Zhenya e Boris hanno deciso di divorziare. Non si tratta però di una separazione pacifica, carica com’è di rancori, risentimenti e recriminazioni. Entrambi hanno già un nuovo partner con cui iniziare una nuova fase della loro vita. C’è però un ostacolo difficile da superare: il futuro di Alyosha, il loro figlio dodicenne, che nessuno dei due ha mai veramente amato. Il bambino un giorno scompare. Andrey Zvyagintsev fin dalla sua prima comparsa sugli schermi internazionali con Il ritorno ha avuto modo di farsi notare. Quel film gli valse il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia anche se aveva qualche debito di troppo con Maestri come Tarkovsky e Sokurov.
Elena e Vladimir sono una coppia di anziani. Lui è un signore benestante e freddo, lei ha origini più umili ed è una moglie docile. Si sono incontrati quando erano già avanti negli anni ed entrambi hanno figli nati da altri matrimoni. Il figlio di Elena è disoccupato, incapace di mantenere la propria famiglia e chiede di continuo soldi alla madre. La figlia di Vladimir è una giovane donna che col padre ha un rapporto distante. Un giorno Vladimir ha un attacco di cuore e viene ricoverato in ospedale. Mentre si trova lì, capisce che gli rimane poco tempo. Un breve, ma a suo modo tenero, incontro con la figlia lo porta a prendere una decisione importante: sarà lei l’unica erede della sua fortuna. Una volta dimesso e tornato a casa, lo comunica alla moglie, che si rende conto d’un tratto che le sue speranze di aiutare finanziariamente il figlio sono vane. E così la timida e sottomessa casalinga si inventa un piano per dare al figlio e ai nipoti un’opportunità reale di avere una vita migliore.
Kolia vive in una remota località rurale nel nord della Russia, vicino al mare. In quel piccolo paese un sindaco prepotente e corrotto ha deciso di volere per sè le terre di Kolia e cerca quindi di comprarle. Ex-militare e uomo dal temperamento violento e coriaceo, Kolia non solo non accetta ma si scaglia con violenza in una causa legale per mettere in mutande il sindaco stesso. Ad aiutarlo c’è un amico, avvocato di Mosca, con lui sotto le armi e molto determinato nel fermare quest’abuso. Viene dritta dal libro di Giobbe questa parabola umana di disperazione ma è asciugata completamente da qualsiasi forma di speranza o fiducia in Dio (e figuriamoci nella Chiesa!). I disastri nella vita del protagonista infatti si susseguono uno dopo l’altro ma non è tanto la volontà di Satana a metterlo alla prova, quanto più prosaicamente l’accanimento del sindaco cioè della forma minore di potere statale che si possa incontrare.
Violeta Parra (1917-1957) è un’icona della musica popolare cilena e, in generale, uno degli artisti più significativi dell’America Latina: cantautore, ricercatore del folklore, ma anche pittrice, ricamatrice, scultore e ceramista, nonché la prima latinoamericana a cui fu consacrata un’esposizione di opere al Louvre. Il film inizia descrivendo la sua infanzia e l’adolescenza tormentate trascorse nel sud del Paese, nella regione di Chillán, in una famiglia proletaria numerosa. Il padre Nicanor è un maestro e insegnante di musica alcolista, mentre la madre, di origine contadina, cuce a macchina in casa. Fin da bambina è vivace e dimostra inclinazione per la musica (compone le prime canzoni a 12 anni) e per il teatro. Violeta si sposa due volte, partorisce 4 figli, si integra in un gruppo teatrale itinerante, dove canta in coppia con la sorella Hilda, e si impegna politicamente con i comunisti. Si assiste alle sue peregrinazioni nei paesini delle Ande alla ricerca di antiche canzoni e ballate popolari da apprendere e reinterpretare.
Nella campagna rurale americana Ennis e Christina vivono coi loro cinque figli. Esigente coi ragazzi e votato a Dio e al lavoro, Ennis trascura la giovane moglie che allaccia una relazione clandestina. Tra una canzone ascoltata in cuffia e una rivista erotica, Ruth e Micah sperimentano intanto la loro adolescenza, sognando un altrove dove vivere i loro primi turbamenti. Assillato dai problemi economici e dalla gelosia per Christina, che elude le sue attenzioni, Ennis compra un televisore nel tentativo di distendere gli animi e riportare l’equilibrio in famiglia. L’ennesimo rifiuto della moglie, a cui reagisce con una tentata violenza, lo getta nel più profondo sconforto. Una domenica, caricati i figli in auto e incassata la determinazione di Christina a restare a casa, fa visita al vecchio padre da cui si congeda molto presto mettendo in atto il suo folle piano. Intanto Christina, consumato un altro amplesso dentro il suo vestito nuovo, li attenderà per cena e per tutta la vita.
Corrado è un alto funzionario del Ministero degli Interni con una specializzazione in missioni internazionali legate al tema dell’immigrazione irregolare. Viene scelto per un compito non facile: trovare in Libia degli accordi che portino progressivamente a una diminuzione sostanziale degli sbarchi sulle coste italiane. Le trattative non sono facili perché i contrasti all’interno della realtà libica post Gheddafi sono molto forti e le forze in campo avverse con cui trattare molteplici. C’è però una regola precisa da rispettare: mai entrare in contatto diretto con uno dei migranti.
Ottimo esordio nella fiction di Andrea Segre, dal 2003 prolifico documentarista veneto, spesso impegnato sui temi dell’emigrazione. Colta operaia cinese immigrata in Italia, Shun Li è sfruttata dai “padroni” compatrioti che la ricattano per procurarle i documenti necessari all’arrivo dell’amatissimo figlio di 8 anni. Si lega in amorosa amicizia a Bepi detto il Poeta, immigrato dalla natia Slovenia, tenero rapporto che turba e scandalizza le due comunità. Scritto con Marco Pettenello e splendidamente fotografato da Luca Bigazzi, è un delicato film sottovoce che si arroventa soltanto in 2 scene: quando dà spazio alla violenza dell’ignoranza leghista e nel finale. Esposto alle Giornate degli Autori di Venezia 2011, è un’opera prima che lascia il segno, fuggevolmente incrinata da una ricerca della poesia che scade nel poeticismo e compensata da molti passaggi suggestivi sui legami tra mare e laguna, compresa la memorabile sequenza dell’acqua alta. Distribuisce Parthénos. David di Donatello all’attrice protagonista (Zhao Tao). Premio LUX del Parlamento europeo.
Ernesto Botta, uomo sgradevole e introverso, è ragioniere presso l’azienda agro-alimentare della famiglia Rastelli, un ‘gioiellino’ quotato in Borsa e lanciato con disinvoltura su nuovi mercati internazionali. Abile nelle battaglie finanziarie e nelle alchimie di bilancio, Botta fa quadrare il cerchio e fa il lavoro sporco, ritagliandosi poche ore per un bicchiere di vino pregiato, un amplesso verticale sbrigativo e una conversazione in inglese su musicassetta. Costruita la propria fortuna su latte, merendine e biscotti, i Rastelli frequentano casa, chiesa e azienda con la medesima devozione, circondandosi di politici ed ecclesiastici sostenitori e fanatici del made in Italy. Nel tempo libero gestiscono squadre di calcio, sfrecciano con le Lamborghini sulle strade della provincia piemontese, restaurano monumenti, finanziano la cultura, sostengono gli enti morali, sperimentano attività turistiche e naturalmente accumulano debiti. La gestione spregiudicata e irresponsabile li condurrà in pochi anni sull’orlo del fallimento.
Giovanni ha 14 anni ed è innamorato di Jessica, compagna di classe in odore di bocciatura. Nel ruolo di portiere della squadretta della scuola si è guadagnato il soprannome di Banana, per quel destro incapace di tirare in porta e forse anche per la mania di indossare dentro e fuori dal campetto la maglia gialloverde del Brasile. Perché per Banana la vita va vissuta “alla brasiliana”, ovvero con coraggio, determinazione, volontà di rischiare. Peccato che Banana si muova nell’Italia di oggi, in cui tutti hanno paura di sognare: compresi i genitori del ragazzo, che ormai non comunicano più, e la sorella Emma, bilaureata disposta a rinunciare ad un futuro di ricercatrice e all’uomo che ama, e che lei definisce un “fallito bipolare” perché lui non ci sta ad abbandonare i suoi principi.
Patologo il padre, patologo il figlio. Devono eseguire l’autopsia del corpo di una giovane donna, trovato intatto sepolto nello scantinato di una villetta i cui 2 proprietari sono stati massacrati. Il corpo rivela mutilazioni nascoste e atroci e la vita dei 2 medici si trasforma in un incubo. Breve horror di crescente suspense che mescola un realismo agghiacciante nella analisi autoptica, con l’ambientazione claustrofobica dell’obitorio e la lenta scoperta della verità (la parte meno interessante del film). Ben scelti gli interpreti.
Citiamo a memoria: “Se fossi padrone di questo posto e dell’inferno, affitterei il primo e andrei in vacanza nel secondo”. La cittadina del Texas che fa da sfondo all’azione è un postaccio dove da tempo agisce un killer che fa a pezzi le sue vittime. Tanto per cambiare, sono sempre donne. Sul caso investiga un detective locale: s’impegna poco per questioni giurisdizionali e di rapporti con la ex moglie, coinvolta nelle indagini. Da New York arriva un detective dell’FBI che, invece, indaga come se lo riguardasse di persona. In base agli indizi, l’eventuale prossimo bersaglio del killer potrebbe essere la giovane Ann che vive con una madre odiosa. È il 2° film di Ami, figlia di Michael Mann che l’ha finanziato e prodotto. Thriller diretto con diseguale diligenza (e digressioni stravaganti). Tra gli interpreti di sicuro professionismo fa macchia il giovane talento della Moretz.
Nell’Italia medioevale una famiglia fatica a sopravvivere in una zona rocciosa all’ombra di un monte che non lascia passare i raggi del sole e rende il terreno praticamente incoltivabile. Si tratta dell’abitazione in cui hanno sempre vissuto da generazioni e, nonostante molti l’abbiano già fatto, il capofamiglia Agostino non intende lasciarla. Trattati come appestati quando si recano nei centri più grandi per vendere senza successo le pessime verdure che coltivano e schifati da tutti perché accusati di portare sfortuna, sembra non esserci salvezza per loro. Almeno fino a che Agostino, che di trasferirsi non vuole saperne, non decide che quel problema che li affligge lui lo distruggerà, che da solo abbatterà la montagna a martellate, non importa quanto ci vorrà.
Una giovane giornalista, Yael, si reca in un quartiere, tra Jaffa e Bat Yam, in cui israeliani e palestinesi convivono. Ha sentito parlare di una donna ebrea che, sopravvissuta ad Auschwitz, aveva sposato un arabo ed era andata a vivere lì. Yael, nella sua visita ascolta ciò che Il marito Youssef ha da raccontarle e raccoglie anche le testimonianze di parenti e conoscenti. Amos Gitai venne a conoscenza grazie alla stampa della storia di una donna nata ad Auschwitz e poi sposatasi, nonostante molteplici ostilità, con un arabo da cui ebbe cinque figli e 25 nipoti. Si tratta di una vicenda che si inserisce perfettamente nella filmografia del regista israeliano da sempre attento ad indagare i perché di una rivalità (che spesso si trasforma in odio) tra due popoli che hanno saputo convivere nel passato e potrebbero tornare a farlo. Bisognava però decidere con quale taglio raccontarla e Gitai ha deciso di portare all’estremo quello che per lui si è spesso configurato come un codice linguistico particolarmente interessante.
La Marchesa Alfonsina de Luna possiede una piantagione di tabacco e 54 schiavi che la coltivano senza ricevere altro in cambio che la possibilità di sopravvivere sui suoi terreni in catapecchie fatiscenti, senza nemmeno le lampadine perchè a loro deve bastare la luce della luna. In mezzo a quella piccola comunità contadina si muove Lazzaro, un ragazzo che non sa neppure di chi è figlio ma che è comunque grato di stare al mondo, e svolge i suoi inesauribili compiti con la generosità di chi è nato profondamente buono. Ma qual è il posto, e il ruolo, della bontà fra gli uomini?
Elle Marja ha 14 anni ma sa già di non voler seguire le tracce della famiglia. Figlia di allevatori di renne della comunità Sami nell’estremo nord svedese, la ragazzina è vittima della discriminazione etnica degli anni ’30. Sottoposta alla certificazione della razza per frequentare la scuola riservata solo ai Sami, Elle Marja sogna una vita migliore in cui non sentirsi più diversa. Così, inizia a farsi chiamare Christina, a parlare svedese, trasferirsi in città, allontanandosi sempre più dalla sua famiglia e dalla cultura della sua gente.
Tomás è un adolescente a suo modo turbolento. O almeno così pensa la madre, che decide di spedirlo da Veracruz, dove abitano, nel caseggiato popolare di Città del Messico in cui il figlio maggiore vivacchia in attesa di laurearsi. A casa del fratello Fede, Tomás arriva con una musicassetta di Epigmenio Cruz, musicista commercialmente sfortunato e geniale, autore di una canzone che, si dice, una volta ha fatto piangere persino Bob Dylan. Informati da un trafiletto di giornale della convalescenza in ospedale del misterioso cantautore, Tomás, Fede e il coinquilino Santos scelgono di andare a cercarlo.
Greg è un ragazzo di talento ma incapace di relazionarsi con il prossimo. Preferisce sfuggire la profondità nei rapporti e crogiolarsi nella sua eterna adolescenza insieme a Earl, il suo migliore amico, da lui definito solo “collega”. Quando la madre di Greg lo costringe a far compagnia a Rachel, una ragazza del suo liceo malata di leucemia, le barriere emozionali di Greg cominciano lentamente a crollare, lasciando spazio a un’inaspettata maturità. Il tema principale del secondo film di Alfonso Gomez-Rejon (un passato come assistente di Scorsese e Iñárritu, un debutto nell’horror), ossia il confronto con l’indicibile dolore della malattia terminale in età giovanile, porta inevitabilmente Quel fantastico peggior anno della mia vita a misurarsi con altri titoli cult di un sottogenere particolarmente gremito nel recente cinema indipendente americano.
In una New York intrisa di cultura letteraria Philip sta per uscire con il secondo romanzo, quello del possibile successo. Sul piano esistenziale e sentimentale, però, la sua vita è a un bivio e a risentirne è la sua relazione con Ashley, fotografa dalla carriera brillantemente avviata. L’incontro con Ike Zimmermann, anziano romanziere affermato e punto di riferimento per Philip, sembra indicargli la via da percorrere, ma non è detto che questa conduca anche alla felicità. “Narrazione, non voice-over”, specifica Alex Ross Perry a proposito dell’uso abbondante della suddetta tecnica (la voce appartiene all’Eric Bogosian di Talk Radio) in Listen Up Philip. Una precisazione che ribadisce la natura intimamente legata al romanzo letterario di un’opera sul dono e sulla maledizione connaturati al talento per la scrittura, che sembra sposarsi necessariamente con l’egocentrismo e l’impossibilità di una reale comunicazione con il prossimo, lettori a parte. Temi forse già trattati in passato, ma raramente sviscerati come nel film di Perry, che segue le vicissitudini di Philip, romanziere alle soglie del successo ma anche sull’orlo di una rottura definitiva con il mondo degli affetti, senza limitarsi alla sua soggettiva. Prendendo in prestito da William Gaddis la tecnica innovativa di storytelling, Perry costruisce un film inaspettatamente (per il milieu Sundance) e doppiamente rivoluzionario. Da un lato stilistico – la camera guidata da Sean Price Williams segue i personaggi e avvolge i loro discorsi, evitando la consuetudine del campo-controcampo da indie Sundance – e narrativo, spostando il focus improvvvisamente da Philip a Ashley, personaggio che sembrava semplicemente corollario, e poi in favore di Ike. Jason Schwartzman rimane quindi, per lunga parte, raccontato anziché visto, potenziando l’effetto di displacement e il lavoro quasi crossmediale tra libro e film. Perry dimostra inoltre di saper giocare con gli stereotipi con grande arguzia: macchine da scrivere e bicchieri di whisky, colonna sonora jazz con New York sullo sfondo, per omaggiare Woody Allen e Philip Roth ma allo stesso tempo alzare il livello di understatement e distanziarsi da loro, senza prenderli né prendersi troppo sul serio. Nonostante qualche prolissità di troppo (ma in fondo è un romanzo) e qualche personaggio pleonastico, un’opera sorprendente e una notevole crescita per Perry rispetto ai lavori precedenti.
Opera prima notevole di Comodin che con João Nicolau ne ha curato regia, sceneggiatura, montaggio e, con Tristan Bordman e Jean-Jacques Quinet, la fotografia. Ambientata nell’estate e in campagna lungo il fiume Tagliamento, è la storia degli adolescenti Giacomo, sordo con apparecchio acustico, e Stefania che, giocando tra innocenza e malizia, si attraggono e si respingono. Difficile distinguere tra documentario e finzione, in bilico continuo tra il timore delle parole e una tensione a fior di pelle. L’autore suggerisce quietamente che anche l’erotismo può essere una messa in scena, una recita, una strategia, come se tenesse conto della lezione dettata dal cinema di Rohmer, concisamente analitica. Distribuisce Tucker.
Messo a segno un colpo nel centro di Madrid, 3 rapinatori, tra cui il figlio bambino del capobanda, sequestrano un taxi, il tassista e il suo cliente, e fuggono con il bottino verso il confine con la Francia. Ma devono passare per Zugarramurdi, il paese delle streghe. 11° film del basco De la Iglesia, da lui scritto con Jorge Guerricaechevarría, nella 1ª parte è un originale, pimpante, spiritoso gangster-movie pulp a sfondo sociale, imperniato sulla rivolta maschile contro la condizione giuridica privilegiata delle mogli separate. La 2ª parte ha la pretesa antropologica di spiegare l’eterna lotta tra i sessi ma tracima nell’horror splatter e demenziale, scade in un umorismo nero triviale, si dilunga, si ripete, si intorcina, gira a vuoto, affondando sempre più nel cattivo gusto. 8 Goya tra cui costumi, effetti speciali, trucco, suoni
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