A seguito di un banale incidente nel suo villaggio, la piccola Shula, di 8 anni, viene accusata di stregoneria. Dopo un breve processo e la successiva condanna, la bambina verrà presa in custodia ed esiliata in un campo di streghe nel mezzo di un deserto. Giunta all’accampamento prenderà parte ad una cerimonia di iniziazione dove le viene mostrato il regolamento che scandirà la sua nuova vita da strega. Come le altre residenti, Shula è costretta a vivere legata ad un grande albero dal quale è impossibile staccarsi. La pena per chi disobbedisce sarà una maledizione orribile, che trasformerà chiunque tagli la corda in una capra.
Il 16 luglio 1942, durante l’occupazione tedesca, la polizia francese sequestra nelle loro case 13 151 ebrei e per 2 giorni li ammassa al Vélodrome d’Hiver, prima di trasferirli nel campo di Beaune-La Rolande da dove partiranno per i lager dell’est. Solo 25 ne usciranno vivi, nessuno tra i 4051 bambini. (Si calcola che tra i 6 milioni di morti – 70 000 ebrei francesi – 1 milione e mezzo fossero minorenni). Sorretta dal marito produttore Ilan Goldman, l’ex giornalista e sceneggiatrice Bosch dedica 3 anni di lavoro (consulente storico Serge Klarsfeld) a preparare La rafle (retata), 1° film su questo tragico evento di cui, prima e dopo il 1945, le autorità francesi avevano con scrupolo eliminato ogni traccia. Azione in 3 parti alternata: la retata; discussioni tra il generale Petain e il 1° ministro Laval sui rapporti con la Gestapo; Hitler e i suoi in vacanza a Berghof. Lo scrupoloso impegno documentaristico (che non esclude innesti romanzeschi né salti nella cronologia), l’ambizione etica e pedagogica, la sincerità degli intenti sono indiscutibili. Lo è anche l’efficacia spettacolare e dinamica. Alcune riserve, però, sono doverose. Oltre alla troppa carne narrativa al fuoco (Hitler è superfluo), il grande spettacolo e la Shoah (catastrofe) non vanno d’accordo. La Bosch sostiene di aver tenuto la giusta distanza: voleva raccontare la vita non la morte, parlare del futuro non del passato. Costo: 20 milioni di euro. Spettatori francesi: 2 800 000. Titolo italiano assurdo e sviante.
Katherine è un genio dei numeri e della matematica. Borsa di studio ad honorem e laurea. Viene assunta con le sue 2 amiche del cuore – Dorothy, ingegnere, e Mary informatica – alla NASA, dove si lavora per inviare l’uomo nello spazio. Ma siamo in Virginia, è il 1961 e le 3 ragazze sono nere. Combattono contro ogni discriminazione e la spuntano. Melfi racconta un capitolo della Storia americana, noto al mondo e da sempre coniugato al maschile, da un punto di vista diverso, per il fondamentale contributo non solo femminile, ma anche afroamericano. Lo fa in modo appassionato e appassionante, convenzionale ma mai piatto. La “violenza” della scena in cui Katherine, per poter andare in bagno (i bagni dei neri erano separati da quelli dei bianchi) deve percorrere più di 1 km e deve farlo di corsa (per non assentarsi a lungo) salta agli occhi con evidenza. E di dettagli di questo tipo il film è pieno e le 3 ottime protagoniste danno il loro contributo di lotta, con il riuscito disegno di 3 personaggi molto diversi ma ugualmente ostinati e forti.
Giovanni lavora per una think tank che si propone di riqualificare le periferie italiane. La sua ex moglie Luce coltiva lavanda in Provenza, convinta di essere francese. Giovanni e Luce hanno allevato la figlioletta tredicenne Agnese secondo i principi dell’uguaglianza sociale, anche se vivono al caldo nel loro privilegio. E quando Agnese rivela a Giovanni la sua cotta per Alessio, un quattordicenne della borgata romana Bastogi tristemente nota per il suo degrado, papà, terrorizzato, segue la ragazzina fino alla casa dove Alessio abita insieme alla mamma Monica e alle due zie Pamela e Sue Ellen (sì, come le protagoniste di Dallas). Giovanni scoprirà che Monica è altrettanto atterrita all’idea che suo figlio frequenti una ragazzina dei quartieri alti: “Non siamo uguali”, Monica avverte Alessio. “Inutile farsi illusioni”.
Nel 2067, a Parigi, l’anziana Milana racconta la storia della sua infanzia: bambina di origine cecena, frequenta la scuola elementare con i suoi amici del quartiere, bambini di ogni colore e provenienza, con alcuni dei quali ha formato una piccola banda di amici inseparabili e complici. C’è Blaise, che in segreto la ama; c’è la sua sorellina, la dolce Alice; c’è Youssef, che un brutto giorno viene rimpatriato perché i genitori non hanno il permesso di soggiorno. Quando lo stesso destino sembra toccare anche a Milana, la banda mette in atto un piano per impedirlo: con la complicità di un amichetto e la comprensione della burbera mamma di Blaise, i bambini scappano e si nascondono per giorni in una cantina, a due passi da casa. Polizia, scuola e famiglie li cercano. “Uno dei più piccoli e memorabili film della stagione… vive di un’atmosfera accuratamente costruita, mai melodrammatico, didascalico senza invadenza, commovente senza ricatto, stupendamente recitato” (G. Molteni). Da far vedere nelle scuole.
Tragicomica guerra tra poveri per la riconquista del diritto ad avere una casa. Doveva essere, per la famigliola di Agostino, un giorno di festa per la prima comunione del figlio Lorenzo. Abitanti alla periferia di Roma, tornano a casa e trovano la porta chiusa, la serratura cambiata da sconosciuti: una pratica non rara nei palazzoni popolari. Forze dell’ordine impotenti. Lunga genesi: Ravello (attore, sceneggiatore e regista esordiente) ne aveva già tratto la pièce Agostino e il documentario Via Volonté n. 9 , prima di farne un film scritto con Massimiliano Bruno, prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci e distribuito dalla Warner Bros Italia. Ne è uscita una tragicommedia insolita per il tema, intelligente, divertente, tecnicamente realizzata con cura (soprattutto nella dimensione sonora), di un realismo rosa che trascolora nella fiaba, con una Smutniak che non sbaglia un tono né un gesto.
Estate in un camping sulle coste del grossetano. Nic, dodici anni, ha un fratello più piccolo, un padre volgare e manesco e una madre sempre sul punto di giungere a una separazione definitiva ma apparentemente incapace di volerla veramente. Marie, coetanea di Nic che vive a Ginevra ma parla bene l’italiano, ha una madre che si ostina a volerle negare tutta la verità sulle sorti di un padre che lei non ha mai conosciuto. I due si incontrano e danno vita a una piccola banda dedita a giochi che spesso riproducono le loro insicurezze. Rolando Colla con questo film sembra essere in ricerca così come i suoi personaggi. Realizza infatti un’opera che prende respiro in progress sia per quanto riguarda la scrittura (anche se alcune battute suonano come poco verosimili) sia per quanto concerne la direzione degli attori. In questo finisce con l’aderire a una vicenda in cui i più giovani si trovano in balia di un mondo adulto incapace di offrire loro certezze.
Quando un ragazzo si è trovato nel corpo di The Rock, ha vissuto incredibili avventure ed è stato pure con una ragazza nel corpo di Karen Gillan, come può la sua vita tornare alla normalità, all’asma e a un deprimente lavoro in un drugstore? Infatti Spencer è depresso, anche se per Natale è ritornato a casa e sta per rivedere i suoi amici. Suo nonno lo sprona a fare qualcosa della sua vita, dicendogli che invecchiando non farà che peggiorare, e così Spencer cerca un’iniezione di fiducia in se stesso nel gioco magico Jumanji, dove le cose però non vanno come sperava. I suoi amici, per aiutarlo, lo raggiungeranno, ma il gioco è guasto e così vi finiscono intrappolati anche il nonno di Spencer e il suo ex socio Milo.
1996: la scatola del gioco da tavolo Jumanji viene trovata su una spiaggia, esattamente dove l’avevamo vista al termine del film originale, ma quando il ragazzo che se la porta a casa capisce di cosa si tratta ne è molto deluso, perché gli interessano solo i videogame. Così nella notte il gioco si trasforma in una cartuccia per console. La stessa viene ritrovata oggi da quattro liceali in punizione, che scelgono i quattro personaggi restanti di un gioco per cinque player e commettono l’errore di interrompere la partita, finendo quindi intrappolati nel gioco e nel corpo dei personaggi che avevano scelto. Così il nerd è un fusto, il nero da atleta diventa spalla comica, la ragazza asociale è una sventola che scalcia a ritmo di musica e la reginetta, perennemente in caccia di like sui social, si ritrova per contrappasso nel corpo di un uomo di mezz’età in sovrappeso. Insieme dovranno superare varie sfide e riportare un gioiello incantato in cima a una montagna: solo così potranno ritornare a casa.
Le luci rosse del titolo sono gli indizi più o meno evidenti che possono razionalmente spiegare i cosiddetti eventi soprannaturali. Margaret Matheson e il suo aiuto Tom Buckley sono investigatori di questi fenomeni. Il loro lavoro consiste nello smascherare coloro che fingono di possederli. Tra questi ultimi c’è Simon Silver che da anni campa sulle sue finzioni. Scritto dal regista spagnolo che già si era distinto con Buried – Sepolto (2010), il film si affida esplicitamente alla dicotomia illusione/realtà che è, in fondo, uno dei princìpi fondatori degli audiovisivi, cinema e televisione. A livello tecnico-narrativo, il film è ingegnoso quanto e forse più di Buried . Manca però di spessore sociologico e perde di credibilità se si tiene conto in quale misura sia diffusa tra la popolazione degli USA la ricerca, o la speranza, di un nuovo messia. Distribuisce 01.
Parigi, Gare du Nord. Una banda di ragazzini dell’Europa dell’Est si muove per l’immensa stazione, sotto lo sguardo della polizia ma anche di Daniel, un cinquantenne discreto, che ha messo gli occhi su uno di loro, Marek, al quale strappa un appuntamento sessuale a pagamento. A casa dell’uomo, però, l’indomani, si presenta la banda al completo, che svaligia allegramente l’appartamento del malcapitato, lasciandolo pressoché vuoto. A Daniel non resta che incassare il colpo. Ma qualche giorno dopo Marek (il cui vero nome è Rouslan) torna da lui, solo, e tra i due ha inizio una relazione molto diversa, fisica, ma lontana dalla violenza della banda, e sempre più necessaria ad entrambi.
Scritto dal regista con Maurizio Nichetti e Andrea Camilleri dal suo omonimo romanzo (2000), prodotto da 13 Dicembre con S.TI.C Cinema, Rai Cinema, Emme Cinema che distribuisce. Venerdì Santo nell’immaginaria Vigata (Sicilia), 1890. Nella piazza del paese va in scena il Mortorio, cioè la Passione di Cristo, in cui il ragioniere di banca Antonio Patò fa la parte di Giuda. Il culmine dello spettacolo è l’impiccagione di Giuda che, tra i fischi e gli insulti del pubblico, cade in una botola. Finita la celebrazione, Patò non si trova. Il delegato di PS e un maresciallo dei Reali Carabinieri indagano in competizione tra loro. Mortelliti rinuncia al lambiccato multilinguismo di Camilleri e punta a cavarne una commedia normale in giallo, affidata al brio comico della coppia Frassica/Casagrande con cauti riferimenti alla realtà sicula del 2000.
L’amatissimo marito è affetto da un brutto tumore, ospedali e assicurazioni si rifiutano di pagargli le cure adeguate. Sonia impugna la pistola e costringe medici e funzionari a darle giustizia. Una bravissima Raluy (esordiente al cinema dopo una lunga carriera di teatro) in un thriller che è anche un film di denuncia crudo e senza fronzoli, metafora sull’essenza dell’umanità, dramma in crescendo di violenza – molto ben diretto dall’uruguaiano Plá che è cresciuto e ha studiato in Messico e che ha avuto un certo successo con La zona (2007) – permeato qua e là di un acuto senso dell’umorismo.
Camionista al servizio di una società privata USA in Irak, Conroy si sveglia in una bara con un coltello, una barretta fosforescente, un accendino e un cellulare semiscarico. Non sa perché e ricorda male come è finito lì. Dal telefono qualcuno gli dice che uscirà da quel buio solo se convincerà il suo governo a versare 5 milioni di dollari. Scritto da Chris Sparling e diretto da un regista spagnolo che firma il montaggio, è un film-scommessa imperniato su una trovata paradossale e crudele in bilico sul tragicomico sarcastico. Rischia la monotonia, ma la evita. Non è la morte che lo attende ad angosciarlo: “Il suo dolore più sanguinante è la scoperta che il suo io è ben poca cosa non solo qui, sotto il deserto iracheno, ma anche in patria” (R. Escobar). Nessuno lo ascolta.
Dopo 25 film come attore, una ventina di prove teatrali, una mezza dozzina di titoli TV e un corto come regista, il lucano 50enne Papaleo passa alla regia di un lungometraggio, covato da anni e scritto con Walter Lupo. È una commedia corale con canzoni (e musiche della jazzista Rita Marcotulli): divertente e un po’ malinconica, simpatica e un po’ lunare, ma soprattutto diversa, per struttura e toni, da quel cinema sentimentale italiano dei primi anni 2000 (e non soltanto nel filone del moccia-muccinismo). Componenti di una band dal nome improbabile (Le pale eoliche), 4 amici decidono di attraversare a piedi l’antica Lucania dal Tirreno (Maratea) allo Ionio (Scanzano), seguendo un carro trainato da un cavallo, in compagnia di una fotoreporter prima svogliata ma poi affettivamente impegnata. Due valenze indiscutibili in questo piccolo film intelligente: i paesaggi con la fotografia di Fabio Olmi e una galleria di 7 personaggi tutti azzeccati. Prodotto da Paco Cinem., Eagle e Ipotesi Cinema.
Un gruppo di sopravvissuti deve affrontare un’apocalisse zombie nelle campagne del Quebec, tra boschi, prati, e case isolate. Il canadese Robin Aubert, alla sua opera quinta, firma uno degli zombie-movie più riusciti, intelligenti e spaventosi degli ultimi anni, mescolando idee nuove e regole fondative, giocando con le sospensioni, i suoni, il gore, l’umorismo e una metafisica quasi alla Antonioni. In equilibrio tra The Walking Dead e The Wicker Man.
In un paesino della provincia di Benevento, San Lupo, da un po’ di tempo spariscono i bambini. La polizia crede si tratti di un pedofilo ma la gente del paese ha paura che a portare via i loro figli sia la Janara, una strega. Esiste infatti un’ antica leggenda su una Janara messa al rogo mentre era incinta, la quale avrebbe maledetto gli abitanti del paese e la loro prole. Marta e Alessandro sono una giovane coppia che aspetta un figlio da poche settimane. Arrivano a San Lupo per delle questioni testamentarie legate alla morte del nonno di lei e si trovano invischiati in una faccenda dai contorni sempre più macabri. Mentre l’ennesima sparizione fa scoppiare una psicosi nel paese, Marta capisce che il suo legame con la leggenda della Janara è tutt’altro che lontano. La voglia di scappare via è grande, ma è forte anche il desiderio di fermare questo spirito che si impossessa del bene più prezioso delle famiglie. Per farlo però, dovrà mettere in gioco la sua vita e quella del bambino che porta in grembo.
Agnese compie i diciotto anni mentre vive con una madre molto devota e frequenta la parrocchia locale dove sta per compiere una promessa di castità fino al giorno delle nozze. Stefano ha venticinque anni, un passato difficile e un presente in cui deve cercare di conservare l’incarico di custode di un parcheggio che confina con un campo rom. La sua famiglia sta per essere sfrattata e ha bisogno del suo aiuto. Il loro incontro farà nascere un sentimento speciale che implica delle scelte importanti, in particolare per Agnese.
In un Fantastico Regno alle porte di una città di nome Roma, vive in un decadente Castello la Nobile Famiglia Mancini, stirpe di alto lignaggio che gestisce un florido traffico di droga e di malaffare. Qui, Riccardo Mancini è da sempre in lotta con i fratelli per la supremazia e il comando della famiglia, dominata dagli uomini ma retta nell’ombra dalla potente Regina Madre, grande tessitrice di equilibri perversi. Tornato a casa dopo un lungo ricovero in un ospedale psichiatrico, Riccardo inizia a tramare per assicurarsi il possesso della corona, assassinando chiunque ostacoli la sua scalata al potere.
Se l’8° film di Redford è il suo migliore, il merito è soprattutto della sceneggiatura, più volte riscritta dal giornalista James D. Solomon (con Gregory Bernstein), e dell’esordiente TAFC (The American Film Company) che gli ha fornito ottimi mezzi e un cast di prim’ordine. 15 aprile 1865: due settimane dopo la fine della guerra civile, a 55 anni Abraham Lincoln, presidente degli Stati Uniti, è ucciso a teatro dall’attore sudista John Wilkes Booth. È la storia di un complotto sudista per mettere in crisi il governo e l’esito stesso del sanguinoso conflitto civile (più di 600 000 morti). E di un processo contro 8 accusati, 7 uomini e Mary Surratt, madre di uno degli imputati e proprietaria della pensione dove si riunivano. Le analogie con la reazione di Washington dopo gli attentati dell’11-9-2001 sono ben marcate. Pur credendola colpevole, giovane capitano nordista è costretto a difendere la vedova Surratt in un procedimento la cui fine è predeterminata: deve concludersi con la condanna all’impiccagione di tutti: silent enim leges inter arma , in periodo di guerra la legge tace. Attori funzionali a ogni livello e 2 eccellenti protagonisti (lo scozzese McAvoy e la Wright). Fotografia di Newton Thomas Sigel, ispirata a Caravaggio e Rembrandt. Esterni a Savannah (Georgia).
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