Berlino, 1928. Wei Ling Soo è un celebre prestigiatore cinese in grado di fare sparire un elefante o di teletrasportarsi sotto gli occhi meravigliati di un pubblico acclamante. Ma dietro la maschera e dentro il suo camerino, Wei Ling Soo rivela Stanley Crawford, un gentiluomo inglese sentenzioso e insopportabile che accetta la proposta di un vecchio amico: smascherare una presunta medium, impegnata a circuire una ricchissima famiglia americana in vacanza sulla riviera francese. Ospite dei Catledge sulla Costa azzurra e sotto falsa identità, si fa passare per un uomo d’affari; Stanley incontra la giovane Sophie Baker ed è subito amore. Ma per un uomo cinico e sprezzante come lui è difficile leggere dietro alle vibrazioni di Sophie un sentimento sincero. Un temporale e il ricovero della zia adorata, faranno crollare il razionalismo e le resistenze di Stanley: il soprannaturale esiste eccome e si chiama amore.
Dall’omonimo dramma (1972) di Peter Shaffer, anche sceneggiatore. Perché, pur amante dei cavalli, il giovane Alan ne ha accecati sei? Uno psichiatra l’aiuta a scoprire dentro sé stesso le origini del malessere, sebbene anch’egli abbia le sue angosce. Film esemplare per mostrare come non si deve adattare un testo teatrale per lo schermo. Ha un solo merito: rivela i limiti, i vizi, i prestiti, i temi orecchiati di Shaffer. Burton e Firth l’avevano già recitato a teatro.
Duca di York e secondogenito di re Giorgio V, Bertie è afflitto dall’infanzia da una grave forma di balbuzie che gli aliena la considerazione del padre, il favore della corte e l’affetto del popolo inglese. Figlio di un padre anaffettivo e padre affettuoso di Elisabetta (futura Elisabetta II) e Margaret, Bertie è costretto suo malgrado a parlare in pubblico e dentro i microfoni della radio, medium di successo degli anni Trenta. Sostituito il corpo con la viva voce, il Duca di York deve rieducare la balbuzie, buttare fuori le parole e trovare una voce. Lo soccorrono la devozione di Lady Lyon, sua premurosa consorte, e le tecniche poco convenzionali di Lionel Logue, logopedista di origine australiana. Tra spasmi, rilassamenti muscolari, tempi di uscita e articolazioni più o meno perfette, Bertie scalzerà il fratello “regneggiante”, salirà al trono col nome di Giorgio VI e troverà la corretta fonazione dentro il suo discorso più bello. Quello che ispirerà la sua nazione guidandola contro la Germania nazista. Dopo aver raccontato la storia della Rivoluzione americana in nove ore, dentro una mini-serie e attraverso gli occhi del secondo presidente degli States (John Adams), Tom Hooper volge lo sguardo verso il vecchio continente, colto in tribolazione e alla vigilia del Secondo Conflitto Mondiale. Al centro del palcoscenico la cronaca del malinconico e addolorato Duca di York, figlio secondogenito dell’energico Giorgio V, inchiodato dalla balbuzie e da una complessata inferiorità di fronte allo spigliato fratello maggiore David. Crogiolo d’angoscia (im)medicabile e di squilibri emotivi sono quelle esitazioni, quei prolungamenti di suoni, quei continui blocchi silenti che impediscono a Bertie di esprimersi adeguatamente, ingenerando una sensazione di impotenza. Il regista britannico si concentra sul vissuto interno del protagonista, rivelando le conseguenze emotive del disagio nel parlato ai tempi della radio e in assenza del visivo. Il discorso del re non si limita però a drammatizzare la stagione di vita più rilevante del nobile York e relaziona un profilo biografico di verità con un contesto storico drammatico e dentro l’Europa dei totalitarismi, prossima alle intemperanze strumentali e propagandistiche di Adolf Hitler. Non sfugge al re sensibile di Colin Firth e alla regia colta di Hooper l’abile oratoria del Führer, che intuì precocemente le strategie di negoziazione tra ascoltatore e (s)oggetto sonoro, il primo impegnato nel tentativo di ricostruire l’immagine della voce priva di corpo, il secondo istituendo un rapporto di credibilità se non addirittura di fede con la voce dall’altoparlante. Se il mondo precipitava nell’abisso non era tempo di guardare al mondo con paura, soprattutto per un sovrano. Bertie, incoronato Giorgio VI, doveva ricucire dentro di sé il filo interrotto della relazione con l’altro, affrontando il suo popolo dietro al microfono e l’immaginario radiofonico. Fu un illuminato e poco allineato logopedista australiano a correggere il “mal di voce” di un re che voleva imporsi al silenzio. Lionel Logue sostituì col metodo il protocollo di corte, educando la balbuzie del suo blasonato allievo e incoraggiandolo a costruire la propria autostima, a riprendere il controllo della propria vita e a vincere prima la guerra con le parole e poi quella con le potenze dell’Asse. A guadagnare la fluenza e a prendersi la parola è il ‘regale’ protagonista di Colin Firth, impeccabile nell’articolare legato, solenne nella riproposta plastico-fisica del suo sovrano e appropriato nell’interpretazione di un re che ‘ingessa’ emozioni e corporeità nel rispetto rigoroso della disciplina. Dietro al ‘re’ c’è l’incanto eccentrico di Geoffrey Rush, portatore di una “luccicanza” che brilla, rivelando la bellezza della musica (Shine) o quella di un uomo finalmente libero dalla paura di comunicare. Lunga vita al re (e al suo garbato precettore dell’eloquio).
Nella Londra del giovane Shakespeare e di Elisabetta prima si combattono vere battaglie fra teatri per assicurarsi le opere di scrittori come William, appunto, e Christopher Marlowe, che ha appena scritto il suo Faustus. Shakespeare vorrebbe scrivere una storia di pirati, poi “ripiega” su Giulietta e Romeo. Si sa che solo gli uomini potevano salire sul palcoscenico, ma la giovane e bellissima Viola (Paltrow) divorata dalla passione per il teatro si traveste da uomo per fare Giulietta. Fra l’equivoco iniziale e la rappresentazione del dramma William e Viola si amano furiosamente. C’è anche la regina, che benedice la pièce, ma non l’amore dei due. Costumi e ricostruzione straordinari, sceneggiatura vivace, debordante e magnificamente bugiarda (Marc Norman, Tom Stoppard). Insomma cinema vero, e anche cinema nuovo. Una storia piena di sicurezze su un personaggio del quale di sicuro si sa pochissimo – una certa corrente nega persino la sua esistenza -. Comunque ben vengano, in cinema, queste licenze, fanno parte della sua natura e del suo gioco, e qui il gioco è davvero bello. Si sono riviste scene d’amore finalmente “naturali”, con “baci e abbracci” che il cinema sembrava aver disimparato. È senz’altro il trionfo della Paltrow, ormai buona per tutti i ruoli, un po’ Grace Kelly e un po’ Audrey Hepburn, in procinto di diventare la numero uno di Hollywood. E ha vinto l’Oscar. Il film aveva avuto tredici candidature, sette sono diventate statuette, alcune molto importanti (al film, alla sceneggiatura, e alla straordinaria Judy Dench che fa Elisabetta per otto minuti.) Shakespeare in Love è il film dell’anno, e sarà certamente un precursore.
Nella Parigi del 1870 la marchesa di Merteuil (Bening) e il visconte di Valmont (Firth) congiurano per indurre all’adulterio Madame de Tourvel (Tilly) e far perdere la verginità all’ingenua Cécile (Balk). Dal romanzo epistolare in 175 lettere Les liaisons dangereuses (1782) di Choderlos de Laclos che ispirò Relazioni pericolose (1960) di Vadim e Le relazioni pericolose (1988) di Frears, il cecoslovacco Forman, attivo a Hollywood dal 1971, ha tratto un film elegante, sinuoso, persino romantico che guadagna in grazia e finezza quel che perde in crudeltà e dissolutezza. Ha abbassato l’età dei personaggi, attenuato la divisione manichea tra carnefici e vittime, messo la sordina alla perversità della marchesa e al cinismo di Valmont. Su sceneggiatura di Jean-Claude Carrière, il film sceglie come cuore della storia i rapporti tra Merteuil e Valmont che, come si evince anche da Laclos, si sono appassionatamente amati prima che l’azione cominci. Fu lui probabilmente a tradire per primo il loro amore. In questa chiave Valmont, ucciso in duello, paga con la vita il male che le ha fatto con un suicidio per interposta persona. I più tra i critici hanno condannato il film, preferendo quello di Frears, e il pubblico l’ha ignorato. Ci si augura che il tempo dia ragione ai meno.
Los Angeles 1962, durante la crisi dei missili a Cuba. Docente di letteratura, George Falconer cerca di dare un senso alla sua vita dopo la morte dell’amato compagno Jim. Prodotto (7 milioni di dollari) e scritto con Eduard Scearce, liberamente tratto dal libro (1964) di Christopher Isherwood e diretto con eleganza nella forma e nella sostanza dall’esordiente texano Ford, noto stilista: “Non ho mai creduto che la moda abbia a che fare con l’arte. Il cinema sì”. È il caso raro di adattamento riuscito per un romanzo importante e complesso, quasi intoccabile nell’ambito della letteratura anglofona omosessuale. A Venezia 2009 Coppa Volpi (meritatissima) per Firth, magnifico anche nel duetto con la brava Moore, e Queer Lion per il miglior omofilm.
Harry Deane è un curatore d’aste trattato come un travet dal suo capo arrogante ed è in cerca del colpo della vita più per vendetta che per avidità. Con l’aiuto del Maggiore mette su un’abile truffa fondata sull’incompetenza dei potenti e sul talento misconosciuto dei più deboli. Harry deve vendere a Lionel Shaband un falso Monet e portare a casa una dozzina di milioni di sterline. E non solo, forse. Se siete scacchisti o comunque giocatori “strateghi”, saprete che il gambit è una mossa a sorpresa che favorisce l’avversario sul breve termine perché poi si possa avere un vantaggio tattico sullo stesso nei momenti decisivi della partita. E questo valeva per il ladro gentiluomo Michael Caine nel film originale del 1966, molto meno in questo remake al limite del demenziale con Colin Firth. Il punto, però, è che Michael Hoffman – già autore del faticoso The Last Station – si ritrova per le mani la sceneggiatura dei fratelli Coen che da un po’ di tempo a questa parte si producono in esercizi di stile, percorrendo generi vari. In questo caso più del thriller truffaldino, dell’heist movie, quindi, viene approfondita la parte della commedia. Il regista è versatile e solido, il protagonista ha un talento e un aplomb che gli permette di percorrere ogni sentiero interpretativo (il monarca goffo e determinato de Il discorso del re, l’uomo senza qualità e irrisolto di A single man, il guitto elegante di questo film), la sceneggiatura è furba e con momenti molto divertenti. Ne esce fuori una pellicola discontinua che migliora nella seconda parte e che per catturare lo spettatore usa ogni mezzo: persino il peto di un’anziana signora e il rutto di una donna delle pulizie, abbastanza gratuiti entrambi. A questi ingredienti, infine, aggiungete Cameron Diaz, qui campionessa di rodeo texana che entra nella buona società londinese, con mise inadatte ma mozzafiato, il solito fascino da ragazzaccia e la sensualità da splendida quarantenne che combatte con ogni mezzo la vecchiaia. Per ora sconfiggendola alla grande. La sua verve da spalla comica ormai collaudata qui viene sfruttata il giusto, persino in un personaggio fin troppo bidimensionale. E c’è anche il comprimario giusto al posto giusto: Stanley Tucci, rivale di Deane e cialtrone colto e stolto. Tutti bravi, ma anche tutti che vanno sul sicuro: massimo risultato con il minimo sforzo. Perché in questo Gambit la particolarità è che la riuscita del film e l’efficacia sullo spettatore è sicuramente superiore al suo effettivo valore artistico, decisamente marginale. Il momento creativo più alto sembrano essere i titoli di testa, con un’animazione discreta a catturare l’attenzione. Nessuno, dal regista agli sceneggiatori fino agli attori, sembra realmente impegnarsi troppo, ma i 90 minuti scivolano via con gusto. Tutto è stato già visto, quasi ogni mossa è prevedibile con largo anticipo, il momento neriparentiano dell’Hotel Savoy è esilarante ma facilotto. In due parole, puro intrattenimento.
Scritto da Bridget O’Connor (cui il film è dedicato) e Peter Straughan dal romanzo (1974) di John le Carré, già trasposto in una serie TV (1979 – 7 puntate) di grande successo, famosa anche per l’interpretazione di Alec Guinness come George Smiley (qui Oldman): il più maturo degli agenti del MI6 (il servizio segreto dello spionaggio britannico) per le sue competenze e conoscenze è incaricato di scoprire tra i colleghi la talpa infiltrata dal KGB sovietico. La regia è dello svedese Alfredson di cui in Italia s’è visto soltanto Lasciami entrare (2008). Condensare in 2 ore una vicenda con una quarantina di personaggi che nella serie TV dura più di 400 minuti non era facile. Per gustare questo film antispettacolare – dove le spie non sono acrobatici eroi da missioni impossibili, ma mediocri burocrati che separano il dire dal fare, la verità dalla realtà; organizzato in ellissi, ricco di dettagli e di analisi psicologica, affidato a una puntigliosa ricostruzione d’epoca (1973-74 in Inghilterra, a Budapest, a Istanbul) – bisogna saper rinunciare alla voglia di capire quel che sta succedendo per apprezzarne il clima minaccioso di grigiore, squallore, sospetto, sfiducia e malinconia e godersi gli attori.
Bizzarro film, tratto da un dramma (1925) di Noël Coward da cui Hitchcock fu costretto a cavare Fragile virtù (1927), uno dei suoi film muti peggiori. Tornato al lavoro 10 anni dopo un incidente sciatorio che quasi gli costò la vita, l’australiano Elliott l’ha sceneggiato con Sheridan Robbins, riscrivendo Coward da capo a piedi. Agli inizi degli anni ’30 John Whittaker, unico figlio maschio di una nobile e dissestata famiglia molto british, sposa a Parigi l’americana Larita. Rientra a casa con lei e Larita deve fare i conti con la suocera che la odia, ma conquista le simpatie del suocero, di una giovane cognata e del maggiordomo. Da un dramma dai risvolti leggeri, Elliott ha tratto una commedia dalle pieghe dolenti. “Lo humour è una spezia, ma non una salsa”, è la sua parola d’ordine. Definisce lo stile del film, più complesso e grave nella tematica di quel che sembra, ma condotto con una leggerezza energica che comprende persino parentesi musicali. Fotografia, scene, costumi, musiche di prim’ordine, ben recitato, soprattutto da Firth, reduce dalla Grande Guerra di cui è vittima come gli altri familiari, compresa l’odiosa consorte, ma il più disperato. Sua nuora lo riporta alla vita.
1997. Durante una missione in Medio Oriente, l’agente segreto Harry Hart, dal nome in codice di “Galahad“, vede morire il suo giovane protetto Lee Unwin a causa di un suo errore. Tornato in Inghilterra, consegna personalmente una medaglia d’onore alla vedova del caduto e all’orfano, Eggsy, dicendo loro che, se un giorno dovessero aver bisogno di aiuto, dovranno chiamare il numero inciso sul retro della medaglia.
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