Picchiarsi per stare meglio: questo l’assunto del film. Dopo il successo, in parte inaspettato, di Seven, Fincher ripercorre e perfeziona la violenza. Pitt è semplicemente il diavolo: forte, astuto, bello e violento. Norton ne rimane sedotto. Nota di costume sulla pratica di scaricamento delle tensioni con scarico di pugni. Machismo imperante. Suggestioni da palestra di pugilato. Ideologia atta a suscitare polemiche. Ben diretto e ben interpretato.
La commedia americana sta vivendo un buon periodo: dopo lo spassoso School Of Rock e il tuffo nel passato di Down With Love, il tandem Stiller /Homburg, già responsabile de Ti presento i miei e Zoolander ci riprova, aggiungendo alla formula magica un po’di sentimento ma, ahimè, togliendo quel gusto per il cinismo e la corrosione, che aveva caratterizzato i due titoli precedenti. Il risultato è un film breve, sfizioso, divertente, leggero e dimenticabile.
Teheran, 1978: Marjane, otto anni, sogna di essere un profeta che salverà il mondo. Educata da genitori molto moderni e particolarmente legata a sua nonna, segue con trepidazione gli avvenimenti che porteranno alla Rivoluzione e provocheranno la caduta dello Scià. Con l’instaurazione della Repubblica islamica inizia il periodo dei “pasdaran” che controllano i comportamenti e i costumi dei cittadini. Marjane, che deve portare il velo, diventa rivoluzionaria. La guerra contro l’Iraq provoca bombardamenti, privazioni e la sparizione di parenti. La repressione interna diventa ogni giorno più dura e i genitori di Marjane decidono di mandarla a studiare in Austria per proteggerla. A Vienna, Marjane vive a 14 anni la sua seconda “rivoluzione”: l’adolescenza, la libertà, l’amore ma anche l’esilio, la solitudine, la diversità. Sono rari i film di animazione in grado di far percepire al pubblico le difficoltà dell’esistenza di chi li ha ideati. Spesso impegno in difesa dei diritti e qualità grafica non convivono. In questo caso il connubio è perfettamente riuscito. Marjane Satrapi è riuscita a trasformare i quattro volumi di fumetti in cui raccontava, con dolore e ironia, la propria crescita come donna in un Iran in repentina trasformazione e in un’Europa incapace di accogliere veramente il diverso, in un lungometraggio di animazione di qualità.
Benjamin Button nasce il giorno della fine della prima guerra mondiale, è un bimbo in fasce ma ha la salute di un novantenne: artrite, cataratta, sordità. Dovrebbe morire il giorno dopo e invece più passa il tempo più ringiovanisce. La sua è una vita al contrario che attraversa il Novecento americano sempre alla ricerca del primo e unico amore, una donna molto più emancipata, libera e in linea con il suo tempo di lui. L’unico momento in cui si potranno trovare sarà all’incrociarsi delle loro età: “Mi amerai ancora quando sarò vecchia?”, chiede lei. “E tu mi amerai ancora quando avrò l’acne?” risponde lui. Fincher sceglie di narrare una storia con un espediente classico: a partire dalla modernità, attraverso le memorie di un diario letto alla protagonista ormai anziana e in punto di morte. Fotografa tutto virando verso il seppia e opta per la calligrafia spinta, cosa che ovatta il racconto con l’indulgenza e il fascino di cui sono dotati i ricordi. Il risultato è un’agiografia del passato che vince sul presente (New Orleans ieri e oggi con Katrina alle porte), una prospettiva a ritroso indulgente e favolistica sugli Stati Uniti che non affronta nessun tema davvero e che, cosa bene più grave, manca di emozionare con sincerità. Benjamin Button ringiovanisce invece di invecchiare ma questo non ha nessun effetto sulla trama nè tantomeno serve a dare una visione particolare degli eventi in cui è coinvolto o della società in cui è inserito, come avveniva invece con la stupidità di Forrest Gump (il paragone inaffrontabile con l’opera di Zemeckis sorge spontaneo data la sostanziale identità della struttura della storia). Il curioso caso di Benjamin Button sembra chiedersi unicamente “Come si comporterebbe un vecchio con la testa di un bambino? E come un giovane con l’esperienza di un vecchio?”, tentando di conseguenza una riflessione sulla morte e sulle possibilità di sfruttare al massimo la propria vita. “Non sai mai cosa c’è in serbo per te” ripete a Benjamin la madre adottiva, evitando accuratamente di citare scatole di cioccolatini. Gigantesco il lavoro fatto sull’invecchiamento e il ringiovanimento digitali di Brad Pitt, entrambi ottenuti sperimentando una tecnica innovativa di motion capture. Il risultato è evidente: in ogni caso il personaggio è sempre lui, Brad Pitt, anche quando gli somiglia veramente poco. Meno celebrata invece Cate Blanchett che, invecchiata e ringiovanita anch’essa per esigenze di copione, supplisce alla frequente mancanza di digitale con la solita prestazione fuori da ogni ordinarietà.
Per guadagnare tanto e molto in fretta, avvocato texano entra in affari con i narcos messicani. Vorrebbe fare una rapida transazione, intascare e chiuderla, ma non ha previsto che ignoti rubino il carico, e il potente e spietato boss Reiner non ha intenzione di lasciarlo andare. Scritto dall’80enne Cormac McCarthy, narratore influenzato da Saul Bellow e qui anche produttore, è un film in cui il pessimismo prevale: fallibili, inutili, malvagi, innocenti, sono tutti vittime della storia di cui sono i principali artefici. “C’è così poco cinema in The Counselor da generare una paradossale purezza espressiva… Scott trova una limpidezza di sguardo mai posseduta…” (Roberto Manassero).
Ispirato al cortometraggio La Jetée (1963) di Chris Marker, sceneggiato da David e Jane Peoples. Nel 2035 i sopravvissuti a un virus, che nel 1997 sterminò cinque miliardi di persone, vivono sottoterra, mentre la superficie del pianeta è popolata soltanto da animali. Per capire il come e il perché della catastrofe si spedisce indietro nel tempo (nel 1917 per sbaglio, nel 1990 e nel 1996) un ergastolano intelligente. Macchinoso e sbretellato sul piano narrativo, il 6° film di Gilliam (l’unico americano del gruppo Monty Python) vale su quello figurativo per certe fulminee invenzioni registiche, i desolati paesaggi metropolitani, l’energia recitativa di Willis, l’istrionismo schizoide di Pitt. Raro esempio di un titolo che indica una falsa pista.
Malick con questo documentario ritorna all’essenza del cinema e grazie alla sola potenza delle immagini stimola la riflessione rammemorante dello spettatore sull’esistenza umana e ne provoca lo stupore, con la stessa forza con cui quel treno dei Lumiere, all’inizio, destò la meraviglia del pubblico nel primo cinematografo.
Sul finire degli anni sessanta dell’Ottocento la famigerata banda dei fratelli James imperversava nello stato del Missouri, assalendo banche, treni e diligenze. Gli ultimi ribelli della guerra civile erano al servizio del più carismatico dei fratelli James, Jesse, bandito professionista dal grilletto facile, lo sguardo glaciale e i modi affabili. Figlio di un pastore e ultimo dei tre fratelli James è venerato e invidiato dal più piccolo dei cinque Ford, frustrato per il credito minore ricevuto in seno alla banda. Robert, poco più che ventenne, spera di farsi apprezzare e reclutare dal carismatico leader. L’ostinata diffidenza di James per Robert trasformerà l’ammirazione in disprezzo. Il biasimo di Bob e un colpo di pistola fredderanno Jesse James a tradimento. Era il tre aprile 1882. Era l’inizio della leggenda del “bandito sociale”. Chiariamo subito una cosa: L’assassinio di Jesse James non è un western, almeno nel senso tradizionale del termine. A mancare è il respiro epico di una nazione sopravvissuta alla guerra civile e di uno stato, quello del Missouri, attraversato da locomotive a vapore cariche di capitali da rubare o da investire per ricostruire. Senza una contestualizzazione precisa del contesto sociale e del periodo storico in cui la leggenda prese forma, è difficile comprendere il personaggio di Jesse James, il guerrigliero degenerato in bandito, il fuorilegge giustificato e poi trasformato in una ballata, eseguita sullo schermo dal cow-boy Nick Cave. Adattamento del libro omonimo di Ron Hansen, il film di Andrew Dominik si limita all’introspezione psicologica, concentrandosi interamente e comodamente sulla relazione tra il fuorilegge navigato e l’ambizioso neofita. Gli accoliti al soldo di James, colti dopo l’ultimo assalto al treno nel 1881 (anno del suo trentaquattresimo compleanno), non hanno nulla in comune coi “cavalieri” reazionari che, con la pratica sistematica della violenza e dell’intimidazione, cercarono di sopravvivere al processo di modernizzazione economica del Sud. La maschera di Jesse James scritta da Dominik e drammatizzata da Pitt, fuori parte e fuori gioco, è priva del fascino irresistibile del cavaliere romantico, della grandezza dei suoi sentimenti, dell’amore per gli spazi aperti, della radiosità che lo rese popolare e lo consacrò alla leggenda: il bandito d’onore, il bandito battista, l’espropriatore degli espropriatori. Il film di Dominik non riesce ad appropriarsi dell’universo western né a calarvi l’eroe più discusso della mitologia nazionale americana
William Parrish è un miliardario che sente voci inspiegabili. La spiegazione c’è: è arrivato nella sua villa il bel Joe Black. Sua figlia Susan se ne innamora subito, ma nessuno sa che si tratta dell’Angelo della Morte venuto a prendere William. Va però prima salvaguardata l’azienda di famiglia che il subdolo Drew vorrebbe sottrargli. Brad ormai può fare di tutto, anche il killer più attivo al mondo in un film decisamente troppo lungo. Hopkins, anche lui, può permettersi di tutto e di più.
Da qualche parte nello spazio profondo, un campo elettrico scarica la sua forza alla velocità della luce e minaccia la sopravvivenza della Terra. L’origine viene presto identificata e il Maggiore Roy McBride incaricato della missione che dovrebbe liquidare il problema. Ma le cose non sono così semplici perché Roy, soldato decorato oltre i confini della Terra, è il figlio di Clifford McBride, pioniere dello spazio partito ventinove anni prima per cercare segni di vita su Nettuno. Arenata tra i suoi satelliti, la nave del padre è la causa delle scariche elettriche che colpiscono la Terra. Astronauta performante e figlio devoto, Roy è il cavallo di Troia per stanare Clifford. Un cavallo indomabile che cerca risposte all’abbandono e una via altra per tornare finalmente a casa.
Franky, Quattrodita, viene spedito da Anversa a New York per consegnare un diamante di ingente valore ad Avi, un boss mafioso. Fa una sosta a Londra per smerciare altre pietre di poco valore. Viene avvicinato da Boris, Lametta, e convinto a puntare su un incontro di boxe illegale. Si tratta di una trappola per poterlo rapinare. Intanto il Turco e Tommy stanno organizzando con Testarossa, il pericoloso boss locale, un incontro truccato. Quando Mickey O’ Neil manda al tappeto un loro pugile lo convincono a prendere parte all’incontro. Deve andare giù alla quarta ripresa. Mickey accetta ma quando è sul ring non riesce a sottomettersi e vince. Cominciano i guai. Gag all’acido muriatico, un ritmo che ogni tanto accelera improvvisamente e, soprattutto, una miriade di personaggi che vanno e vengono ma che sono descritti con cura nel loro lato ‘dark’. Siamo dalle parti di Trainspotting e di Fight Club. Qui si tratta di divertimento al vetriolo. Con un piccolo problema: c’è il rischio della ripetitività.
Nel 2005 il semiautistico, bizzarro amministratore di un piccolo fondo finanziario capisce che le grandi banche hanno gonfiato un’enorme bolla finanziaria manipolando i titoli di credito sui mutui immobiliari e scommette tutto sul crollo delle loro quotazioni in Borsa. Tutti lo prendono per pazzo, ad eccezione di 5 outsider : l’amministratore delegato di una piccola società finanziaria, un dirigente di Deutsche Bank, 2 giovanissimi broker e un ex broker convertito all’ecologismo. Al suo 7° LM (di cui solo 2 usciti in Italia) McKay, anche sceneggiatore con Charles Randolph, ha cavato dal romanzo The Big Short: Inside the Doomsday Machine (2010) di Michael Lewis quello che tecnicamente è un documentario sulle cause dell’attuale grande depressione mondiale. Ma è riuscito a trasformarlo in un thriller finanziario mozzafiato che è al tempo stesso un giallo a soluzione anticipata carico di suspense, una satira tagliente e arguta dei cowboy della finanza USA e un’opera di raffinata e benemerita divulgazione scientifica. Il segreto della sua magia è mostrare, in parallelo, la faccia virtuale della Borsa e la corrispondente faccia reale delle cose fisiche e delle singole vite umane. Cast formidabile e medaglia d’oro a Pitt che l’ha anche prodotto. Da vedere a scuola per far capire come va il mondo. Magari per cambiarlo.
Ladybug è un agente di una misteriosa organizzazione, che gli affida incarichi oltre i confini della legalità. Non si considera un assassino: è solo colpa della sfortuna se la gente finisce per morire durante le sue imprese. Questa volta avrebbe un incarico facile facile: rubare una valigetta sullo Shinkansen, il “treno-proiettile” ad altissima velocità che collega Tokyo e Kyoto. Peccato che la valigetta sia sotto la custodia di una coppia di ciarlieri ma pure letali sicari: Lemon & Tangerine, ossia limone e mandarancio. I due hanno con loro anche il figlio della Morte Bianca, un boss criminale di origine russa che ha preso il controllo di una fazione della yakuza. Ma non è tutto: sul treno viaggia The Prince, una ragazzina solo apparentemente indifesa e con un piano machiavellico, che ricatta il giapponese Kimura perché lavori con lei. Inoltre sono della partita altri due assassini: Hornet, micidiale con i veleni, e Wolf, sicario messicano in cerca di vendetta.
Gli Oakland Athletics sono una buona squadra di baseball che però non può competere con i budget stratosferici di squadre come ad esempio i New York Yankees. Quando al termine di una buona stagione il general manager Billy Beane si vede portar via i suoi tre migliori giocatori,la loro sostituzione diventa impossibile, soprattutto con i pochissimi soldi a disposizione. A questo punto però Beane incontra Peter Brand, giovane laureato in economia che gli dimostra come si possa costruire una squadra vincente basandosi sulle statistiche invece che sui nomi altisonanti. Beane abbraccia la filosofia del ragazzo e rifonda la squadra con nomi sconosciuti o apparenti scarti, lasciando basiti tutti i collaboratori degli Oakland Athletics, compreso l’allenatore Art Howe. All’inizio le cose non sembrano funzionare, ma pian piano il “sistema” messo in piedi da Beane Brand comincia a dare frutti insperati…
Texas, anni Cinquanta. Jack cresce tra un padre autoritario ed esigente e una madre dolce e protettiva. Stretto tra due modi dell’amore forti e diversi, diviso tra essi per tutta la vita, e costretto a condividerli con i due fratelli che vengono dopo di lui. Poi la tragedia, che moltiplica le domande di ciascuno. La vita, la morte, l’origine, la destinazione, la grazia di contro alla natura. L’albero della vita che è tutto questo, che è di tutte le religioni e anche darwiniano, l’albero che si può piantare e che sovrasta, che è simbolo e creatura, schema dell’universo e genealogia di una piccola famiglia degli Stati Uniti d’America, immagine e realtà. L’attesa della nuova opera di uno degli sguardi più dotati e personali dell’arte cinematografica è ricompensata da un film tanto esteso, per la natura dei temi indagati, quanto essenziale. Popolato persino da frasi quasi fatte, che la genialità del regista riesce a spogliare di ogni banalità e a resuscitare al senso. Malick parla la sua lingua inimitabile, le cui frasi sono composte di immagini (tante, in quantità e qualità) e di parole (molte meno) in una combinazione unica, senza mai pontificare. Si ha più che mai l’impressione che con questo film, che parla a tutti, universalmente, non gli interessi comunicare per forza con nessuno, ma farlo innanzitutto per sé. Testimone di una capacità rara di sapersi meravigliare, ha realizzato un film che non si può certo dire nuovo ma nel quale Terrence Malick si ripete come si ripropone il bambino nell’uomo adulto, per “essenza” vien da dire: ci si può vedere la maniera o, meglio, ci si può vedere l’autore. Del film si mormorava addirittura che avrebbe riscritto la storia del cinema e in un certo senso The Tree of Life fa anche questo, senza inventare nulla ma spaziando dall’uso di un montaggio emotivo da avanguardia del cinema degli esordi ad una sequenza curiosamente molto vicina al finale del recentissimo Clint Eastwood, Hereafter. Il confronto, però, scorretto ma tentatore, non si pone: la passeggiata di Malick in un’altra dimensione è potente e infantile come può esserlo solo il desiderio struggente che nutre il bambino di avere tutti nello stesso luogo, in un tempo che contenga magicamente il presente e ogni età della vita. Ecco allora che il film non sarà nuovo ma rinnova, ritrovando un’emozione primigenia, fondendo ricordo e speranza. L’ultimissima immagine non poteva che essere un ponte.
Chuck Barris è uno dei piu’ noti creatori di programmi e conduttori che la televisione americana ricordi. Negli anni Sessanta era al vertice degli ascolti. In una sua recente biografia ha dichiarato di esser stato anche una spia della Cia e di avere ucciso 33 persone. E’ da questa doppia personalita’ che George Clooney prende il soggetto per il suo primo film da regista. Barris si carica di omicidi di qui ovviamente non c’è prova e questo spinge Clooney a mantenere un doppio registro: quanto e’ “reale” e quanto sta invece nella mente mitomane dell’uomo di spettacolo? Mescolando i generi e le memorie (l’immagine che gli americani avevano del resto del mondo negli anni Sessanta) cinematografiche e non Clooney diverte ma al contempo fa riflettere sul formarsi di una personalita’ dissociata in un periodo storico in cui il nemico e’ lontano e misterioso come fu il tempo della guerra fredda. Da non perdere la scena dello strangolamento in auto con gli sci ai piedi. E’ nato un nuovo regista consapevole dei propri mezzi. Ha forse bisogno di frenare un po’ l’eccesso di idee ma e’ gia’ sulla buona strada.
La storia vera dell’austriaco Heinrich Harrer (1912-2006), tratta dalla sua autobiografia: alpinista, campione di sci, attore, arruolato nelle SS, conquistatore della parete Nord dell’Eiger nel 1938, mancato scalatore nel 1939 del Nanga Parbat, uno degli 8000 della catena himalayana. Prigioniero degli inglesi, evade dal campo di prigionia nel 1942 con un compagno. Giunto a Lhasa, città proibita del Tibet, diventa amico di un Dalai Lama adolescente, cinefilo e curioso dell’Occidente. Colossal alla “National Geographic” di grandiosità vacua senza brividi né vere emozioni in linea con la moda del buddismo tibetano, le velleità spiritualeggianti e New Age di fine millennio care agli intellettuali mezze calze della cultura euroamericana che si proclamano atei ma spiritualisti, riducendo il buddismo al suo afflato pacifista e alla compassione universale. La conversione di Harrer (il bel B. Pitt) da nazista egoista, spavaldo e muscolare ad adulto mite e buono è enunciata senza sfumature, ma non raccontata. Sfilacciato, prolisso e un po’ tedioso anche nelle sue parti semidocumentaristiche nell’esotismo quotidiano di Lhasa. Scritto da Becky Johnston.
Un viaggio che si trasforma in incubo per un giornalista e una fotografa diretti a Pittsburgh. I guai comunque se li vanno a cercare. Pur di aver successo con un libro sui serial killer, i due vanno alla ricerca dei luoghi dei delitti. Quindi danno un passaggio a una coppia stile Bonnie & Clyde. I due non hanno nessun tipo di morale, lui violento e lei incapace di intendere e di volere. Il film non cerca di dare una ragione alla furia distruttiva del personaggio interpretato da Brad Pitt. Teso, molto violento e con un ritmo all’altezza del tema. Molto bravi tutti gli attori. Pitt, già autostoppista in Thelma e Louise, e la Lewis si confermano due grandi promesse del cinema hollywoodiano.
Sette i peccati capitali, sette gli omicidi che uno psicopatico programma, corredati da torture efferate. Comincia con la gola e l’avarizia, continua con l’accidia. L’ultimo è la lussuria, ma l’intervento di due investigatori, uno anziano e nero, l’altro giovane e bianco, lo obbliga a modificare il piano. Tra i tanti meriti della sceneggiatura di Andrew Kevin Walker c’è anche quello di aver modificato gli stereotipi della coppia bianco-nero approfondendo i personaggi a livello psicologico e legandoli ai temi principali del film: la presenza del Male nel mondo e l’indifferenza di fronte alla caduta dei valori. Un film dal taglio espressionista (fotografia di Darius Khondji; musica di Howard Shore), ambientato in una città senza nome, ricco di citazioni letterarie che ne sono la minacciosa struttura e senza una scena di violenza, di cui sono visibili soltanto le conseguenze. Un bel cast in cui si distingue K. Spacey nel tragico epilogo.
Chi ha voluto leggere nella vicenda umana di queste due ragazze di provincia una mera fiaba didascalica sul femminismo si perde il microcosmo racchiuso nei…continui giochi di rimando di significati creato dall’armonia del compenso tra la spigolosità del volto della Sarandon e quello da bambola della Davis.E così nei loro nomi, spesso ipostatizzati nella forza fagocitatrice di un titolo che suggerisce la smania di un brand o di un marchio di sigarette, vi è la fragilità disperata con cui le due ragazze abdicano allo stillicidio quotidiano per risorgere in un anomico non luogo dei ruoli sociali, che le accompagnerà per tutta la loro corsa fino al Gran Canyon. In realtà, la tensione dell’intera pellicola, è una spinta continua sul pedale dell’emancipazione delle due protagoniste. La risata degli ultimi fotogrammi, immortalata nell’immaginario collettivo delle generazioni cinematografiche a venire, non è follia, né un cedimento momentaneo e irreversibile all’emotività, ma la più alta affermazione di dignità e libertà. Scelgono di non esserci più per esserci per sempre: il fotogramma finale dell’auto sospesa nel dirupo è metafora dell’ellisse di una fine che coincide con un inizio. Gli sguardi complici non indicano nulla di improvvisato, anche se lo spettatore viene colto di sorpresa a perpetrare la sua incredulità: perché l’auto di Thelma & Louise, se anche fosse in nostro potere proiettare degli ideali fotogrammi successivi, sul fondo del dirupo del Gran Canyon, non ci arriverà mai. Pellicola di un eccellente Ridley Scott che trascende qualsiasi genere, pur possedendo uno scheletro western, con la scenografia di uno sterminato Arkansas a fare da sfondo, e più che mai attuale e paradigmatico in una generazione in cui la violenza e l’eccidio femminile appare tutt’altro che sopito dai resoconti della cronaca nera. Il viaggio tutto interiore che le trasporta dall’Arkansas all’Oklaoma, fino al Colorado, con la scelta irreversibile dell’omicidio dell’uomo, ne rivela la fragilità ma anche l’incapacità di rapportarsi a un universo maschile assolutista e prepotente, palesandone la mancata educazione alla necessità di una complementarietà dei ruoli sessuali (ti elimino perché sei un ostacolo, perché ti reputo distruttivo ma anche insormontabile all’impellente e disperante necessità di affermazione del mio Io; ti ammazzo poiché la stessa dimensione collettiva del momento storico non contempla una tale chance di scambio dialettico ed edificante; ti uccido perché è tutto ciò che mi resta per dimostrarti e dimostrarmi che non sei il più forte).