Parigi, 1944: due amici studenti sono alle prime armi con esperienze sentimentali e malavita. Con il traffico della borsa nera sono gratificati dai primi guadagni. Da lì a colpi grossi il passo è breve. Tratto da un romanzo di M. Aymé e sceneggiato da Aurenche e Bost, grazie anche a un’efficace scelta di attori (Delon, Brialy, Milo), è uno dei migliori film francesi sull’Occupazione, di una grazia acidula che qualche eccesso caricaturale non guasta.
Germain, ex poliziotto, e Gino, ex galeotto, sono amici. Un giorno alcuni vecchi compagni di Gino cercano di convincerlo ad unirsi a loro in una rapina, ma senza risultato. L’ispettore Gouatreau non crede alla sua innocenza e lo perseguita.
Incaricato da un industriale nordamericano di andare in Italia a convincere il figlio, che si è dato alla dolce vita con l’amichetta Marge, a tornare negli USA, Tom Ripley (Delon) lo uccide e ne assume l’identità per godersi i suoi soldi e la ragazza. Dal romanzo The Talented Mr. Ripley (1955) di Patricia Highsmith, insigne giallista, adattato da Paul Gégauff, Clement ha tratto un film teso come una gomena con un giovane Delon fulgido di bellezza e bravura. Splendido Eastmancolor di Henri Decaë, musiche di Nino Rota, esordio di M. Laforêt. Noto anche come In pieno sole . Rifatto con Il talento di Mr. Ripley (1999).
La vicenda ruota intorno ad un delitto che tutto il paese passivamente si aspetta senza poterlo sventare o senza volere. Cristo Bedoya ritorna, ormai vecchio, nel villaggio in Colombia, che l’aveva visto giovane medico. I ricordi si affollano dolorosamente: il giovane amico Santiago Nasar fu accoltellato dai fratelli Vicario che volevano vendicare l’onore della sorella Angela, poi ripudiata dal marito, Bayardo San Roman. Bedoya, nella sua tardiva ricostruzione, non trova nessuna prova che dimostri la colpevolezza di Angela e Santiago. Angela, ormai vecchia, vittima inerme dell’accaduto, ha passato la sua vita scrivendo lettere al marito, fin quando un giorno egli ritorna pentito.
Un film di René Clément. Con Jane Fonda, Alain Delon, Lola Albright Titolo originale Les félins. Drammatico, b/n durata 109 min. – Francia 1963. MYMONETRO Crisantemi per un delitto valutazione media: 2,50 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Costa Azzurra: Marc è un avventuriero affascinante che per sfuggire a un gangster americano si rifugia in una lussuosa villa. Qui trova due donne, Barbara, matura e bella, e Melinda, giovanissima e deliziosa. Barbara si innamora del nuovo venuto e progetta una fuga con lui. Ma nella villa c’è un altro ospite, l’amante della stessa Barbara, che si nasconde perché ricercato dalla polizia. La situazione precipita: l’uomo nascosto uccide Barbara che sta per lasciarlo e viene ucciso da Melinda, la quale fa in modo che la colpa ricada su Marc. Al poveretto non rimarrà altra alternativa che vivere nascosto nella villa.
Roma 1922, alla vigilia della Marcia. Capitato in una famiglia di anarchici da operetta, giovane provinciale si fa passare per sovversivo inviato dalla Spagna per compiere un attentato. Film tutto di testa ma delizioso, di una buffoneria sempre lucida e controllata, senza una stecca né una concessione alla volgarità, alla facilità, con una durata comica eccezionale. Tutto è di gusto raffinato. Uno dei rari film comici di A. Delon. E di R. Clément
Camille, una guida turistica che sta per laurearsi, si innamora di Marc, un agente immobiliare senza scrupoli incontrato nel corso di una visita ad un appartamento dalla vista mozzafiato. Simon, un timido impiegato che lavora per Marc è segretamente innamorato della ragazza di cui non perde una visita guidata. Nel frattempo fa ritorno a Parigi Nicolas, l’ex fidanzato di Odile, sorella di Camille, alla ricerca di una casa… Esponente della Nouvelle Vague, Alain Resnais si è sempre distinto per un cinema connotato da una forte sperimentazione formale, per poi successivamente concentrarsi sulla messa in scena di complessi meccanismi narrativi in cui si intrecciano generi e talvolta anche tempi diversi, avvalendosi di un gruppo di attori che ritornano di film in film, come Sabine Azéma, Pierre Arditi, André Dussolier. Levità e gravità si combinano egregiamente in Parole parole parole, una commedia musicale dove in un crocevia di situazioni si intrecciano i percorsi di personaggi finemente ritratti dall’abile duo di sceneggiatori, Agnès Jaoui e Jean-Pierre Bacri, che nella pellicola recitano nei panni rispettivamente di Camille e di Nicolas. Una scrittura originale e raffinata dal ritmo impeccabile dove in alcuni momenti i personaggi cantano in playback e i dialoghi sono sostituiti da celebri canzoni che ne rivelano in un certo modo i dubbi, le emozioni, i pensieri. Un metodo già sperimentato nella pellicola, La vita è un romanzo, ma che in quest’ultima opera viene sviluppato ulteriormente, un chiaro omaggio al regista televisivo britannico Dennis Potter e al suo cinema tragico e al contempo derisorio, graffiante. On connaît la chanson, titolo che in italiano rimanda alla celebre canzone composta da Chiosso, Del Re e Ferrio nella versione interpretata da Dalida e da Alain Delon, è un film che riflette sull’essere e apparire, sull’amore e più in generale sull’essere umano e le sue debolezze. Un piccolo capolavoro, firmato da un maestro d’oltralpe.
Il diavolo introduce sette brevi episodi dedicati ai peccati capitali e interpretati da alcuni fra i più famosi attori francesi: c’è un vescovo che si diletta a sentire le avventure delle suore, un seminarista che si fa uccidere dall’assassino della sorella per farlo andare sulla ghigliottina, un pazzo che si crede Dio.
La banca di una cittadina balneare è rapinata da una banda il cui capo, Simon (Crenna), è ben conosciuto dal commissario Coleman (Delon) che gli dà la caccia e lo raggiunge in presenza di Cathy (Deneuve), la donna che avevano in comune. Ultimo film di Grumbach, in arte Melville, il 3° con Delon e uno dei suoi più fiochi. “Narra una storia poco avvincente, si aggrappa a temi e a personaggi risaputi, espone situazioni senza nerbo” (P. Gaeta). Da salvare la rapina iniziale. La Deneuve luminosa dice 3 battute in tutto il film.
Alla morte del marito, la lucana Rosaria Parondi si trasferisce a Milano, dove abita il primogenito Vincenzo, con gli altri quattro figli maschi: Simone comincia una carriera nella boxe, Rocco fa il garzone in una stireria, Ciro va a lavorare in fabbrica e Luca, il minore, rimane a casa con la madre. L’ossessione di Simone per la prostituta Nadia, della quale si invaghirà anche Rocco, porterà alla tragedia e alla disgregazione della famiglia Parondi. A dodici anni da La terra trema, Luchino Visconti torna ad occuparsi della questione meridionale, questa volta, dal punto di vista di chi è costretto ad emigrare: le difficoltà di adattamento in una nuova realtà sociale, la condizione di chi si sente straniero in una città ostile, tra sogni di ritorno alla terra natia e voglia di integrazione, un certo verismo nelle modalità di racconto fanno di Rocco e i suoi fratelli un seguito ideale del precedente capolavoro ispirato a “I Malavoglia”. Anche qui c’è una fonte letteraria precisa, la raccolta “Il ponte della Ghisolfa” di Giovanni Testori, cui si aggiungono suggestioni da altre opere quali “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann, “L’idiota” di Dostoevskij e “Uno sguardo dal ponte” di Arthur Miller, che il regista portò in teatro solo due anni prima. Ma al di là della sua dimensione di saga famigliare, evidentissimi gli echi verghiani, di maestoso romanzo popolare, questo capolavoro del cinema anni Sessanta è soprattutto un grande melodramma, un miscuglio sapientissimo di sentimenti forti, pulsioni ancestrali e arcaiche, uno dei risultati più alti di Visconti, che mette in scena la sua Milano attraverso gli occhi di chi ne è respinto, allontanato, fagocitato. Compatta da un punto di vista drammaturgico, poderosa da quello descrittivo, è il caso di un’opera in grado di superare l’evidente carica ideologica grazie a virtù riferibili ad una mano registica che ha pochi eguali: «I valori assai alti di Rocco e i suoi fratelli […] vanno, come al solito, individuati, più che nelle intenzioni ideologiche, nella concentrata densità drammatica del racconto, nella sua grandiosità epico-melodrammatica e drammaturgico-romanzesca, nei livelli altissimi della scrittura filmica e dell’orchestrazione polifonica, nella potenza con cui vengono delineati i sentimenti e fatte esplodere le passioni» (Lino Micciché, Luchino Visconti, Marsilio). Fu osteggiato dalla censura che impose un insensato “annerimento” nella sequenza dello stupro di Nadia, tra le scene madri più forti e sconvolgenti di tutto Visconti. Il titolo è un duplice omaggio che mescola insieme “Giuseppe e i suoi fratelli” di Mann e il nome di Rocco Scotellaro, scrittore e poeta interessato alla cultura e alla società contadina, di cui il regista era un appassionato lettore.
Nel 1936 un giovane anarchico fuggito dalla Cayenna trova rifugio presso una vedova. I due s’innamorano. I parenti di lei lo denunciano. Dal romanzo di Georges Simenon. Granier-Deferre ha cambiato un po’ le carte del racconto, ma il film resta impregnato del sapido naturalismo del Fronte Popolare negli anni ’30. Suggestiva ambientazione, Signoret in forma.
Ogni opera di Godard viene sempre attesa dai critici come momento di sfogo per parlarne male e chiudere il discorso inneggiando al tradimento della Nouvelle Vague. Così il regista francese ha deciso di attribuire a questa pellicola quell’etichetta pesante e se vogliamo posticcia. Una giovane donna molto ricca è nei pressi del lago di Ginevra, quando incontra un uomo in abiti dimessi e in fase depressiva. Lo fa entrare nel suo ambiente, ma non riesce ad animarlo. Lascerà che affoghi per poi rivederlo apparire molto diverso. Si tratta di resurezione? Godard fa riferimento all’Antico e al Nuovo Testamento, ma non è tutto. La cosa migliore è lasciarsi andare e vedere il film cercando di percepire le decine di citazioni sparse nel calderone di questo “ragazzo selvaggio” che non vuole decidersi a crescere.
Sotto i segni della precarietà e della morte e in cadenze di melodramma disperato, è la storia di un naufragio. Ritratto di Daniele Dominici, professore di letteratura, angelo caduto e insabbiato, che arriva al capolinea della sua vita in una Rimini invernale. S’innamora di Vanina, sua allieva, vaso d’iniquità nel guscio di un’insondabile malinconia. C’è un eroe “maledetto” (memorabile il cappotto di cammello dell’intenso A. Delon), c’è un ambiente, un’atmosfera, ci sono i personaggi di contorno (tra cui spicca un ottimo G. Giannini), c’è una scrittura. Qualcosa di ridondante nella 2ª parte – la descrizione dell’ignobile verminaio provinciale cui si contrappongono le sortite verso i cieli di uno spiritualismo cristiano – impedisce la piena ammirazione. Scritto con Enrico Medioli, il 7° e penultimo film di Zurlini conta sulla raffinata fotografia di Dario Di Palma, le musiche (troppe trombe) di Mario Nascimbene, le scene di Enrico Tovaglieri. Prodotto da Titanus, coproduttore A. Delon che scorciò di 27′, modificandone il montaggio, l’edizione francese ( Le Professeur ). Restaurato nel 2000 da Philip Morris.
Nel 1942 a Parigi Robert Klein – mercante d’arte che fa affari d’oro acquistando a basso prezzo quadri preziosi da ebrei in difficoltà – viene scambiato per un israelita dallo stesso nome e, contro il proprio interesse, a poco a poco ne assume l’identità. Scritto da Franco Solinas sotto il segno di Kafka, non è, nonostante le apparenze, un film sull’antisemitismo, ma sull’indifferenza, sull’ideologia della merce. Il primo è il tema evidente, l’altro quello latente: la sua vera dimensione drammatica è esistenziale più che storica. Splendida fotografia di Gerry Fisher, ottima interpretazione di Delon.
Un film di Henri Verneuil. Con Jean Gabin, Alain Delon, Amedeo Nazzari, Lino Ventura Titolo originale Le clan des sicilians. Drammatico, durata 113′ min. – Francia 1969. MYMONETRO Il clan dei siciliani valutazione media: 3,94 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Dopo aver messo a segno un grosso colpo, vecchio patriarca del crimine uccide un complice per motivi d’onore e finisce in carcere con i figli. Gangster-film ad altissimo costo con 3 star del cinema francese in prima fila. Sono 3 film in uno che non ne fanno nessuno. La confezione è di lusso, ma la scatola è vuota. Da un romanzo di Auguste Le Breton.
Il deputato Dubaye uccide Serrano, un suo disonesto collega, e prega l’amico Maréchal di fornirgli un alibi. Non è che l’inizio di una sanguinosa catena di delitti: molta gente teme il ritrovamento di un compromettente taccuino di Serrano. Maréchal si trova suo malgrado coinvolto nella vicenda: sarà egli stesso a risolvere l’enigma.
Reduce da una crisi sentimentale che l’ha prostrata nel fisico e nello spirito, Hélène Masson (Girardot), affermata manager, si sottopone alle cure del dottor Devilers (Delon), direttore di un’esclusiva clinica all’avanguardia in una terapia di ringiovanimento dei tessuti derivata da sperimentazioni su animali, alle quali ricorrono periodicamente illustri personaggi del mondo politico e finanziario. Tra i due nasce una superficiale relazione sentimentale: la donna è indotta a mantenere un certo distacco turbata da alcuni tragici avvenimenti che colpiscono, inspiegabilmente, il personale paramedico, interamente composto da extracomunitari. Insospettita dalla misteriosa sparizione di alcuni inservienti, Hélène scopre che i medici si servono di loro per sperimentare e mettere a punto i farmaci tanto decantati. Dopo aver ucciso Devilers, che in un drammatico confronto l’aveva aggredita, Hélène è rinchiusa in carcere e a nulla valgono le sue denunce sulla losca attività della clinica: anche il capo della polizia come altri autorevoli personalità pubbliche era cliente del cinico dottore e non c’è alcun interesse a far scoppiare uno scandalo. Più che sulla suspence, il film è giocato sulle eccellenti interpretazioni dei due carismatici protagonisti e sulle inquietanti atmosfere che incorniciano il racconto. Il soggetto rielabora i tradizionali intrecci della fantamedicina filtrandoli con le tematiche del cosiddetto “cinema della paranoia” (quello che comprende anche L’invasione degli ultracorpi e Seconds) e aggiungendovi un inedito spunto di denuncia civile contro lo strapotere della classe dirigente e contro l’emarginazione e lo sfruttamento degli immigrati. Poco fortunato al botteghino, il film offese parte della critica non tanto per la spregiudicatezza della storia, quanto per alcune scene di nudo integrale.Conosciuto anche con i titoli: Shock, Shock Treatment, Doctor in the Nude.
Dopo una deludente storia d’amore, una ragazza si lega ad un uomo solo per evadere dalla routine. Un episodio drammatico le farà comprendere il fondamentale cinismo del suo compagno che, come lei, non si recherà al seguente appuntamento. Terzo film (assieme a L’avventura e La notte) di Antonioni sulla cosiddetta incomunicabilità, resa attraverso interminabili silenzi e significativi studi psicologici dei protagonisti. È l’ultimo film in bianco e nero girato da Antonioni; dopo due anni il regista volterà pagina girando Deserto rosso.
Un ex galeotto, un ex poliziotto e un ladro italiano si accordano per rapinare un gioielliere parigino. Il furto, organizzato fin nei minimi particolari, riesce, ma il commissario Mattei, un duro, riesce a risalire fino ai tre.
Dal romanzo postumo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sceneggiato da Visconti, Suso Cecchi D’Amico, P. Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa. Mentre nel 1860 Garibaldi e le sue camicie rosse avanzano in Sicilia, il principe Fabrizio di Salina si rassegna all’annessione dell’isola e del suo feudo di Donnafugata allo Stato Sabaudo. Favorisce il fidanzamento del nipote Tancredi, che, prima garibaldino e poi ufficiale sabaudo, comincia la scalata sociale, con la bella Angelica Sedàra, figlia di un nuovo ricco. Infine, rientrato da Donnafugata, partecipa a un ballo nel palazzo Ponteleone dove l’aristocrazia e la nuova borghesia festeggiano la scongiurata rivoluzione, e si prepara a morire. Splendida e fastosa illustrazione del passaggio della Sicilia dai Borboni ai sabaudi e della conciliazione tra due mondi affinché “tutto cambi perché nulla cambi”, è un film sostenuto dalla pietà per un passato irripetibile che ha il suo culmine nel ballo, lunga sequenza che richiese 36 giorni di riprese. Capolavoro o falso capolavoro? Affresco o mosaico? Straordinario o decorativo? Critica discorde. Visconti volle nella colonna sonora di Nino Rota un valzer inedito di G. Verdi. Lancaster con la voce di Corrado Gaipa. Palma d’oro a Cannes e tre Nastri d’argento (fotografia di Giuseppe Rotunno, scene di Mario Garbuglia, costumi di Piero Tosi). Restaurato nel 1991 dalla Cineteca Nazionale di Roma con la direzione tecnica di Rotunno.