nell’affollata hall del Manhattan Trust, una succursale di un’istituzione finanziaria internazionale a Wall Street. Nel giro di pochi secondi, i rapinatori mascherati mettono la banca sotto un assedio pianificato con chirurgica precisione, e i 50 tra clienti e impiegati diventano involontari ostaggi di un furto inattaccabile. I negoziatori degli ostaggi della Polizia di NY, i Detective Keith Frazier e Bill Mitchell vengono mandati sul luogo con l’ordine di stabilire un contatto con il capo dei rapinatori, Dalton Russell, e di assicurare il rilascio degli ostaggi. Ma le cose non vanno come previsto.
Harlem, 1968. Frank Lucas, gangster nero e “ricercato”, ama la famiglia, prega in chiesa e fa la guardia a Bumpy Johnson, un “padrino” che accoglie le suppliche di Harlem e distribuisce tacchini il Giorno del Ringraziamento. Richie Roberts, detective ebreo e incorruttibile della contea di Essex, sta divorziando dalla moglie, ha dimenticato di dire le preghiere e dà la caccia ai malavitosi e ai distributori di tacchini. Alla morte di Johnson, Lucas, più moderno e manageriale del vecchio padrino, subentra nelle sue attività, elimina gli avversari e diventa in pochi anni un potente boss della droga. Scavalcando le famiglie mafiose e rifornendosi di eroina direttamente nel sud-est asiatico, Lucas accumula una fortuna e attira l’attenzione di Richie Roberts. I loro percorsi, opposti e paralleli, si incontreranno sotto il ring del match del secolo: Alì-Frazier. Soltanto uno resterà in piedi, vincendo ai punti.
Al coraggioso guerriero Macbeth le streghe pronosticano un’imminente ascesa al trono. Ma quando il re premia il suo eroismo con un titolo nobiliare invece che con la corona, Macbeth decide di realizzare da sé la profezia e uccide il monarca, prendendone il posto. Ad alimentare la sua ambizione è la moglie, ma per entrambi sarà l’inizio di una discesa nella follia della quale sono stati gli artefici. The Tragedy of Macbeth annuncia fin dal titolo la tragedia in divenire, pronta a dispiegare le sue ali nefaste come i corvi che abitano questa ennesima trasposizione cinematografica dell’opera di Shakespeare, il primo dei quali è una strega avvolta su se stessa che lentamente si srotola in movimenti innaturali: è la straordinaria Kathryn Hunter, e nell’incipit è enucleata tutta la storia a seguire.
Joel Coen, al suo primo film senza il fratello Ethan, mette in scena un testo quintessenzialmente teatrale che ha per coprotagonista la moglie Frances McDormand nei panni della sulfurea Lady Macbeth.
Dai libri Lay This Laurel di Lincoln Kirstein, One Gallant Rush di Peter Burchard e dalle lettere di Robert Gould Shaw. È la storia – una di quelle che i libri di storia e Hollywood non avevano mai raccontato – del giovane colonnello Robert Gould Shaw e del 54° reggimento di fanteria, costituito esclusivamente – ufficiali a parte – da soldati di colore, in gran parte ex schiavi fuggiti dal Sud, che nel 1863 fu mandato a un inutile assalto al Fort Wagner sull’isola Morris (South Carolina). Vi persero la vita più di mille giubbe blu nere. Pochi altri film hanno messo in immagini con altrettanta efficacia la locuzione metaforica “carne da cannone”, ma al di là degli accenti epici, dei conflitti psicologici e dei rimandi all’attualità sociale, questo 2° film di Zwick, sceneggiato da Kevin Jarre, ha un’intensa dimensione religiosa. 3 Oscar: miglior attore non protagonista (Washington), fotografia (Freddie Francis) e suono.
Brillante avvocato di Philadelphia è licenziato per inefficienza e inaffidabilità dal prestigioso studio legale dove lavora. È una scusa, sostenuta con mezzi ignobili: in realtà hanno scoperto che è omosessuale e malato di Aids. Sostenuto dall’affettuosa famiglia e dal suo tenero compagno, difeso da un grintoso avvocato nero, fa causa agli ex datori di lavoro. 1ª produzione di alto costo (25 milioni di dollari) sull’Aids, è una lezione di tolleranza, una requisitoria sui pregiudizi, un’arringa contro l’ingiustizia affidata a uno straordinario T. Hanks, interprete simpatico e “leggero”, e a D. Washington, l’avvocato che lo difende, fiero eterosessuale e a disagio con i gay, che a poco a poco disperde i suoi pregiudizi e le sue paure insieme a quelli dello spettatore. L’ottima sceneggiatura di Ron Nyswater affidata alla sobria regia di J. Demme diventa qualcosa di più di un onesto esempio di cinema civile: ne fanno testo alcune scene memorabili, la festa gay e la sequenza in cui Hanks ascolta Maria Callas in Andrea Chenier (4° atto) di Giordano, e la colonna musicale in cui Mozart, Spontini, Cilea, Catalani s’alternano a Bruce Springsteen, Peter Gabriel, Neil Young. Oscar a T. Hanks attore protagonista e a Springsteen per la canzone “Streets of Philadelphia”.
Robert McCall è un ex agente della Cia che lavora come impiegato presso un supermercato del fai da te. Vive in solitudine monastica in un appartamento spoglio e ogni sera cena da solo al diner sotto casa. È lì che incontra Alina, una prostituta russa adolescente tiranneggiata dal suo magnaccia Slavi. Quando Alina finisce in ospedale per via delle botte di Slavi, Robert rispolvera il suo istinto omicida: partendo da Slavi e la sua gang risale la scala gerarchica del crimine russo, imbattendosi nello psicopatico killer Teddy e nel suo capo Vladimir Pushkin (la cui assonanza con il presidente Putin, per ammissione del regista Antoine Fuqua, non è puramente casuale). McCall è un equalizer, ovvero uno che vuole riportare l’ordine ristabilendo l’equilibrio di giustizia laddove è stato violentemente alterato. Basato sulla serie televisiva anni Ottanta intitolata in Italia Un giustiziere a New York, The Equalizer (il cui sottotitolo Il vendicatore non rende giustizia alla natura equanime del personaggio) ha per protagonista un uomo di età prepensionabile dall’apparenza innocua (i colleghi giovani al supermercato del fai da te lo chiamano “nonno”) e dalla sostanza assai pericolosa. Denzel Washington assicura al ruolo il suo talento d’attore e la sua gravitas, evidente soprattutto nella profondità dello sguardo che diventa il centro visivo ed emozionale della storia, nonché il porto d’accesso per molti dei virtuosismi registici cui Fuqua, abilissimo dietro la cinepresa, si abbandona con gioioso entusiasmo. Purtroppo la sceneggiatura non è all’altezza delle abilità di Washington e Fuqua, team rodato dopo Training Day, né aiutano la resa del film gli eccessi di violenza grandguignolesca e di durata filmica. Il risultato è dunque disomogeneo: da un lato grandi suggestioni visive e un protagonista fortemente carismatico, dall’altro una trama arzigogolata e ridondante e un’escalation di spargimenti di sangue ed esplosioni difficili da digerire in queste quantità industriali.
Un sergente nero, in Louisiana nel 1944, è ucciso a revolverate. Si apre l’inchiesta. Chi è il colpevole? Il caso è archiviato in fretta, ma arriva un nuovo capitano, nero. Tratto da un testo teatrale, premio Pulitzer, di Charles Fuller e interpretato in gran parte dagli attori della Negro Ensemble Company che lo rappresentarono sul palcoscenico, è un dramma, vagamente ispirato a Billy Budd di Herman Melville, che analizza con acume i conflitti razziali nella società americana. Verboso con efficacia.
L’arrivo nelle sale di un action thriller con le consuete star hollywoodiane, non fa più notizia, ma è una formula che continua a raccogliere discreti risultati al botteghino. Out of time di Carl Franklin, con Denzel Washington nella parte del poliziotto vittima di un complotto, ha il pregio di intrattenere lo spettatore nonostante numerosi buchi di sceneggiatura e improbabili sequenze al limite del credibile (ma in fondo è solo un film…). Siamo a Banyan, minuscola cittadina della Florida, dove Matt Whitlock, capo della polizia, ogni giorno svolge il suo lavoro, una routine senza particolari colpi di scena. Ultimamente la sua vita personale non brilla. Prima una separazione temporanea dalla moglie, promossa detective della Anticrimine, poi una relazione con Ann, sposata con un marito che spesso le usa violenza, e che scopre essere malata terminale. La morte improvvisa di Ann e del consorte in uno strano incendio, movimenteranno la sua esistenza: Matt è l’indiziato più probabile del duplice omicidio. La buona interpretazione di Washington, e la luminosa bellezza di Eva Mendes, fanno dimenticare la storia che, nel suo incedere, assume volentieri risvolti poco verosimili animati da campi e controcampi di mestiere, che sostengono il ritmo del film. Alla fine, ci si chiede soltanto quanto il caso sia importante nella vita di ognuno di noi, poiché il destino distribuisce sul protagonista, nella prima parte, tutte le sfighe, nella seconda, tutte le fortune.
Jonathan Demme si confronta con John Frankenheimer nel remake di Và e uccidi (in originale The Manchurian Candidate) del 1962, per affrontare il tema caldo delle elezioni presidenziali. Il Capitano dell’esercito degli Stati Uniti Bennet Marco, viene salvato dal Sergente Raymond Shaw da un’imboscata durante la guerra del Golfo in cui perdono la vita due uomini. Shaw, eroe di guerra, prosegue la sua ascesa fino ad arrivare a candidarsi per la vicepresidenza degli Stati Uniti, ma nella mente di Marco, ci sono dei punti oscuri. Lentamente i dubbi affiorano e si delineano le certezze. Complotto? Costruito con un climax drammatico, come se fosse una bomba a orologeria, il film di Demme soffre per la lunghezza e per l’approfondimento dei dettagli della storia (presumibilmente per dare alla critica al sistema un valore reale). Denzel Washington nel ruolo che era di Sinatra, si muove bene e interpreta il dramma di un uomo che vede i valori in cui crede ciecamente disintegrarsi davanti agli occhi; Meryl Streep, madre del candidato, è perfida al punto giusto da risultare uno dei “da vedere” del film. Una citazione per il montaggio serrato della sequenza finale. Incessante, denso di tensione, un vero “countdown”. Il momento migliore di un solido e attuale film.
Roman è avvocato a Los Angeles e lavora in uno studio che si occupa di clienti, appartenenti a classi sociali bisognose, spesso impossibilitati ad avere una difesa degna di questo nome. Roman, anche per il carattere che ha che lo spinge a non trattenersi dinanzi a palesi ingiustizie, è stato sempre tenuto dal suo collega William Jackson nelle retrovie a preparare la documentazione dei casi. Quando però William viene ricoverato in ospedale senza speranza di recupero tocca a Roman presentarsi in tribunale e già la prima causa gli crea dei problemi. Le cose si complicano quando lo studio viene chiuso e chi si deve occupare dell’operazione comprende le sue doti e ne vuole acquisire le competenze mettendole però a servizio del puro e semplice guadagno. Roman cerca di barcamenarsi fino a quando un giorno si fa tentare da un’azione illegale.
Il Presidente Clinton, dopo l’attentato al World Trade Center, promette durezza nei confronti dei terroristi. Si aprono due indagini parallele: da un lato il capitano Hubbard dell’FBI e dall’altro l’agente segreto della CIA Elise Kraft. Mentre le indagini proseguono altri attentati colpiscono New York e il generale Devereaux ha buon gioco nell’imporre le maniere forti facendo saltare le garanzie costituzionali. Sarà Hubbard a metterlo in condizioni di non nuocere riuscendo al contempo a fermare i terroristi. Ancora il ‘pericolo arabo’ in un film d’azione che si pone il problema della difesa della legalità senza dimenticare la sicurezza dei cittadini. Denzel ‘Buono’ e Bruce ‘cattivo’ a confronto.
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