Primi anni ’40. Annetta arriva a Cagliari alla ricerca di Tecla, di cui si è presa cura dopo che la madre della ragazza è morta. Dalla povertà del paese natìo Annetta si trasferisce al lusso del palazzo cagliaritano dove assume l’incarico di custode quando le proprietarie sfollano in campagna per sfuggire ai bombardamenti che stanno devastano il capoluogo sardo. In quella Cagliari sventrata dalla guerra Annetta si muove come un’ombra poiché si vive come un oscuro angelo della morte: ha ereditato dalla madre un compito e un destino, quello dell’accabadora, donna che nella tradizione sarda dava ai malati terminali la “buona morte”, soffocandoli con un cuscino o coprendoli con un bastone. Un ruolo che Annetta non ha scelto ma che ha accettato con la quieta rassegnazione con cui molte donne hanno acconsentito al posto loro assegnato in una società arcaica dalle tradizioni millenarie.
Fratello e sorella si introducono in un edificio fatiscente. All’esterno, una non meglio precisata situazione post-apocalittica. A dispetto delle apparenze, i due non sono soli e ben presto si trovano a spartire la convivenza con un terzo personaggio, una mefistofelica presenza che li inizia a viaggio interiore all’insegna del piacere e della violenza più estremi.
Una piccola città del Kazakistan fa da sfondo a quattro storie legate dalla dolorosa transizione dall’era sovietica a un nuovo Stato caratterizzato da depressione emotiva ed economica. All’inizio degli anni ’90, quattro bambini di tredici anni devono passare attraverso i rispettivi dilemmi morali per sopravvivere in un paese ancora segnato da un secolo di dominio russo.
Sul finire della guerra, il lattaio Kosta si lascia vivere e attraversa ogni giorno i campi di battaglia per fare le sue consegne, sfuggendo al tiro incrociato dei due fronti. Lo accompagnano il suo asino intelligente, un falco che ascolta la musica e “balla” e altri animali. C’è anche una ragazza che lo vorrebbe sposare. Lo scuote dal suo torpore la passione per una misteriosa e bella italiana, promessa sposa di un eroe nazionale. Musica, balli, mix riuscito di realismo e visionarismo, stramberie di ogni tipo per una storia d’amore vivace e soprattutto viva, sullo sfondo della guerra, combattuta per inerzia e per un nazionalismo xenofobo e rabbioso. Un Kusturica (anche protagonista) quasi doc.
In una scuola di campagna, nelle steppe del kazakistan, il tredicenne Aslan, che vive solo con la nonna, viene umiliato dall’unanimità dei suoi compagni, sottomessi agli ordini del bullo Bolat. Il ragazzino riporta un trauma, diventa maniaco della pulizia del proprio corpo e comincia a meditare una silenziosa, segretissima vendetta. Il lungometraggio d’esordio di Emir Baigazin comincia come un racconto rurale, vergato con sguardo antropologico, che illumina le violenze della catena alimentare naturale, là dove il benessere e l’educazione non hanno ancora scalfito le coscienze e vivere senza carne è impensabile, possibile soltanto e forse “in paradiso”. Poi però il film cambia lentamente registro, di pari passi con l’evoluzione (o meglio l’involuzione) psicologica del protagonista e si fa sempre più oscuro, fino a sconfinare in tutt’altro genere. Il titolo, Harmony Lessons e la sequenza iniziale assumono allora, strada facendo, un significato cinico, ma non meno drammatico. Le risate che nascono spontanee nel seguire i tormenti scolastici del giovane Aslan e l’assurdità delle lezioni, che allontanano ulteriormente gli studenti di campagna da una realtà mutata ma a loro preclusa, lasciano il posto ad una riflessione senza moralismi né scrupoli sul bullismo e sui danni dell’emarginazione. La messa in inquadrature è austera ed elegante, al limite dello sfoggio di stile, ma quando si tratta della violenza fisica non c’è estetizzazione alcuna e, anzi, ad un certo punto il regista opta persino per un’importante, quasi spiazzante, ellissi. Il significato è chiaro: non è la violenza carnale che gli interessa studiare ma quella psicologica, i cui danni vengono restituiti alla perfezione, senza bisogno di parole, dallo sguardo sempre più stretto di Timur Aidarbekov. Tuttavia è il personaggio di Mirsain il vero perno che fa ruotare la storia verso l’autodistruzione: ragazzo di città, estraneo alla logica piramidale della vessazione bullistica e incapace di accettarla, Mirsain non solo stringe con l’esiliato Aslan un’amicizia sincera e forzatamente esclusiva, ma tenta di reagire accettando la sfida e rifiutando la paura. L’insuccesso di questo atto di coraggio spinge il film verso un pessimismo cosmico, austero nell’espressione ma assolutamente inquietante nella sostanza.
In 35 anni è l’8° e il più riuscito film del pugliese Greco che ha riscritto un racconto (1964) di Franco Lucentini. Pur fedele per struttura e dialoghi a Lucentini (senza Fruttero), Greco ha aggiunto di suo qualche dettaglio e 2 sequenze, viste con gli occhi del protagonista: un affollato party notturno e la visita a Villa Adriana di Tivoli. Sono complementari, l’una in negativo e l’altra (quasi un documentario) in positivo: dà un senso al titolo e provoca la “conversione” del personaggio col tramite del fascino rovinoso della Tivoli antica. Battiston è un interprete da premio. Ne sarebbe contento Lucentini, inventore del “professore”, figura che non ha precedenti nella narrativa italiana. Ha ragione Greco nel dire che il suo film è tante cose: esercizio di stile (non un’inquadratura superflua, ogni movimento della cinepresa funzionale), lente con cui guardare la realtà, racconto morale innervato da una tensione etica. Greco sa dirigere i suoi attori e la Angiolini conferma il suo talento.
È un film quieto che può inquietare, quello su Simone Weil (1909-43), pensatrice ebrea francese, ma non è un film biografico: la profondità prevale sull’estensione. Un mese nella vita di S.W., dice il sottotitolo. Qualche settimana in più, nell’estate 1941, quando da Parigi si trasferì nel sud della Francia, vicino a Marsiglia, ospite del monarchico spiritualista Gustave Thibon e di sua moglie Yvette. Pasolini distingueva tra cinema di poesia e cinema di prosa. Quello della Piovano è metà dell’uno e dell’altro. È poetico nello spazio dei paesaggi dell’Ardèche (da lei trovati a Bollengo, TO, nei campi di sua proprietà dove produce vini preziosi), nelle immagini notturne di un bosco dove Simone si muove come un’ombra (o un fantasma?), nelle inquadrature verticali di frutta e verdura, luminose “nature morte” senza funzione narrativa. È in bilico tra poesia e prosa nel Leitmotiv della fisarmonica in un film dove la musica (Marc Perrone), le canzoni, i balli, i suoni sono importanti. È cinema di prosa nel Leitmotiv storico-informativo della terrazza dove i notabili del paese dialogano tra loro, mentre risuona la voce del generale Pétain, capo dello Stato dopo il 1940 e del governo collaborazionista di Vichy. Verso la fine la Piovano insiste sul “nodo che non lega”, decisa a trasferirlo in metafora ai sentimenti, agli affetti, all’amore. I rapporti tra Simone e la moglie di Thibon sono tra i momenti più delicati e felici. Nel suo ritratto mette la sordina al misticismo, all’ispirazione etico-religiosa, eliminando la tentazione di Simone di convertirsi al cristianesimo. È un film laico, tutt’altro che semplice, come vorrebbe la regista. Ellittico e allusivo, qua e là anche troppo (montaggio del sapiente Roberto Perpignani), appartiene a quel cinema per “felici pochi” che esige dallo spettatore non soltanto attenzione, ma collaborazione attiva. Weil morì a 34 anni in Inghilterra, nel Kent. Le circostanze biografiche confermano che si lasciò morire. Nel film dice: “Morirò. Muoio anche adesso”. Prima aveva detto: “L’amore non è indulgenza”. Scritto con Lucilla Schiaffino e prodotto da Kitchen Film. Fotografia: Raul Torresi. Distribuito da Bolero.
Eleonora Danco, autrice e regista teatrale al suo debutto cinematografico, si aggira fra Roma e Terracina vestita di bianco, talvolta in pigiama (con letto annesso), talvolta drappeggiata da una sorta di tunica romana (con in mano un piccone). E fa domande a tutti, soprattutto a suo padre, che risponde infastidito difendendo a spada tratta la sua privacy. Danco interroga il nostro Paese concentrandosi sui suoi due estremi anagrafici: da un lato i giovani e giovanissimi, dall’altro i vecchi e vecchissimi. Le sue domande riguardano i grandi temi della vita – a cominciare dalla morte e dalla possibilità che esita un aldilà – ma anche i problemi della contemporaneità, raccontati nel loro divenire. Così la violenza domestica ritorna nelle parole di un’anziana picchiata per una vita dal marito e in quelli di una ragazza che conosce coetanee malmenate dai fidanzati; la questione del lavoro parte dallo sfruttamento minorile raccontato da un’anziana e atterra alla pizzeria dello zio dove un ragazzo presta servizio dopo la scuola. In mezzo, naturalmente, ci sono tutte le facce contemporanee della disoccupazione giovanile. Le domande di Eleonora portano l’eco delle inchieste pasoliniane, ma ciò che le distanzia dal sondaggio paragiornalistico è la decontestualizzazione di matrice teatrale. La regista e autrice colloca i suoi intervistandi in luoghi insoliti, creando attorno a loro una coreografia surreale che ha l’effetto di ottenere dai “soggetti” una verità meno condizionata dalla presenza della cinepresa. I suoi interrogativi assumono il ruolo di una sfida, soprattutto nei confronti della figura paterna, e assottigliano il confine fra curiosità e provocazione. Quel che emerge è un ritratto della contemporaneità in cui passato e presente rivelano una insospettabile continuità (perlopiù in negativo) ma anche quel gap nella trasmissione del sapere (anche solo contadino) che ha lasciato un vuoto cosmico nella percezione di sé e del mondo fra i più giovani. Un vuoto che è prima di tutto culturale (devastante il rapporto fra i ragazzi e la scuola) e poi esistenziale. Ad affrancare la narrazione dalla pesantezza sociologica è l’ironia che appartiene tanto all’intervistatrice quanto agli intervistati – soprattutto gli anziani. Il punto più debole del film è, paradossalmente, l’eccesso di presenza fisica della Danco, che aggiunge ad una narrazione già fortemente personale (nelle domande, nelle messinscena) alcuni monologhi in voce fuori campo e parecchie immagini di se stessa “teatralizzata” nel contesto urbano e marino. La potenza delle immagini di N-capace, comprese quelle che vedono la regista protagonista, resta comunque fuori discussione: lei immersa in una vasca in mezzo ai biscotti Gentilini, il primo piano della vecchia contadina in mezzo agli ulivi e ai pomodori, il quadro surreale con i due astronauti fra melanzane e i peperoni strategicamente piazzati, l’anziana signora con intorno le scarpe abbandonate (nere, non rosse, per una volta). N-capace è un coraggioso esperimento linguistico in equilibrio fra autenticità e finzione e un’efficace mappa per raccontare il presente. È anche un affresco postmoderno che mescola arti figurative e inchiesta, performance art e cinema. Un’ibridazione utile – e forse necessaria – per raccontare in modo nuovo questa Italia, oggi.
The Killing Jar è un film di genere Drammatico del 2010 diretto da Mark Young con Amber Benson e Kevin Gage. Durata: 92 min. Paese di produzione: USA.
Uno straniero armato di fucile prende in ostaggio sette avventori di un solitario ristorante per camionisti. Mentre i morti aumentano, i sopravvissuti scoprono loro malgrado che uno degli ostaggi si potrebbe rivelare ancora più pericoloso del rapitore.
Storia di morte rinascita vita e morte, chiusa in una forma circolare, ma filmata in un cinemascope strettissimo ed evocativo, Sudoeste narra di una ragazzina alla scoperta del mondo.
Jack ha 11 anni e un fratello più piccolo. I due avrebbero anche una mamma, Sanna, se non fosse che, troppo impegnata com’è a vivere la propria vita di ragazza libera, tutto il peso delle vicende quotidiane (a partire molto spesso dalla prima colazione) non ricadesse su Jack. Fino a quando un incidente domestico, che avrebbe potuto avere più gravi conseguenze di quelle causate, non impone l’affidamento del figlio più grande ad un centro di assistenza ai minori. Jack soffre per questa separazione ma attende con ansia le vacanze per ricongiungersi a madre e fratello. Il bullismo di un compagno cambierà i suoi progetti. Non è facile impostare l’80% della riuscita di un film sulle spalle di un giovanissimo protagonista che non è mai stato davanti a una macchina da presa. È la scommessa (vinta) da Edward Berger e Nele Mueller-Stofen che hanno affidato allo sguardo (in perenne ricerca di un senso nella vita) di Ivo Pietzcker il compito di guidare lo spettatore in un percorso di dolorosa crescita. La camera a mano di Jens Harant lo accompagna sin dal primo risveglio in cui è impegnato ad occuparsi di sé e del fratellastro (che brutta parola in italiano per ricordare che si è figli di un altro genitore) a cui vuole un bene profondo. Le vicende di Jack ci ricordano quanto abbia ragione il filosofo e sociologo Zygmunt Bauman quando in “Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi” ci ricorda che “Avere figli significa assumersi la responsabilità del benessere di un’altra creatura più debole e indifesa. L’autonomia delle proprie preferenze è destinata a essere compromessa reiteratamente, anno dopo anno, quotidianamente. Si corre il rischio di diventare, orrore degli orrori, ‘dipendente’. (…) Cosa più dolorosa di tutte, avere figli significa accettare tale dipendenza separatrice di fedeltà per un tempo indefinito, assumere un impegno irrevocabile e a tempo indeterminato, senza alcuna clausola ‘fino a ulteriore notifica’ annessa; il tipo di obbligo che mal si confà alla politica della vita liquido-moderna e che quasi tutti evitano accuratamente nelle loro altre manifestazioni di vita.” È quanto accade a Senna che non perde per questo l’amore del figlio anche se, a lungo andare, non può evitare di essere sottoposta a un giudizio. Jack le viene tolto per essere immesso in un mondo in cui nessuno di coloro i quali si trova a condividere le giornate ha l’animo sereno. Tutti hanno una ferita nel profondo e se qualcuno trova lenimento in un binocolo altri lo cercano nel trasferire la violenza, probabilmente subìta in precedenza, su chi ritengono più debole. Jack può anche sembrare la vittima sacrificale ma ha dentro di sé la forza di chi ha dovuto scoprire e interiorizzare anzitempo il senso della parola ‘responsabilità’. Fino a giungere alle decisioni più estreme.
Leuca, estrema punta meridionale pugliese. La crisi economica è arrivata anche lì e Adele e Vito non riescono più a gestire l’azienda di famiglia che confeziona abiti per le aziende del Nord. I cinesi lavorano a prezzi impossibili e gli usurai incalzano. Vito emigra. Adele svende casa e con la madre, la sorella che sogna di diventare attrice e la figlia 18enne svaporata e superficiale, si trasferisce nella malmessa masseria, in campagna, per campare di prodotti della terra e baratto. Winspeare prosegue la sua personale indagine sul territorio del Salento e i suoi abitanti con una storia tutta al femminile, gli uomini sono sullo sfondo, in genere poco affidabili. Dialetto stretto, tempi particolari, storia che sfiora il neorealismo: punta sui sentimenti, sull’empatia nei confronti dei personaggi e delle loro vicende. Distribuito da Good Films.
La riconsiderazione della leggenda di Dracula, il film si apre con l’arrivo di un ispettore di scuola elementare in un remoto villaggio.
During the second world war, an American crew of B-Movies took refuge in Lisbon. In 1943, producer Valerie Lewton married with a Portuguese actor that translated to her Branquinho da Fonseca’s short story “The Baron”. The dictator heard about the movie and ordered that the film was destroyed. The crew was repatriated. The Portuguese actors were deported to Tarrafal’s Concentration camp. They died tortured in the “skillet”, a cubicle where humans were roasted. In 2005, 2 reels and the screenplay were found in the archives of Barreiro’s kino-club. For the next 5 years the film was restored and reshot. In 2011, was shown for the first time.
Un angolo felice della campagna inglese ospita Beecham House, casa di riposo per musicisti e cantanti. Ogni anno, in occasione dell’anniversario della nascita di Giuseppe Verdi, gli ospiti organizzano un gala e si esibiscono di fronte ad un pubblico pagante per sostenere Beecham e scongiurarne lo smantellamento. Ma ecco che la routine di Reggie, Wilf e Cissy viene sconvolta dall’arrivo a pensione di Jean Horton, elemento mancante e artista di punta del loro leggendario quartetto, nonché ex moglie di un Reggie ancora ferito.
Edo, 17enne riservato, riflessivo, colto e genuino, non vuole farsi tagliare il prepuzio troppo chiuso che gli rende dolorosi i rapporti sessuali. L’amore per Bianca lo convince a darci un taglio. Dopo il documentario Hit the Road, Nonna (2011), il giovane fiorentino Chiarini – anche sceneggiatore con Ottavia Maddeddu, Marco Pettenello e Miroslav Mandic – esordisce nella fiction con una storia originale, verosimile, in chiave di elegia felicemente ironica e delicatamente audace nel mettere a nudo l’intimità del corpo e della psiche maschili. È un racconto di formazione – meglio: di un rito di passaggio dall’adolescenza alla maturità – con risvolti simbolici: il pene rinchiuso nella pelle, la paura di sporgere la testa fuori dal treno in corsa. Coinvolgente, per freschezza e naturalezza, l’interpretazione di Creatini; ottimo il suo accoppiamento comico con Nocchi (l’amico Arturo). Musiche indie rock della band canadese Woodpigeon. Finanziato (150mila euro) dal Biennale College-Cinema di Venezia, che ogni anno seleziona 12 progetti di opere prime o seconde. Presentato a Venezia 2014 e a Berlino 2015.
Scritto dal regista con Joss Whedon. Dagli anni ’70, anche in Italia, si è formato un gruppo di cinecritici cinefili che considerano l’horror come il più sovversivo dei generi. Li abbiamo sempre letti, tolte rare eccezioni, con diffidenza e un pizzico di spregioso scetticismo. È “un perfetto esempio di narcisismo citazionista… un contenitore di altri film e situazioni” (Giona A. Nazzaro). Sciapo nella descrizione dell’ambiente boschivo e dei convenzionali personaggi, debole nella suspense, scade poi in una macelleria già vista e rivista. Questo Goddard ha una “d” in più e molto talento in meno del suo vecchio omonimo francese.
Il film è incentrato su un paio di giorni pericolosi della vita di Miles Davis (Cheadle), mentre esce dal suo periodo di silenzio e cospira con uno scrittore del Rolling Stone (McGregor) per riprendersi la sua musica.
Padre, madre e due figli in viaggio in macchina attraverso il paesaggio maestoso del Cile settentrionale. Le dinamiche familiari viste dal punto di vista dei ragazzi, narrate mettendo la macchina da presa alla loro altezza, osservando il mondo degli adulti dalla loro prospettiva.
Nell’estate del 1999 un detective della polizia indaga su uno strano caso di omicidio: brandelli della vittima vengono ritrovati contemporaneamente in diverse cave di carbone. Nel corso delle indagini però un confronto a fuoco uccide i suoi colleghi e lo lascia ferito e traumatizzato. Cinque anni dopo, in inverno, la situazione è molto peggiore per lui e per il mondo in cui vive. Lo ritroviamo ubriaco al margine della strada, non è più poliziotto ma lavora come guardia privata, e lo sconosciuto che si ferma per vedere se è ancora vivo in realtà lo fa per rubargli la moto. Il ripresentarsi di omicidi simili a quelli del 1999 lo spinge tuttavia a ricominciare le indagini in privato.
Scritto con Joey Curtis e Cami Delavigne, è una tristissima storia d’amore sotto il segno delle differenze che in una giovane coppia si acuiscono col tempo, e delle svolte che non arrivano. Si cita un blues di successo: “You Always Hurt the One Who Loves” (“Fai sempre del male a chi ama”). Gosling lo suona con l’ukulele, la Williams improvvisa un tip-tap per la strada. Pochi anni dopo i due si rinfacciano, rimpiangono, si accusano. Nel frattempo la fotografia luminosa dell’amore nascente diventa livida e cupa. Nulla da eccepire sulla bravura dei 2 protagonisti; la Williams si guadagnò anche una candidatura all’Oscar. La regia asseconda con puntiglio dolente i simboli, le allusioni, le trovate plastiche. Musiche di Grizzly Bear. Uscito in USA nel 2010, è rimasto congelato per 3 anni e distribuito da noi col contagocce (dalla meritoria Movies Inspired). Troppo sentimentale per il pubblico italiano?
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