Prodotto da Procacci/Arcopinto/Rai Cinema, distribuito da Fandango, è un film italiano di un formalismo forsennato e nocivo a sé stesso. Alla 3ª regia Gaglianone aveva 2 atout per aspirare al successo di pubblico: il tema (pedofilia) sgradevole, ma capace di solleticare le morbosa curiosità di molti spettatori, e un quartetto di attori uno più bravo dell’altro. L’azione si svolge in 2 tempi: alla fine degli anni ’70, quando i 4 personaggi sono bambini, e una trentina d’anni dopo in una città del Nord. Come si esplica il formalismo? Nell’uso insistente dello sfocato, negli inutili lavaggi della Mercedes, nel permettere al “mostro” (Timi) di strafare nel suo virtuosismo recitativo, nelle frequenti e compiaciute dissolvenze, nel modo patologico con cui Accorsi gioca col suo piccolo Michele o in quello verboso con cui Mastandrea filosofeggia sulla situazione. Ovviamente gli atti pedofili sono solo suggeriti, ma risultano compiaciuti, malati proprio perché formalistici. Chi si sottrae meglio è la bella e intensa Solarino. Tratto dal romanzo (2005) di Stefano Massaron.
3° film a infimo costo (e attori sconosciuti) in 10 anni dell’anconetano Gaglianone, da affiancare, per originalità di stile, a Le quattro volte di Frammartino, ma più cupo e desolato, anche se alleggerito da una vena di gelido umorismo. Più che una storia è una situazione, anzi un personaggio: Pietro – nella finzione come nella realtà – vive con Francis, fratello tossico che lo sfrutta e lo umilia. “Non bastano due fratelli per fare una famiglia”. Ma non è vero per Pietro che lo mantiene con un umilissimo lavoro. La sequenza nel night-club dove, spinto dal fratello, si esibisce, compiaciuto, nel suo numero di smorfie, senza percepire la trivialità spregiosa di chi lo applaude, fa star male. È un personaggio difficile da dimenticare. Girato a Torino, non nominata e poco riconoscibile perché rappresenta l’Italia urbana del 2010, descritta negli aspetti peggiori dei suoi abitanti: ignoranza, arroganza, violenza latente, mancanza di solidarietà, cinismo, volgarità.
Il film racconta la storia di due fratelli e del trauma che sono stati costretti ad affrontare dopo la morte misteriosa di un loro amico. Quando accadde, l’evento scosse l’intera città, turbando profondamente i due ragazzini e i loro amici. Dopo l’incidente, le interazioni con gli altri assunsero toni differenti, portando sia Eric, 14 anni, che Tommy, 9, a rintanarsi sempre di più nelle loro intimità. E a chiudersi, quando il tema della morte veniva affrontato, in un silenzio sempre più insormontabile.
3 diverse storie d’amore tra 3 giovani croati e 3 giovani serbe di una stessa area rurale: 1) nel 1991, alla vigilia della guerra, Ivan e Jelena stanno per fuggire a Zagabria, ma il fratello di lei si oppone; 2) nel 2001, dopo la fine della guerra, Nataša, tornata nella sua casa diroccata, e Ante, il muratore che la sta restaurando, si attraggono ma sono divisi dal passato; 3) nel 2011, mentre tutti vogliono dimenticare e divertirsi, Luka si pente di aver abbandonato Marija anni prima per motivi etnici. Al suo 9° LM, l’autore croato Matanic denuncia la guerra attraverso una lucida analisi della sua violenza distruttiva. Ma non di quella militare, bensì di quella, ben più sottile, pervasiva e duratura che affligge le relazioni personali. I 3 episodi sono unificati non solo dal luogo e dagli stessi 2 attori protagonisti – la Lazovic e Markovic, di eccezionale bravura – ma soprattutto perché scandiscono l’evolversi della rovina bellica dell’amore: la sua distruzione, il tentativo fallito di ricostruirlo, il pentimento che apre la porta alla sua possibile rinascita. Scrittura personale e incisiva, fotografia scintillante (Marko Brdar), musiche originali (Alen e Nenad Sinkauz) che spaziano dal folclore tradizionale al rock elettronico dei nuovi gruppi giovanili balcanici. Premio della Giuria a Cannes per la sezione Un Certain Regard e una candidatura al premio Lux del Parlamento europeo.
Romeo Aldea è medico d’ospedale una cittadina della Romania. Per sua figlia Eliza, che adora, farebbe qualsiasi cosa. Per lei, per non ferirla, lui e la moglie sono rimasti insieme per anni, senza quasi parlarsi. Ora Eliza è a un passo dal diploma e dallo spiccare il volo verso un’università inglese. È un’alunna modello, dovrebbe passare gli esami senza problemi e ottenere la media che le serve, ma, la mattina prima degli scritti, viene aggredita brutalmente nei pressi della scuola e rimane profondamente scossa. Perché non perda l’opportunità della vita, Romeo rimette in discussione i suoi principi e tutto quello che ha insegnato alla figlia, e domanda una raccomandazione, offrendo a sua volta un favore professionale. Il protagonista di Bacalaureat ha provato, a suo tempo, a cambiare le cose, tornando nel proprio paese per darsi e dargli una prospettiva di rinnovamento, anzitutto morale. Non ha funzionato. Tutto quello che ha potuto fare è restare onesto nel suo piccolo, mentre attorno a lui la norma era un’altra. Trasparente nel mestiere, meno nella vita sentimentale, perché la vita prende le sue strade, e non tutto si può controllare. Ora però non si tratta più di lui: le biglie dei suoi giorni trascorsi sono più numerose delle biglie nella boccia dei giorni che gli rimangono. Ora si tratta di sua figlia, di impedire che debba sottostare allo stesso compromesso, ovvero restare in un luogo in cui le relazioni tra le persone sono ancora spesso fatte di reciproci segreti, di silenzi da far crescere e redistribuire: una rete che imprigiona e “compromette” la vera vita. Ma fino a che punto si ha diritto di scegliere per i propri figli? Una rottura del proprio codice morale, per quanto occasionale e dimenticabile come una pietra che arriva improvvisa e rompe il vetro della finestra di casa, basta a mettere in discussione l’intera costruzione? Come in Oltre le colline Mungiu s’interroga sulle conseguenza di una scelta, in un film però molto diverso dal precedente, per certi versi più freddo ma anche più morbido, in cui l’errore non è più lontano dalla presa in carico delle conseguenze e delle responsabilità che ne derivano e dove la lezione passa, aprendo forse davvero una seconda opportunità per il protagonista, proprio in quell’aspetto del suo essere che credeva di condurre al meglio: la paternità. “Perché suoni sempre il clacson?” Domanda Eliza. “Per sicurezza.” “Sì, ma perché lo suoni anche quando non ci sono altre macchine?” L’ironia della sorte, che nel cinema rumeno degli ultimi anni non manca mai, e scorre tanto sotto le commedie grottesche che sotto i drammi più amari, fa sì che il dottor Aldea agisca quando non c’è bisogno di farlo, travolto dal terrore che il futuro di sua figlia possa andare improvvisamente in frantumi come il vetro, quando in realtà sono la sua età e la sua situazione che gli stanno domandando il conto.
Tonya Harding non ha avuto un’infanzia facile e le cose non le sono andate meglio crescendo. Eppure, sebbene sofferente d’asma e forte fumatrice, da sempre e per sempre poco amata dai giudici di gara, che non la ritenevano all’altezza di un modello da proporre, la Harding è stata una grande pattinatrice, la seconda donna ad eseguire un triplo axel in una competizione ufficiale e tuttora una delle pochissime ad averne avuto il coraggio, tanto che il film di Gillespie, che racconta la sua ascesa e la sua caduta, ripercorrendo la sua biografia dai 4 ai 44 anni, ha dovuto supplire con effetti speciali, non trovando nessuna controfigura disposta o capace di farlo.
A Bucarest, 3 giorni dopo l’attentato contro Charlie Hebdo di Parigi, il dottor Lary si riunisce con tutta la famiglia in casa di sua madre per commemorare il padre, morto 40 giorni prima, secondo l’usanza locale. Tensioni, segreti, bugie, gelosie e rancori esplodono sommessamente tra i componenti della famiglia, mentre trapelano qua e là paure, ricordi e nostalgie del regime comunista di Ceau51escu. Si fanno i conti e le verità emergono per tutti. Tutto (o quasi) si svolge all’interno delle pareti domestiche, dove tutti vanno in cucina a fumare, le porte si aprono e si chiudono continuamente su stanze più o meno illuminate, arredate in modi diversi, dove passano cibi a volontà e nessuno mangia (fino all’ultima scena). Un affresco acuto e a tratti ironico sulla società rumena 25 anni dopo la condanna a morte del dittatore. Non cercare significativi strani per il titolo: Puiu l’ha scelto – con vago sapore western – affinché non lo cambiassero all’estero.
In Belgio l’iracheno Ahmed ha un piccolo negozio in cui conserva una preziosa caffettiera d’argento. Durante una manifestazione dei teppisti fanno irruzione nell’esercizio e la rubano. Uno di loro però perde i documenti e Ahmed lo rintraccia con il desiderio di farsi restituire il maltolto. A Roma Renzo, un barista appassionato di aromi di caffè, viene licenziato e va a cercare lavoro a Trieste presso un’importante industria che importa il prezioso prodotto e in cui spera che le sue competenze vengano valorizzate. Ciò però non accade e il giovane, la cui compagna attende un figlio, è tentato dall’idea di compiere un furto. In Cina Fei è un manager di successo che sta per sposare la figlia del proprietario di una grande industria del settore chimico. Un giorno viene incaricato di far ripartire una fabbrica che è stata bloccata da un guasto nello Yunnan che è la sua regione di origine. Fei si accorge dei rischi che corrono la popolazione e le piantagioni di caffè che aveva abbandonato da giovane per cercare fortuna a Pechino. Deve ora decidere quale posizione prendere. Caffè è un film in cui si avverte la sincerità dell’intento, il desiderio di andare a leggere la complessità della realtà contemporanea attraverso un elemento unificatore quale è il caffè per centinaia di milioni di esseri umani. È proprio di loro che si vuole parlare con queste tre storie che vedono protagonisti contesti sociali estremamente diversi ma che in fondo si trovano a doversi quotidianamente confrontare con il dio Denaro che sembra condizionare i comportamenti di (quasi) tutti. Si avverte anche lo sforzo produttivo che ha coinvolto maestranze delle diverse nazioni contribuendo così a un’immersione totale nelle diverse temperie socio culturali. Dispiace quindi assistere a una parte conclusiva in cui un’ampia gamma di situazioni, proprie più del mèlo che non di un’indagine sulla realtà, finiscono con il dominare la scena. Per l’impegno assunto da sempre con i lettori di non fare spoiler sui finali dei film non è possibile elencarle anche se sarebbe utile per supportare il giudizio. Il quale non è negativo perché film come questo possono far riflettere anche un pubblico non proprio addentro ai temi economici su problematiche che ci coinvolgono ormai a livello planetario anche se non hanno la visibilità di altri temi. Totò diceva: “Il coraggio ce l’ho. È la paura che mi frega”. Agli sceneggiatori sarebbe stata forse necessaria una dose inferiore di paura di scontentare il grande pubblico. Purtroppo non è accaduto.
Aubrey Plaza, Jake M. Johnson e Mark Duplass sono i protagonisti della commedia surreale Safety Not Guaranteed. Il film, scritto da Derek Connolly e diretto da Colin Trevorrow, è basato su una storia decisamente bizzarra: un uomo crea un annuncio molto serio su un giornale, dove scrive che è alla ricerca di un compagno per un viaggio nel tempo, affermando che chi ha intenzione di accettare deve portarsi dietro le proprie armi e avverte che la “sicurezza non è garantita”. Generando un vero e proprio tormentone su internet, uno scrittore per una rivista di Seattle decide di andare ad intervistare l’uomo in questione, portando con sé la sua stagista e un altro giornalista. Nel cast compaiono anche le attrici Kristen Bell e Mary Lynn Rajskub. Il film ha partecipato al Sundance Film Festival 2012 vincendo il Waldo Salt per la Miglior Sceneggiatura di Derek Connolly.
Roma, notte. Adele passeggia col fratello fuori da Castel Sant’Angelo; i due incontrano una donna sfigurata in vestiti d’epoca, che si avvicina a lei e si strappa letteralmente la testa dal corpo. Titoli di testa. Dopo essere finita in ospedale, Adele per capirci qualcosa si rivolge a Dylan Dog e al suo sarcastico assistente Groucho. L’ombroso “indagatore dell’incubo” si appassiona al caso, e con l’aiuto del proprio «quinto senso e mezzo», di una medium (Milena Vukotic, in una citazione elegante di Bette Davis), un collezionista (Massimo Bonetti irriconoscibile in vesti da Kinski/Nosferatu) e del “vecchio” ispettore Bloch (Alessandro Haber) risolve l’enigma. In una sospensione affascinante tra illusione e realtà, spiritismo e animismo, porte alchemiche, interni raffinati e bui (ma fotografati benissimo, da Matteo Bruno), tomi antichi, vicoli bagnati, soggettive alterate da sostanze psicotrope come la datura stramonium. Vietato aggiungere altro, e non c’è molto da dire: diretto da Claudio Di Biagio (creatore della web serie Freaks!) e scritto da Luca Vecchi (videomaker dei The Pills, anche interprete molto spiritoso di Groucho), Vittima degli eventi si rifà alla tradizione dell’horror italiano più eccessivo (da Bava ad Argento), ha scrittura credibile e ironica, scenografia e costumi impeccabili, cura dei dettagli, effetti speciali convincenti, insomma tutto ciò che vorremmo vedere e che non troviamo nel cinema e nella serialità tv italiani di oggi. Sarà forse perché la committenza è quella, via crowdfunding, della base di appassionati del fumetto bonelliano – e non di un circoletto di produttori che investono solo nella commedia corale quando non su “giovani” idioti o ruff(in)iani – ma questo è un prodotto che rispetta il proprio pubblico, sfrutta con intelligenza il potenziale gotico e orrorifico del set capitolino e lascia sospesi in un finale magrittiano di rara potenza. Il protagonista Valerio Di Benedetto è (per ora) declinato forse in direzione troppo virile e romanesca (il confronto con l’understatement di Rupert Everett è inevitabile), ma è l’unica osservazione da fare a una narrazione che cattura e intriga. Non è necessario infatti essere fan di Dylan Dog (anzi, forse Vittima degli eventi incuriosirà nuovi lettori) per apprezzare l’ottimo livello produttivo di questo strano oggetto filmico – pilot per una serie? Bozza di film pronto a diventare saga, in cerca di investitori? Mera dimostrazione che qui da noi c’è qualcuno che sa fare meglio di Kevin Munroe di Dylan Dog? Non escludiamo nessuna opzione, anche se questa del minutaggio medio ci sembra la formula migliore. Vittima degli eventi, sorprendente e godibilissimo, dal 2 novembre è visibile sul canale YT dei The Jackal. Citando l’acuto inside joke lanciato da Dylan ad Adele: «anche se ci ha trovato in Internet non vuol dire che non siamo dei professionisti».
Marco è un trentenne in cura da uno psichiatra perchè affetto da attacchi d’ira improvvisi. Durante una seduta, riceve l’invito di unirsi ad una gita marittima per persone affette da disturbi mentali. L’escursione si svolgerà nei mari della Sardegna, su una barca a vela chiamata Andarevia. Con lui ci sono Pablo, un anziano con problemi di comunicazione, Eva, affetta da amnesia a breve termine, Stefania, ossessiva-compulsiva, e Valerio, un giovane disturbato. Troveranno nella gita la possibilità di reinventare la propria vita, imparando a relazionarsi con il disagio altrui e trovando il proprio ruolo all’interno di questa piccola comunità. Un film che ridefinisce, lontano da termini di paragone, l’idea stessa di diversità.
Il passato ritorna a scompigliare violentemente la vita tranquilla che il napoletano Rosario Russo si è rifatto sotto falso nome a Francoforte, aprendo un ristorante, gestito con l’ignara moglie tedesca Renate che gli ha dato il figlio piccolo Mathias. Ritorna con l’inatteso arrivo dall’Italia di Diego, un altro suo figlio avuto molti anni prima a Napoli dove, per uno sgarro, la camorra aveva condannato a morte Rosario. Scritto con Filippo Gravino e Guido Iuculano, è un film in linea con le regole del genere criminale, diretto con accorto mestiere, che ha il suo atout nella presenza di Servillo
Ostia, anni ’90. Cesare e Vittorio, amici d’infanzia, vivono e spacciano per drogarsi. Perfino il sesso non conta niente per loro. Finché Vittorio cambia vita e cerca di tirare fuori dal gorgo l’amico. Ma Cesare è spinto da una rabbia antica riaccesa dalla perdita dell’amata nipotina, che muore di Aids come la madre. 3° e ultimo film di Caligari (morto dopo averne ultimato il montaggio) da lui stesso sceneggiato con Francesca Serafini e a Giordano Meacci, è un dramma in bilico tra cinema-verità e mélo , che con un occhio guarda ad Accattone (1961) di Pasolini – per l’ambientazione, la storia, il senso – e con l’altro – per la fenomenologia della mala e le azioni violente – ammicca a Quei bravi ragazzi (1990) di Scorsese. Pur non raggiungendo né il lirismo etico-religioso del 1° né la tensione epica del 2°, vi si avvicina e colpisce come fotografia della piaga della droga. Portato a termine da amici e collaboratori, tra cui Valerio Mastandrea, che l’ha anche prodotto.
Lui è un cameriere ambizioso, lei è una bellina come tante e vuole sfondare come modella. S’incontrano in un hotel di lusso, uniscono ambizioni, vite, sfortune e tra alti e bassi sempre eccessivi, distruggono la loro storia. Eccessivo tutto, in questo prolisso melodramma fin troppo italiano che tiene d’occhio le serie TV impegnate, il noir francese e il botteghino: non solo eccessivi i personaggi (tutti non simpatici) e quel che fanno, ma anche la storia, i dialoghi, le situazioni, la musica. Germano sopra le righe, la Berges-Frisbey strilla troppo.
Marco Silvestri, capitano di marina mercantile al lavoro su una petroliera, viene richiamato a Parigi con urgenza dalla sorella Sandra. L’azienda di famiglia è in bancarotta, suo marito si è suicidato, sua figlia è stata internata in un istituto psichiatrico. Secondo la giovane donna il responsabile di tutto è un potente uomo d’affari, Edouard Laporte. Deciso a trovare il punto debole del colpevole e vendicarsi, Marco si trasferisce nell’edificio in cui vive con suo figlio una donna legata a Laporte, Raphaëlle. Quello dei “bastardi” è un mondo pericoloso, dove chi è in cerca di vendetta perde presto il controllo, complice anche un’attrazione imprevista.
Quando il figlio diciannovenne della sua donna gli distrugge l’auto, Peter ritiene che sia giunto il momento di metterlo a lavorare e gli affida un incarico di responsabilità: fare da autista ad un sicario di nome Roy. Per il giovane Adam è una gioia, fare il killer è sempre stata la sua aspirazione. Per Roy invece rischia di essere un impedimento, è ormai stanco di uccidere e tutto ciò che gli preme è fare in tempo a presenziare al matrimonio di sua figlia. Ma il bello deve ancora arrivare, anzi la bella… Il regista di Ghosted si cimenta nel crime movie ma allo stesso tempo alleggerisce il tono, lo carica di cupo seppur mai troppo cinico umorismo, e trova un equilibrio perfetto, per un film che non aspira a riscrivere il genere ma a divertirsi al suo interno.
Due amici d’infanzia vogliono realizzare un documentario sull’incredibile ascesa negli ultimi anni della cultura sulle cospirazioni globali. Il progetto non dovrebbe presentare particolari problemi, e infatti così è, almeno fino a quando il personaggio principale del film sparisce nel nulla. Prima di scomparire, però, l’uomo ha lasciato una ricerca che conduce i due filmmaker sulle tracce di una misteriosa società antica. E più penetrano i segreti di questa arcaica organizzazione, più i due amici capiscono di avere a che fare con un sistema di poteri da cui non sanno se riusciranno a sfuggire.
Valerio è un aspirante attore ventinovenne che non riesce a sbarcare il lunario e nei momenti di sconforto fissa il suo trenino elettrico. L’amico d’infanzia Christian è un pusher (ma lui precisa: “rivenditore al dettaglio”) che fa affari con la mala cinese. Valerio vive con Serena, che persegue un dottorato grazie ad una borsa di studio e comincia a sentir ticchettare l’orologio biologico. Christian invece vive con la nonna che ha visioni della Madonna e aggredisce chiunque entri in casa. Infine Giovanna, sorella di Valerio, fa la fisioterapista e mantiene il fratello, invitandolo ripetutamente a crescere e a prendersi le sue responsabilità nei confronti di Serena. Cosa che, a modo suo, fa anche il pragmatico Christian, convinto che le donne non vadano capite ma protette. Nel panorama della commedia italiana contemporanea, in cui hanno la meglio (produttivamente e distributivamente parlando) le messinscene paratelevisive popolate da giovani gaudenti e senza un problema al mondo, l’esordiente trentenne Ciro De Caro racconta il mondo dei suoi coetanei in modo totalmente realistico, a cominciare dai dettagli di ambiente e dalla descrizione della realtà (non) lavorativa dei giovani.
Sicilia, 1905. Federico studia contro voglia medicina e sogna con tutto il cuore di scrivere storie d’amore per il cinematografo, meraviglia di luce che riflette la vita su un lenzuolo. Commosso come i suoi paesani dalla magia del cinema, Federico abbandona gli studi e si improvvisa direttore di scena per Don Gennarino Pecoraro, vizioso produttore napoletano deciso a produrre un film tutto suo. Stufo di treni che arrivano alla stazione e di operai all’uscita dalle fabbriche, Don Gennarino commissiona al ragazzo una storia pruriginosa che ‘scopra’ aspiranti attrici e ne mostri generosamente le grazie. Ispirato dal bagno biblico della “Casta Susanna”, Federico sceglie di immortalare le carni della bella Marianna, fattucchiera imbrogliona e lavandaia analfabeta di una scrittrice torinese. Il successo del film creerà non pochi problemi alla protagonista inconsapevole, additata e disonorata dal paese almeno fino a quando “u’mbrogghiu nt’o linzolu” non verrà rivelato.
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