Un industriale si trova in cattive acque. Ma potrebbe salvarlo un riccone, ex gerarca fascista. Per ingraziarselo, l’industriale lo riceve nel suo castello. L’ospite è in brodo di giuggiole, la società sta per nascere quando s’intromette lo spirito del castello
Nella Roma del 1943-44, occupata dai nazifascisti, la lotta, le sofferenze, i sacrifici della gente sono raccontati attraverso le vicende di una popolana, di un sacerdote e di un ingegnere comunista: la prima è abbattuta da una raffica di mitra; il terzo muore sotto le torture; il secondo viene fucilato all’alba alla periferia di Roma, salutato dai ragazzini della sua parrocchia. Girato tra difficoltà economiche e organizzative di ogni genere, il film impose in tutto il mondo una visione e rappresentazione delle cose vera e nuova, cui la critica avrebbe dato poco più tardi il nome di neorealismo. Specchio di una realtà come colta nel suo farsi, appare oggi come un’opera ibrida in cui il nuovo convive col vecchio, i grandi lampi di verità con momenti di maniera romanzesca, in bilico tra lirismo epico e retorica populista. La stessa lotta antifascista è raccontata ponendo l’accento sul piano morale più che su quello politico, il che non gli impedì di essere il film giusto al momento giusto e di indicare attraverso le figure del comunista e del prete di borgata il tema politico centrale dell’Italia nel dopoguerra. Nastri d’argento per il miglior film e A. Magnani. Grande successo internazionale, molti premi all’estero e una nomination all’Oscar della sceneggiatura firmata da R. Rossellini, Sergio Amidei e Federico Fellini. Titolo inglese: Open City.
Il film è diviso in 5 sezioni (“Usi e costumi”, “Il lavoro”, “La donna”, “Cittadini”, “Stato e Chiesa”, “La famiglia”) e in 11 episodi, alcuni assai brevi, con una lunga galleria di attori famosi. Scritto da Ruggero Maccari, Ettore Scola e Loy, è il tentativo di rinnovare la formula del film a episodi con la satira di costume. Bersaglio: i difetti degli italiani. Qua e là incisivo. Spicca l’episodio sul traffico con la Magnani.
Lattuada alle prime armi prende spunto dal romanzo di Gabriele D’Annunzio per narrare le vicende di Giovanni Episcopo che, travolto dagli avvenimenti, sposa per caso Ginevra e si rovina la vita. Il responsabile delle sue disgrazie è Giulio che, tornato dall’estero, vorrebbe portargli via la pur malvagia moglie;
In un paesotto della Brianza che finisce in “ate”, eretto alle pendici di una collina una volta incredibilmente boscosa, un cameriere da catering neanche più giovane torna a casa a notte fonda con la sua bicicletta, chiuso tra il gelido freddo di una curva cieca e il sopravanzare spavaldo e sparato di un Suv che lo schiaccia lasciandolo agonizzante, vittima predestinata di un pirata anonimo. Il giorno dopo, la vita di due famiglie diversamente dislocate nella scala sociale brianzola viene toccata da questo evento notturno in un lento affiorare di indizi e dettagli che sembrano coinvolgere il rampollo di quella più ricca, assisa nella villa che sovrasta il paese, e la figlia dell’altra, piccolo borghese con aspirazioni di ribalta. Uno a uno sfilano i presunti protagonisti: il padre della giovane ragazza, un ingenuo stolto e credulone, titolare di un’agenzia immobiliare, pronto a giocarsi quello che non ha per entrare nel fondo fiduciario del magnate della zona al quale accede per un eccesso di fiducia e grazie all’entratura garantitagli dalla figlia, fidanzata con il giovane rampollo della ricca famiglia; il magnate, cinico e competitivo, perfetto prodotto brianzolo, forgiato con la tempra di chi ha abbattuto ettari di bosco per costruire quell’impero economico, inno del malcostume e del cattivo gusto: le moglie dell’uno e dell’altro, la prima psicologa tutta presa dalla sua missione e dall’imminente maternità, tardiva e sofferta, la seconda sposa tonta con il sogno del teatro, obnubilata dalla ricchezza e dal troppo avere: in ultimo i rispettivi figli, non più incolpevoli, mai più adolescenti, complici dell’orrore in questa “tragedia” balzachiana che della commedia ha solo i tipi. Paolo Virzì fa un salto in avanti nel personale viaggio politico nell’Italia del suo presente, puntando finalmente la bussola verso il nord del Paese, trovando un cuore nero che non fa ridere proprio per niente. La goliardia toscana, il cinismo burlone romano (modi e luoghi che hanno caratterizzato la sua commedia) sono lontani, lontanissimi, senza quasi più alcun eco in queste lande brianzole, disegnate come fossero terre straniere abitate da genti aliene che comunicano in un linguaggio misterioso e duro. Virzì si fa suggestionare dal suo limite, un misto di gap culturale e sociale (un livornese in Brianza), che presto trasforma nella sua arma migliore, abbandonando il facile gigioneggiare nelle disgrazie del malcostume centroitaliano per addentrarsi nei meandri di un apologo potente e inaspettato. Liberamente tratto dal thriller di Stephen Amidon, ambientato nel Conneticut, con l’aiuto di Francesco Piccolo e Francesco Bruni, Il capitale umano vanta un cast variamente composto su cui domina Fabrizio Bentivoglio che interpreta senza alcun timore il personaggio di Dino Ossola. Ecco, crediamo che questo tipo unico di “scemo” sia in assoluto una delle migliori descrizioni di un certo italiano contemporaneo, degno della migliore tradizione del cinema nostrano.
Un film di Roberto Rossellini. Con Aldo FabriziBiografico, Ratings: Kids+16, b/n durata 91′ min. – Italia 1950. MYMONETRO Francesco giullare di Dio valutazione media: 3,58 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Tratti da I Fioretti e La vita di frate Ginepro, undici episodi della vita di Francesco d’Assisi (1182-1226), alcuni assai belli per la loro autenticità e la fresca ispirazione religiosa, altri un po’ forzati e di religiosità troppo ufficiale, ma in sostanza l’adesione del fulmineo linguaggio rossellininiano all’interpretazione del francescanesimo imperniata sulla semplicità dà risultati straordinari. Girato con veri frati francescani e altri attori non professionisti. Il suo pregio maggiore è di aver trattato i Fioretti di San Francesco come episodi di Paisà.
Trent’anni di vita italiana, dal 1945 al 1974, attraverso le vicende di tre amici ex partigiani: un portantino comunista (Manfredi), un intellettuale cinefilo di provincia (Satta Flores) e un borghese arricchito (Gassman). S’incontrano a varie riprese, rievocando speranze deluse, ideali traditi, rivoluzioni mancate. Rapsodia generazionale turgida e sincera, poco rigorosa ma appassionata, lamentosa e qua e là graffiante, armonizzata “sul registro di un malinconico ma efficace umorismo critico” (R. Ellero), dove l’amarezza di fondo si stempera in toni crepuscolari. Tutti bravi e registrati a dovere gli interpreti, compreso il compianto Satta Flores (1937-85). Scritto da E. Scola con Age & Scarpelli, dedicato a Vittorio De Sica (1901-74) che non fece in tempo a vederlo. Fu un calibrato film-epitaffio in sintonia con i tempi e i gusti del pubblico, con una sapiente costruzione narrativa fatta di morbide sconnessioni temporali e non priva di una quieta stilizzazione teatrale. Pioggia di premi italiani, francesi e sovietici.
Un conduttore di vagoni-letto che fa la spola tra Roma e Parigi si è fatto due famiglie: sciatta e disordinata con cognato parassita a Roma, vedova con bambina a Parigi. Quando il cognato, ricercato per furto, ripara in Francia e scopre la sua doppia vita, rientra nei ranghi. Commedia fiacca degli equivoci con una soluzione che non persuade.
Un vestito da prima comunione deve giungere in tempo a casa del commendator Carloni. Visto il grave ritardo, lo stesso Carloni va a prenderlo dalla sarta. Nel ritorno a casa una serie di imprevisti aggrava la situazione. Appello alla bontà e alla solidarietà in forma di satira dei vizi borghesi, è una commedia ad alta velocità e a ritmo di balletto. Godibile galleria di caratteristi e frequenti trasgressioni zavattiniane alle regole della commedia realistica. Scritta, col regista, da C. Zavattini e S. Cecchi D’Amico. 3 Nastri d’argento: regia, soggetto, A. Fabrizi. Titolo francese: Sa Majesté Monsieur Dupont; titolo inglese: His Majesty Mr. Jones.
Una domestica non più freschissima (interpretata con verve da una Elsa Merlini riproposta come primadonna dopo i fasti dell’anteguerra) passa da un “servizio” all’altro e intrattiene col maturo fidanzato un rapporto piuttosto turbolento: ciò consente di cucire tra loro alcuni episodi moderatamente divertenti.
Leo, figlio irrequieto di Luciano, una notte spara alcuni colpi di fucile sulla saracinesca di un bar protetto da un clan locale, in quel di Africo nel cuore dell’Aspromonte. Una provocazione come risposta a un’altra provocazione. Un atto intimidatorio, ma anche un gesto oltraggioso che il ragazzo immagina come prova di coraggio e affermazione d’identità nei confronti del clan rivale e nei confronti del padre, maggiore di tre fratelli, dedito alla cura degli animali e dei morti, e lontano dalla cultura delle faide. I fratelli di Luciano hanno preso altre strade lontano da Africo, in una Milano permeata di affari criminali lungo la rotta della droga tra l’Olanda e la Calabria. Dopo la provocazione notturna, Leo deve e vuole cambiare aria, e raggiunge lo zio Luigi, il più giovane dei tre fratelli, spavaldo nel correre su e giù per l’Europa stingendo patti “commerciali” con cartelli sudamericani, e lo zio Rocco, ormai trapianto a Milano con aria e moglie borghese, arricchito proprio dai proventi di quei traffici internazionali. L’eco della bravata di Leo giunge in quel di Milano e risveglia la mai sopita attrazione per la vendetta, la faida in un misto di orgoglio represso dal benessere, o da esso alimentato sotto mentite spoglie.
Il tenue filo che lega i nove episodi del film è costituito da un rivenditore di libri usati che presenta alcuni volumi. Per ognuno Blasetti ha saputo trovare la giusta chiave narrativa, ben sostenuto da un gruppo di attori di prim’ordine.
Un’antologia di numeri di varietà, con Totò, Petrolini, Anna Magnani, Macario, Josephine Baker e altri, trasmessi dal televisore che un pittore regala a sua figlia per il diciottesimo compleanno.
Un film di Mario Bonnard. Con Peppino De Filippo, Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Caterina Boratto, Olga Solbelli. Commedia, b/n durata 85 min. – Italia 1943. MYMONETRO Campo de’ Fiori valutazione media: 2,54 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Al suo secondo film, Fabrizi – dopo il tranviere – impersona un pescivendolo, cioè ancora un personaggio di immediata e schietta estrazione popolare. Stesso l’ambito produttivo di Avanti c’è posto, stesso il regista, stessa la matrice bozzettistica (ma tra i collaboratori figura Fellini). Da una vicenda tutta prevedibile e in parte melensa (il protagonista s’invaghisce d’una signora della buona società, ma ne resterà deluso e accetterà il legame con una impetuosa fruttivendola) emergono alcune sequenze di brulicante umanità.
Vetturino romano tradizionalista proibisce alla figlia di sposare un tassista. Accusato da una sciantosa del furto di un brillante, finisce in tribunale. Vero film “de noantri”, romano e romanesco a 18 carati, degno del Belli. C’è la firma di Fellini giovanissimo alla sceneggiatura insieme a quella di Fabrizi. Spassosi duetti Fabrizi-Magnani.
È il primo film scritto, diretto ed interpretato da Aldo Fabrizi. Il lungometraggio narra la storia di una famiglia che si trasferisce in Argentina, si prodiga per migliorare la vita degli emigranti e mette le radici della stirpe futura.
Rodolfo vive alle spalle della famiglia della moglie e trascorre le giornate studiando canto con un maestro di musica spiantato e imbroglione almeno quanto lui. Quando il suocero gli dà l’ultimatum, Rodolfo è costretto a darsi da fare per avere una particina in un’opera lirica allestita nel teatro cittadino. Convinti di assistere all’inizio di una folgorante carriera, i parenti di Rodolfo gli concedono di continuare a vivere come sempre.
Quattro malviventi si travestono da frati e si fanno ospitare in un convento. Tempo dopo, con la scusa di proteggere i religiosi, pretendono tangenti dai negozianti e dalle persone più in vista. I loro crimini si fanno tanto audaci da spedirli in prigione. Qui si scopre la loro vera identità.
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