Nils guida lo spazzaneve in Norvegia, ha molto lavoro, è un uomo tranquillo e un cittadino esemplare. Quando suo figlio Ingvar, ormai adulto, è trovato morto, la polizia chiude il caso come overdose. Nils si improvvisa detective, scopre che c’è del marcio e risale la filiera malavitosa a partire da chi ha ucciso suo figlio per errore, sino ai boss locali: un indigeno vegano, nevrotico e violento, e un serbo della vecchia guardia. Incosciente e fortunato, Nils scatena una piccola guerra. Il tema del giustiziere da noir nordico è stemperato con battute su welfare e clima, sull’ottima assistenza dei carcerati in Norvegia e soprattutto dai siparietti che scandiscono i morti (e sono molti) con nome, soprannome e religione. Skarsgård convincente nei panni di Nils, mentre Ganz appare a suo agio nel cesellare il vecchio, anacronistico serbo Papa. Distribuito da Teodora Film.
Film unico nel suo genere. L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta. Vi regna la libertà religiosa, ma in privato. È negata la cittadinanza agli immigrati, o profughi, se non musulmani. È un Paese islamico ricco (di petrolio). Uscita da una famiglia della borghesia agiata, dopo aver fatto 3 corti e il documentario Women Whitout Shadows (2005), H. Al-Mansour ha coprodotto, scritto e diretto Wadjda , nome di una ragazzina indipendente e critica che ascolta musica proibita, amica (ancor più proibita) di un coetaneo. Per comprarsi una bicicletta si iscrive a una gara di interpretazione dei versetti del Corano e la vince. La Al-Mansour è la prima donna saudita a dirigere un film a soggetto, sia pure con capitali tedeschi e col sostegno del Sundance Institute. È un film semplice di struttura elementare, tipico di un Paese con una cinematografia appena nata che ha come modello quella dell’Iran: evidenti le affinità con Il palloncino bianco (1995), esordio di Jafar Panahi. La 12enne Waad Mohammed ne è la protagonista giusta con la sua impetuosa vitalità infantile. Distribuisce Academy Two.
Insuccesso costato 118 milioni di dollari, appartiene più a Damon che a Van Sant: lo ha in parte prodotto, scritto con Dave Eggers e John Krasinski e interpretato nei panni di Steve Butler della Global Crosspower Solutions, un gigante dell’energia che distribuisce ricchi assegni a contadini poveri in cambio del diritto di estrarre gas naturale nascosto sotto i loro campi. Il sistema però può avere effetti collaterali gravi, inquinando le falde con conseguenze disastrose per raccolti e animali. Un ambientalista (Krasinski) in apparenza si impegna per boicottare Steve e la sua vispa collega (McDormand). Film di ottimi attori e pieno di buone intenzioni, con due difetti: 1) regia pallida; 2) protagonista inverosimile: com’è possibile che Steve, promosso dirigente, non conosca gli effetti delle trivellazioni che propone?
Il film ha alle spalle una versione teatrale di successo (scritta dallo stesso Gallienne) che affronta l’argomento del coming out all’incontrario: è la storia di una famiglia altoborghese, con una madre vedova autoritaria che ha 3 figli maschi, uno dei quali (secondo lei, un omosessuale) è in cerca della sua identità sessuale e dovrebbe esplorare il suo percorso verso la verità, comportandosi cioè come una donna, diventando sua madre per poi riuscire a diventare sé stesso. Sul palcoscenico Guillaume forniva una prova di estremo virtuosismo interpretando tutti i ruoli: nel film si limita ai 2 principali: sé stesso e la madre. È un film almodovariano, ma senza la stessa sfacciataggine allegra. Con un occhio, dichiarato dall’autore, a Billy Wilder.
Gummi e Kiddi, i migliori allevatori di pecore di uno sperduto paese islandese, sono fratelli, vivono da scapoli in due fattorie confinanti, ma non si parlano da 40 anni. Lo scontro si acutizza quando Gummi scopre che il montone di Kiddi ha una malattia infettiva e il governo ordina l’abbattimento di tutti gli ovini della zona. 1° film di produzione esclusivamente islandese giunto sugli schermi italiani, sceneggiato dallo stesso regista, è un dramma psicologico – una storia d’amore/odio fraterno -, antropologico – l’analisi di una vita quasi eremitica in cui l’affetto per gli animali prevale su quello per gli umani – e sociale – la vicenda della rovina di una comunità. Con una trama semplice e lineare, senza il minimo effetto speciale, con tempi dilatati, appropriati all’ambiente descritto, un film straniante, di grande forza emotiva e di suggestivo impatto visivo per l’esotismo dei paesaggi. Premio Un Certain Regard a Cannes.
“3 cose non bisogna mai fare al primo film: parlare in altre lingue; usare attori neri e non professionisti; trattare il tema dell’immigrazione”. Lo dice l’esordiente Lombardi che le ha fatte tutte e tre con un film che alla 26ª Settimana della Critica di Venezia 2011 vinse il Leone del Futuro – Opera Prima e il premio del pubblico Kino. Tra Napoli (“la più africana delle città europee”, secondo Roberto Saviano) e Caserta vivono 20 000 africani, la metà clandestini, emigrati da Ghana, Benin, Senegal, Costa d’Avorio, Burkina Faso. Tolte poche eccezioni, possono scegliere il duro e sottopagato lavoro nei campi o entrare nel traffico delle droghe. Il 18 settembre 2008 a Castelvolturno un commando di camorristi irrompe in una sartoria di immigrati, ammazzandone 6 e ferendone gravemente un altro. Quella stessa sera il giovane Yussouf decide di chiudere i conti con lo zio Moses che l’aveva convinto a venire in Italia, promettendogli un futuro di onesto artigiano, ma poi inducendolo a gestire un ricco giro di cocaina.
A Nazareth, una vecchia racconta la nascita e i primi 12 anni di suo figlio Jeshua (Gesù). Al pascolo l’adolescente Maria scopre di essere incinta. Anticipate le nozze con Giuseppe, vedovo con due figli, si distingue subito per il rifiuto di seguire le imposizioni patriarcali: convince Giuseppe a far nascere il bambino a Betlemme, lontano dalla famiglia, senza farlo circoncidere. Ereditata dalla madre, la saggezza la porta a ottenere la fiducia dei figliastri, proteggendoli dalle ingiustizie, e a educare Joshua a essere libero e diverso, insegnandogli la differenza tra bene e male senza identificarli con punizioni e paure. Compiuto il 12° anno e introdotto al tempio di Gerusalemme, il figlio comincia a fare domande ai sapienti, stupiti. Ideato da Nicoletta Micheli che l’ha scritto col marito regista e Filippo Kalomenidis, è un film di linea materna (la conoscenza passa di madre in madre) e di impianto antiautoritario, senza miracoli né apparizioni né angeli e contro ogni violenza del potere. Laico e anticlericale, ma non privo del senso del sacro. Girato in Tunisia; i personaggi parlano un dialetto antico di campagna, lontano dall’arabo ufficiale. Prodotto da Colorado/Magda/Rai Cinema. Distribuito da Bolero.
Christine rifiuta il nome che le è stato attribuito, per usarne uno che si è scelto: Lady Bird. Odia Sacramento, dove non succede nulla, e sogna New York. Nella lotta per affermare le proprie scelte la asseconda il padre disoccupato, ma non la madre infermiera, preoccupata per il suo futuro. Sotto le mentite spoglie del racconto di formazione di area indie, Greta Gerwig, al suo debutto da regista in solitudine, confeziona un’opera generazionale e universale, capace di comunicare al di là delle barriere culturali.
Un vagabondo di nome Jens arriva nei pressi di un villaggio lussemburghese. È di origine tedesca e non parla la lingua del posto, pertanto viene trattato con freddezza, finché non incontra la figlia del sindaco, Lucy, che se lo porta a letto. Il mattino dopo il padre della giovane accompagna Jens in giro per il villaggio, gli trova lavoro presso un fattore e presto lo invita anche a cena. La comunità sembra accoglierlo senza fare domande e fin troppo calorosamente, anche perché Jens trova nel camper dove alloggia oggetti lasciati da qualcuno prima di lui. Si tratta dello scomparso Georges, che viveva in una casa vicina e forse aveva fotografato nude le donne sposate del paese.
Brad Pitt e Jonah Hill hanno formato una coppia straordinaria sul grande schermo. Entrambi candidati agli Oscar 2012 per il convincente L’arte di vincere, saranno di nuovo insieme per realizzare un film basato su una storia vera. Hill vestirà i panni del protagonista insieme a James Franco, mentre Brad Pitt se ne starà dietro le quinte come co-produttore. Jonah Hill interpreterà il giornalista Michael Finkel, un reporter statunitense del New York Times che nel 2002 scoprì che uno dei latitanti più ricercati dell’FBI, Christian Longo, aveva vissuto sotto la sua identità in Messico. Successivamente, Finkel venne accusato di aver pubblicato informazioni false. Da quel momento per il reporter iniziò la disfatta della sua carriera. Ma una possibilità di redenzione arrivò inaspettatamente quando Longo, cercando di dimostrare la sua innocenza, affermò che avrebbe parlato solo con l’unico giornalista di cui si poteva veramente fidare. Dopo il successo all’Oscar l’attore Hill sembra voler tentare la strada di ruoli variegati e sfaccettati, che non comprendano solo il genere commedia.
Anna vive a Napoli, con marito, 2 figlie belline e 1 figlio sordomuto, fa la suggeritrice per la televisione. Schiacciata da una famiglia violenta e maschilista, ha rinunciato a sé stessa fin da piccola, quando, per evitare il carcere al fratello, la obbligarono ad assumersi una colpa da lui commessa, che le costò anni di istituto di recupero. Crede di poter trovare fuga e riscatto nella relazione con un bell’attore: un’ennesima batosta. Insopportabili il film, gli interpreti e la regia con “effetti” pittorico-folclorici. Eppure, Coppa Volpi alla Golino.
Michele vive alla periferia di Caserta e sogna di fare il pugile. Si becca 8 anni di prigione per salvare l’amico Rosario, piccolo delinquente della camorra, e in galera continua ad allenarsi. Quando esce, Rosario si “occupa” di lui, coinvolgendolo in un giro di incontri venduti, di scommesse, di intrallazzi. Fugge a Berlino, scende in un girone ancora più basso dell’inferno del mondo del pugilato, ma trova una figura paterna “pulita” che lo aiuterà verso un riscatto insperato. Ispirato a un racconto del libro di Roberto Saviano La bellezza e l’inferno (2011), sceneggiato a più mani, il film è un efficace ritratto dell’ambiente, un durissimo affresco del mondo camorrista-malavitoso che gravita intorno al mondo dello sport e a quello della boxe in particolare; ma anche un omaggio a Mimmo Brillantino, allenatore di Marcianise, dove, con 3 palestre gratuite, si combatte da sempre la cultura camorrista. Gagliardi dirige con tatto i suoi non attori, che sono soprattutto volti, esseri umani realistici e dolenti. Interessante colonna musicale di Peppe Voltarelli.
Giovanna Camurati è una ragazzina di tredici anni come tante altre, con l’avventura della crescita da affrontare e una timidezza che la spinge a scrutare il mondo da un’angolazione privilegiata, senza esserne travolta e senza essere vista. Giovanna ha una mamma e un papà come tanti altri, che, tra alti e bassi, tengono le redini di una famiglia un po’ speciale. Perché al centro di questa famiglia c’è la piccola Pulce, per gli altri Margherita, la sorellina di Giovanna. Pulce ha otto anni, va pazza per il tamarindo, la musica di Bach e il tango. Pulce non parla, perché è autistica, ma questo non significa che non sappia comunicare. Un giorno, però, la mamma va a prenderla a scuola e scopre che Pulce non c’è. È stata portata in una comunità: il padre è sospettato di avere abusato di lei.
Germania Ovest, 1958. In pieno boom economico, mentre tutti vogliono dimenticare il passato, un giovane procuratore di Francoforte indaga su un maestro di scuola riconosciuto come ex SS da un pittore ebreo sopravvissuto ad Auschwitz. Lottando contro le resistenze interne alla stessa magistratura e le omertà esterne dei più, riuscirà nel 1963 a mandare alla sbarra 22 SS, a farne condannare 6 all’ergastolo e, soprattutto, a dare inizio alla presa di coscienza dei crimini nazisti da parte dei tedeschi. Avvalendosi di un soggetto di Elisabeth Bartel, basato su eventi reali e da lei stessa sceneggiato col regista e Amelie Syberberg, Ricciarelli ha girato un dramma giudiziario di grande interesse storico e di profondo valore morale, facendo del protagonista, rappresentante della nuova generazione postbellica, un novello Edipo deciso a scoprire la verità anche se “conoscere è soffrire”. Ritmo alacre e 2 o 3 momenti di intensa commozione, ma il film è alquanto convenzionale. Selezionato dalla Germania a concorrere all’Oscar 2016 per il miglior film straniero.
Lorenzo ha 35 anni e lavora come sommozzatore su una piattaforma petrolifera. Lavoro duro, di quelli da uomini tutti d’un pezzo. E nel suo mestiere Lorenzo è uno dei migliori. Alla sera, quando ne ha voglia, scende a terra. Lorenzo con le donne ci sa fare ma ha una regola, una notte e poi sparisce. Non si ferma a dormire, mai. È un leit-motiv che si ripete, perché così è più facile e non ci si prende troppo sul serio. E continua fino a quando incontra Claudia e la passione lo travolge. Claudia è diversa e Lorenzo lo scopre quella notte, quando sulla porta della camera accanto incontra Matteo. Ha sei anni ed è il figlio di Claudia. E si apre un vortice in cui non esistono compromessi. Impossibile amare lei e dimenticare il figlio in un angolo. È un tutto o niente, un prendere o lasciare. Un unico tuffo nel vuoto. Giulio Base ha maturato esperienza al servizio del piccolo schermo e l’ereditarietà della fiction televisiva traspare nel linguaggio che qui ha scelto. Eppure, con Mio papà ha realizzato un film dal gusto agrodolce e leggero, in equilibrio tra le emozioni, grazie ai diversivi comici creati da Ninetto Davoli e Fabio Troiano. Un dramma familiare attuale e contemporaneo, immerso nell’aperta discussione legale, fatta di difficoltà e limiti burocratici. Mio papà ha il suo fulcro nell’affrontare un’opportunità d’amore. Il padre è chi cresce o chi ha dato la vita. E crescere non è forse donare la vita. Amare i figli degli altri, essere padre, dunque. Essere un uomo vero, presente. In antitesi con quello naturale, completamente assente. ?Crescere, camminare insieme, condurre per mano un bimbo dall’incondizionato bisogno d’amore. Un bimbo che da grande vuole aggiustare il mare, proprio come Lorenzo. Il piccolo Matteo ha il volto dell’eccezionale Niccolò Calvagna (classe 2006), intenso e mai in difficoltà accanto a professionisti ben più adulti. E grazie alla sua interpretazione è più facile provare empatia per Mio papà, film dalla lacrima suggerita, moderno spaccato familiare di un Italia di provincia, sincera e così lontana dal paese idealizzato che troppo spesso vediamo nelle fiction televisive
30 anni di vita di Ernesto Fioretti, un uomo qualunque. Figlio di un tappezziere romano manesco, tifoso della Roma, cambia lavoro più volte senza significativi risultati, ama tutta la vita la stessa donna, è sfiorato senza conseguenze dagli scandali socialisti e dall’amicizia di un eccentrico pittore. Veronesi, che racconta la storia in un lungo flashback, si è ispirato a una persona vera, autista suo e di altri registi e attori del cinema italiano, in un film che esiste solo per la bravura (a tratti un po’ troppo sopra le righe) di Germano e lascia, alla fine, lo spettatore con un grigio senso di amara malinconia.
In concorso al Festival di Torino 2012, è un film parlato in sardo e sottotitolato in italiano. Il regista, che l’ha sceneggiato con il fratello Michele, l’ha tratto dai Vangeli sinottici di Matteo, Marco, Luca. La potente rilettura di Columbu ritrova il Cristo fatto uomo, riportando sullo schermo la salvezza. Dopo questo film il Pasolini di Il vangelo secondo Matteo (1964) è meno lontano, forse meno solo. Fotografia di Massimo Foletti, Uliano Lucas, Emilio Della Chiesa. Prodotto da Luches Film e Rai Cinema. Il fatto che sia distribuito dalla Sacher fa onore a Nanni Moretti.
Prodotto da Simone Bachini, Lionello Cerri, Giorgio Diritti, Valerio De Paolis, Rai Cinema e BNL Gruppo BNP Paribas. Girato in Amazzonia e Trentino. Il bolognese Diritti dice: “Ho scelto un film al femminile perché alle donne appartengono innumerevoli risorse, e una vera propensione a proteggere la vita, a reagire e agire”. 6 degli 8 personaggi principali sono donne. La Trinca è qui la complessa protagonista di un film che semplice non è. Come una Simone Weil dei nostri giorni, la sua Augusta non sente una vera vocazione mistica. Vive in una baraccopoli di Manaus, sul Rio delle Amazzoni, si comporta come un ragazzaccio, rifiuta le scorciatoie del post-colonialismo, s’immerge in una natura meravigliosa che può distruggere o guarire, lei che non può più avere figli. Scritto da Diritti con Fredo Valla e Tania Pedroni; fotografia di Roberto Cimatti. Costumi di Hellen Gomes e Lia Morandini. Distribuito da Elle Driver. In concorso al Sundance Festival.
Allontanato dal nucleo famigliare in seguito ad episodi di violenza e stalking, Lucio Melillo, di professione guardia giurata, non riesce a sopportare la mancanza della figlia Adele e della moglie Nadia, che nel frattempo ha stretto un legame sentimentale con il proprio analista. I turni di lavoro, l’amicizia con il collega Vincenzo e la frequentazione di una giovane prostituta non lo aiuteranno certo a mettere ordine in un’esistenza che subirà l’ennesimo colpo durante l’udienza per l’affidamento della bambina: privato di qualsiasi diritto di padre, l’uomo sceglierà una drastica via d’uscita. Quasi venti minuti senza dialogo aprono l’opera seconda di Giorgio Amato, un lungo ed spiazzante brano necessario ad inquadrare il protagonista di una storia che si muove tra racconto di una patologia e dramma esistenziale, accenti thriller e una deriva da “film di rapina” dal tocco un po’ americano. Come per il precedente lavoro, Circuito chiuso, la produzione resta indipendente, ma lo sguardo dimostra di aver fatto un grande passo in avanti, di essersi affilato, guadagnando non poco in perspicacia descrittiva. Meglio che sulla progressione narrativa, peraltro vispa e senza punti di stanca, il regista concentra, infatti, la propria attenzione sull’ambivalenza del suo personaggio: si pensi a quelle esplosioni di violenza che si dissolvono nei momenti in cui compare il personaggio della figlia Adele, quasi fosse un catalizzatore di buone vibrazioni per chi è sempre sul punto di esplodere. Perché ogni cosa qui, dalla precisa recitazione di Victor Altieri ai più minuti particolari scenografici (i manifesti di Mussolini o della bandiera italiana con il fascio), tende invero a restituire, in tutta la loro complessità, le contraddizioni di un uomo oltremodo vivo, vero e perso nella sua stessa ossessione. Ritratto di una mania di possesso che crea disagio, distanzia e, insieme, commuove, questo film ben fatto si sviluppa, in essenza, per ripetizioni dei medesimi quadri e situazioni (l’appartamento, la scuola, il caveau, il bar), come se volesse suggerire l’ordinarietà della patologia di Lucio e del dramma vissuto da una famiglia come molte altre. Sottilmente quando non apertamente spaventoso, le visite notturne in casa della moglie, The Stalker raggiunge un suo rigore stilistico, una precisione di descrizione che neanche l’eccessivo e fastidioso uso della macchina a mano riesce a smorzare. Nel ruolo dell’analista recita lo stesso Giorgio Amato.
Scritto dal regista esordiente, prodotto da Domenico Procacci (per Fandango/Rai Cinema) e da lui distribuito, tratto dalla graphic novel Nessuno mi farà del male di Giacomo Monti (Canicola Edizioni). Esiste una sindrome, l’alessitimia, che secondo lo Zingarelli è l’incapacità di percepire, riconoscere ed esprimere verbalmente le proprie emozioni. Ne è affetto Luca Bertacci, abbandonato dalla madre quand’era piccolo. Fa il barista in una sala bingo, ha rari incontri col padre razzista e un’attrazione inconfessabile per una vicina di casa. Intanto gli extraterrestri sono sbarcati sulla Terra. In Italia sono accolti come extracomunitari o con bizzarre motivazioni mistico-religiose, ma per Luca sono la manna. Sanno distinguere il bene dal male, hanno il senso del futuro e insegnano agli uomini ad amare le donne, stimandole, invece di parlare sempre di calcio o di complotti politici. Nella sceneggiatura Pacinotti (che come noto fumettista si firma Gipi) fatica non poco a dare unità al frammentismo delle storie di Monti. Lo si vede nella 2ª parte e nella schematica figura di Herlitzka, ma il film – in concorso a Venezia 2011 – rimane uno dei meno prevedibili e più spiazzanti prodotti del cinema italiano, specialmente nella scelta dei paesaggi (fotografia di Vladan Radovic), emblemi di un Paese in crisi soprattutto morale.
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