Nick Cassidy è un ex poliziotto di New York evaso dalla prigione in cui scontava una lunga pena per aver rubato e poi rivenduto (dopo averlo tagliato)un prezioso diamante appartenente a un potente e avido uomo d’affari. Ora Nick si trova sul cornicione di una stanza di uno dei piani più alti del Roosevelt Hotel a 78 metri dal suolo, proclama la propria innocenza e minaccia di buttarsi giù. Paralizzato il traffico e attirata l’attenzione dei media Nick, che ha fornito false generalità, pretende la presenza della detective Lydia Spencer nota all’intera nazione per aver tentato senza successo di evitare un tentativo di suicidio qualche tempo prima. Ciò che la donna cerca di capire è: Nick vuole davvero suicidarsi o ha un altro fine?
In una notte solitaria una donna viene assassinata in un punto in cui sarebbe possibile per molti dei residenti dei palazzi intorno vedere l’avvenimento, sentire le urla e avvertire la polizia o prendere dei provvedimenti. Invece non accade nulla e la donna muore. Dei residenti della zona è solo Louise, appena rientrata da un viaggio, a farsi delle domande e cominciare a premere affinchè la polizia vada più a fondo in questo dramma. Lo sappiamo fin dall’inizio cosa sia successo, come del resto sappiamo anche che ogni qualvolta uno dei 38 potenziali testimoni del titolo rifiutano di ammettere di aver visto o sentito qualcosa nella notte incriminata, stanno mentendo. Non è dunque la scoperta di un mistero o il meccanismo giallo ad interessare Luca Belvaux quanto il lento mutar d’opinione la maniera in cui un’indagine scavi dentro le coscienze e metta i suoi protagonisti di fronte ai propri atti. In una specie di ammutinamento collettivo (non coordinato) i 38 testimoni sembrano tenere duro e cedere più o meno negli stessi momenti. Ne seguiamo un pugno in maniera particolare, si capisce che sono quelli nei quali la paura e la contraddizione tra quel che hanno (o non hanno) fatto e quel che pensano sia giusto è più forte. Eppure quando la parte relativa alle testimonianze pare decollare il film di nuovo scarta e amplia il raggio, chiedendosi se possa esistere un reato di codardia, se si possano perseguire delle persone che hanno assistito ad un crimine nelle loro case senza agire facendoli semplicemente crollare. Rifiutare qualsiasi specifico segno di genere è una scelta che un po’ penalizza il viaggio di Belvaux nella vigliaccheria umana, perchè la maniera in cui l’indagine procede avrebbe potuto prestare bene il fianco a sorprese, svelamenti e colpi di scena. Tuttavia la scelta di una sobrietà nella strutturazione del racconto pare un conditio sine qua non per dare al film l’aria dell’inchiesta civile (la storia è tratta da un libro a sua volta ispirato ad un fatto vero). Peccato, perchè le ottime volontà del film spesso si scontrano con la ferma decisione di non farne una macchina spettacolare pur manipolando argomenti e scene che lo potrebbero essere.
Il film segue le conseguenze di un’esplosione in un centro commerciale. Sam, una guardia di sicurezza, tenta di salvare le vittime, ma viene scambiato per l’autore dell’attacco.
Anarchico e precario, il 28enne Amadei era andato in Iraq nel 2003 per lavorare da aiuto regista alla preparazione di un film. Pur gravemente ferito, fu l’unico sopravvissuto alla strage di Nassirya dove morirono 19 italiani. Ne cavò un libro scritto con Francesco Trento, poi collaboratore alla sceneggiatura del film. Nell’ospedale Celio di Roma sfilano politici, militari, giornalisti che visitano l'”eroe per caso”, ma lui non ci sta a essere oggetto di compatimento e celebrazione. Film di denuncia delle “missioni di pace” italiane all’estero, è una fiction girata come un documentario, ricca di momenti emozionanti e di abissi onirici con molte concessioni al pathos e al didascalico.
Violeta, una ragazzina che vive in un villaggio del Mali, decide di scappare da casa per evitare il matrimonio combinato con un balordo da cui subì molestie da bambina. Intanto nel vicino Niger Buba trascorre le sue giornate tra la passione per il calcio e la necessità di fare il meccanico per vivere. Decide insieme al fratello di tentare una sorte migliore in Europa. Violeta e i due ragazzi si incontrano durante il viaggio verso il Marocco e condividono la meta dello Stretto di Gibilterra, quei 14 chilometri che separano l’Africa dall’Europa. Attraversano l’Algeria con mezzi di fortuna, e a un certo punto si ritrovano soli nel micidiale deserto del Ténéré e sbagliano direzione, incominciando a girare in tondo. È l’inizio di un durissimo cammino. Nel suo secondo lungometraggio di finzione dopo Il grande match, Olivares percorre il dramma dei migranti clandestini che dal Continente Nero vagano in direzione Marocco per raggiungere l’attraente opulenza europea; la tragica illusione dei disperati è che siano i 14 chilometri dello Stretto a separarli dall’ agognata felicità. La macchina da presa stringe su Buba e Violeta, è a loro che rivolge il suo sguardo discreto ma presente, li segue passo passo nella loro estenuante odissea. Del vagheggiato continente europeo vedremo solo la punta più meridionale, Tarifa, la città andalusa dove sbarcheranno i due ragazzi; oltre a questi pochi frangenti, l’Europa è data solo come riflesso nei sogni dei migranti, al regista non interessa metterla a fuoco. È l’Africa che interessa ad Olivares, con le sue contraddizioni e la sua disperazione, è sull’Africa che investe e sembra voler disperatamente gridare che anche i suoi abitanti dovrebbero farlo. La pellicola trasuda amarezza da ogni inquadratura, l’amarezza della fuga dalla propria origine, del voler recidere le radici in nome di un’utopistica vita migliore. La vivida fotografia fatta di tramonti in controluce e spazi naturali incontaminati contribuisce alla poesia di una pellicola che non perde mai la delicatezza di una storia di giovani anime che credono in un sogno che seppur sorretto quasi solo da miraggi, resta ancora possibile. La storia di Buba e Violeta lascia addosso l’aridità del deserto che li ha visti venire al mondo, quel deserto che al contempo li allontana e imprigiona a sé. “Continueranno a vivere e a morire, perchè la storia ha dimostrato che non c’è muro capace di contenere i sogni”; Olivares prende in prestito una riflessione della scrittrice spagnola Rosa Montero, la pone a chiusura del suo lavoro e affida ai sogni il ruolo di unica certezza possibile.
Un marito geloso incapace di controllarsi, una giovane moglie molto sexy che si presenta a un provino in una stanza d’albergo da un finto regista. Un giovane spacciatore di droga a domicilio, una ragazza disorientata a cui viene riconsegnato il suo cane lupo. Un venditore di hot dog appena uscito dalla galera. Un misterioso studente, un pulitore di vetri impegnato in una pausa con una porno attrice, un anziano pittore dilettante, un gruppo di paramedici impegnati in una difficile operazione di soccorso e delle suore affamate. Sono questi i personaggi le cui vicende si intrecciano sullo schermo ognuna delle quali ha luogo tra le 17 e le 17.11 di un giorno qualunque a Varsavia.
Dopo un incidente, una giovane donna si sveglia in una stanza semi buia con una flebo attaccata al braccio e la caviglia incatenata al letto: non sa come ci sia finita. Un uomo corpulento dai modi sbrigativi e bruschi le spiega che l’ha salvata portandola nel suo bunker. Nel mondo fuori eventi catastrofici hanno reso inabitabile la Terra. Insieme a loro c’è un ragazzo del posto che ha aiutato “il padrone di casa” a costruire il rifugio antiatomico. Alcuni episodi sembrano confermare che i due dicano la verità. Prodotta (come il similare Cloverfield ) da J.J. Abrams e diretto dal debuttante Trachtenberg con un budget di circa 15 milioni di dollari, è una sorprendente commedia thriller surreale piena di colpi di scena e segnata da un ritmo di traboccante tensione. Finale non banale. Il cast è un prezioso valore aggiunto.
Marty è uno sceneggiatore alcolizzato che fatica a lavorare al suo nuovo progetto, un film intitolato “Sette Psicopatici”. Il suo migliore amico Billy, attore senza troppa fortuna, dedito al rapimento di cani per scopi di lucro, gli consiglia di farsi ispirare dalla cronaca e in particolare dal killer di serial killers le cui recenti e agghiaccianti impresi sono su tutti i giornali. Il socio di Billy nella tratta canina, invece, è Hans, marito devoto, credente fervente e soggetto imperscrutabile, dal passato scioccante. Infine c’è Charlie, boss mafioso e proprietario di un cane che finisce nelle mani sbagliate. Entrato in questo giro, Marty non può più lamentare l’assenza di un’ispirazione. Il problema, se mai, è restare vivi abbastanza per metterla su carta. Martin McDonagh chiama a raccolta i migliori folli del cinema americano e dedica loro questo omaggio, che non va preso come un film dal contenuto metalinguistico particolarmente serio o ambizioso, ma piuttosto come una commedia divertente e intelligente, resa speciale dall’umorismo particolarissimo del regista/autore.
La preoccupazione delle operaie di un’azienda tessile per l’acquisto da parte di una multinazionale francese sembra svanire quando la nuova proprietà dichiara che non verranno effettuati licenziamenti, ma a patto che le donne rinuncino a 7 minuti della loro già esigua pausa pranzo. Quella che sembra essere una clausola insignificante, e che trova tutte d’accordo di fronte alla sicurezza di mantenere il posto di lavoro, diventa in realtà uno spietato confronto tra le 11 donne appartenenti al consiglio di fabbrica. Testo di chiara derivazione teatrale (da una pièce – 2005 – di Stefano Massini, ispirata a una storia vera accaduta in Francia) contrappone una interpretazione adeguata a una sceneggiatura (di Massini-Placido-Toni Trupia) che difetta spesso in potenza – soprattutto dove non sa argomentare con efficacia e convinzione le due tesi contrapposte – a favore della dimensione intimista delle protagoniste, meno interessante. Bravissima la Angiolini.
Ivan, un botanico, attende su una piccola isola della Sicilia l’arrivo di Chiara, una costumista. Lui è il fratello di Richard, lei la migliore amica di Francesca e debbono organizzare il matrimonio dei due. I due sposi sono entrambi ex tossicodipendenti e quel luogo è molto importante per Richard. I problemi non sono pochi perché l’isola ha pochi abitanti e l’albergo e il faro (dove lo sposo vuole trascorrere la prima notte di nozze) non sono nelle migliori condizioni. Ivan e Chiara decidono di impegnarsi perché tutto riesca al meglio mentre tra loro sta nascendo un sentimento da cui è difficile sottrarsi.
Nell’estate del 1976 quattro dirottatori, due estremisti tedeschi e due combattenti palestinesi, si impossessano di un aereo della Air France in viaggio tra Tel Aviv e Parigi, prendendo in ostaggio i 248 passeggeri a bordo. Mentre a Gerusalemme il primo ministro Yitzhak Rabin si scontra con il ministro della difesa Shimon Peres sull’opportunità di negoziare con i terroristi, l’aereo, con la complicità del feroce dittatore Idi Amin, atterra a Entebbe in Uganda. La richiesta dei terroristi a Israele è di 5 milioni di dollari e il rilascio di 50 prigionieri palestinesi: Rabin ha sette giorni per decidere se intervenire o dialogare con loro.
Inghilterra 1971. La recluta Gary Hook viene inviato in Irlanda del Nord. La situazione sarebbe apparentemente semplice (i Protestanti ‘amici’ da una parte e i Cattolici ‘nemici’ dall’altra) se non fosse che all’interno dell’IRA ci sono due fazioni in lotta tra loro. L’accoglienza non è ovviamente delle migliori ma le cose si aggravano per il soldato quando scopre casualmente che alcuni ufficiali dell’esercito sono coinvolti nella fabbricazione di ordigni per gli attentati.
Tre amici che non navigano nell’oro decidono di mettere insieme i pochi soldi che hanno e di acquistare un biglietto della lotteria nazionale rumena. Nel momento in cui scoprono di avere vinto una cifra astronomica, quello di loro che aveva in custodia il biglietto pensa che gli sia stato sottratto da due malviventi incontrati per caso. È ora necessario scoprire chi sono per poterlo recuperare.
La storia vera di Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace 1991 e ‘orchidea d’acciaio’ del movimento per la democrazia in Myanmar. Dopo l’assassinio del padre, il generale Aung San, leader della lotta indipendentista birmana, Suu cresce in Inghilterra e sposa il professore universitario Michael Aris. Quando nel 1988 il suo popolo insorge contro la giunta militare, Suu torna nel paese natale e inizia il suo lungo scontro diretto contro il potere assoluto dei generali. La figura di Aung San Suu Kyi, paladina dei diritti democratici che per la libertà del suo paese e del suo popolo ha per oltre vent’anni sacrificato la propria libertà personale e gli affetti familiari è di certo una delle più toccanti e ammirevoli fonti d’ispirazione politica e umana degli ultimi decenni. È comprensibile quindi che The Lady fosse tanto per la scrittrice Rebecca Frayn che per il regista Luc Besson e, soprattutto, per la sua interprete Michelle Yeoh un vero e proprio progetto del cuore. Onde rendere più vicina allo spettatore una figura complessa che ha attraversato fasi tumultuose della Storia di un paese di cui i più davvero poco sanno, Frayn e Besson hanno scelto la via della divulgazione, presentando il contesto storico e politico in maniera essenziale (la principale riflessione sulla Storia del Myanmar è racchiusa nel racconto di sapore quasi favolistico che Aung San fa alla figlia, e che funge da prologo del film), e di far leva sul dramma umano della protagonista. Dopo il ritorno a Yangon nel 1988, Aung San Suu Kyi ha difatti potuto rivedere il marito solo cinque volte, a causa di visti negati al consorte e della sua impossibilità di tornare in Gran Bretagna (una volta lasciato il suolo birmano non le sarebbe più permesso il ritorno), cosa che le ha impedito di vedere i figli crescere e di assistere Aris durante la malattia che l’ha condotto alla morte nel 1999. Un’impostazione che inscrive la drammaturgia di The Lady nelle convenzioni del melodramma e che, a conti fatti, rischia di sminuire l’aspetto politico della battaglia di Aung San Suu Kyi. Sul fronte della resa formale, Besson rischia poco ed emoziona solo a sprazzi – ossia quando le situazioni tendono all’action (l’assassinio di Aung San, il primo blocco di Suu agli arresti domiciliari dopo la vittoria alle elezioni). Michelle Yeoh, dal canto suo, si spende nella sua migliore interpretazione (assai riuscita nella mimesi del contegno e della postura di Aung San Suu Kyi), anche se si ha l’impressione che il gigione David Thewlis (nel ruolo di Aris) sovente le rubi la scena.
Agnes e Atli sono coppia giovane con bambina. La relazione dà segni di stanchezza e si rompe quando Agnes sorprende il marito guardare un video in cui fa sesso con la sua ex. Sbattuto fuori di casa, Atli torna a vivere con i genitori, nella loro villetta con giardino. Ma sotto quell’albero, che sconfina nella proprietà dei vicini, c’è un lutto che pesa e un equilibrio apparente che è sul punto di scoppiare, con devastanti conseguenze.
Nella Russia sovietica non esiste il crimine e l’ordine è mantenuto dalla MGB, polizia segreta e paranoica che sospetta tutti e arresta soltanto innocenti. Leo Demidov è un ufficiale efficiente agli ordini del Maggiore Kuzmin che ha deciso di archiviare come incidente la morte di un ragazzino violato e strangolato da uno psicopatico. Perplesso ma adempiente, Leo esegue il suo dovere e il volere del suo superiore. Ma un secondo caso lo convince presto a indagare, trasformandolo da predatore in preda. Le cose a casa non vanno meglio, Raïssa, moglie e insegnante, lo ha sposato per paura e lo disprezza per i suoi metodi. In un clima di terrore crescente, in cui indisturbato agisce un omicida seriale di bambini, Leo e Raïssa scopriranno le falle del Sistema e troveranno un nuovo equilibrio sentimentale. Trasposizione del romanzo omonimo di Tom Rob Smith, Child 44 è un thriller paranoico che combina con efficacia storia e cronaca. Da una parte la Russia socialista a un passo dalla morte di Stalin, dall’esecuzione di Bérija, capo della polizia segreta sovietica, e dall’investitura di Nikita Chrušcëv, dall’altra, dislocati negli anni Cinquanta, gli efferati delitti del “mostro di Rostov”, che tra il 1978 e il 1992 assassinò cinquantadue persone. Duro e realistico, Child 44 fiuta le tracce, esplora le correlazioni, ‘unisce i puntini’ e frequenta i bassi fondi del regime totalitario sovietico, impegnato in superficie a dare una bella immagine di sé, un’immagine rassicurante. Interdetto sugli schermi russi per “alterazione dei fatti storici”, Child 44 condivide con lo spettatore il terrore di un popolo governato da un sistema retto sulla menzogna e sulla mistificazione ideologica. Delazione, arresti arbitrari, torture, esecuzioni sommarie, propaganda antioccidentale, spionaggio, non manca davvero nulla nel film di Daniel Espinosa, che elegge a protagonista un ufficiale compromesso con la dittatura stalinista per risolvere un intrigo che è insieme criminale e politico. A ragione di questo il film non apre sul rinvenimento di un corpo o su uno degli elementi dell’inchiesta ma ripercorre la scalata al potere di Leo Demidov, personaggio cruciale che lega differenti archi narrativi: il contesto socio-politico, l’investigazione poliziesca e la biografia dell’eroe. Il film è svolto lungo un percorso lineare, ma mai prevedibile, che mescola e converge nell’epilogo ‘infangato’ i tre soggetti. Senza digressioni, il treno di Espinosa procede rapido, producendo una suspense implacabile da cui è possibile scampare solo saltando in corsa alla maniera di Tom Hardy e Noomi Rapace. Affiancati da Vincent Cassel, Jason Clarke e Gary Oldman, che nell’esilio del suo ufficiale crea ancora una volta un personaggio che si fa ricordare per come è abile nel non farsi notare, Tom Hardy e Noomi Rapace confermano la faccia di cuoio, la potenza fisica e le cicatrici interiori. Improntate le rispettive carriere sul gesto virile, lo gratificano attraverso l’azione e lo innescano dentro un mondo dominato dal sospetto e dal complotto, dove ogni sguardo cela una minaccia e ogni sorriso un’insidia. Un mondo manicheo, ma in apparenza, perché poi scopriamo che i buoni lavorano per i cattivi e viceversa che qualche cattivo finisce per collaborare coi buoni. Non ci si può fidare di nessuno, mai. E in questa atmosfera fredda e opprimente, in questa società a fiducia zero, opaca e piena di angoli bui, si muovono un killer seriale e la sua nemesi, pieni di soprassalti, dubbi, sussulti. Come se per l’uno fosse l’unica possibile, come se per l’altro non fosse più possibile.
Andare in pensione dopo 37 anni di lavoro sembra ad Hannes, bidello in una scuola, la fine di tutto. Non ha amici, non ha grandi passioni, ha lasciato appassire il sogno di tornare a vivere sull’isoletta abbandonata da giovane in seguito alla distruttiva eruzione di un vulcano. I suoi rapporti con i figli sono pessimi e pure dalla moglie sembra essersi molto allontanato.
Rise of the Zombies, USA 2012, Azione, durata 89′ Regia di Nick Lyon Con Mariel Hemingway, Ethan Suplee, LeVar Burton, Danny Trejo, Heather Hemmens, French Stewart, Chad Lindberg, Madonna Magee, Andy Clemence, Peter Ngo
Durante una apocalisse di zombie generata da un virus, un gruppo di sopravvissuti di San Francisco si nasconde nella prigione dell’isola di Alcatraz con la speranza di scappare dalle crescenti orde di non vivi. Quando anche l’isola viene attaccata, il gruppo decide di rimettersi in viaggio alla ricerca di un luminare che sembra aver trovato un antidoto.
Docudramma della National Geographic Channel, prodotto dalla Scott Free Productions e dalla Herzog & Co. Il progetto è basato sul libro di Bill O’Reilly e Martin Dugard che racconta la cospirazione dietro l’assassinio di Lincoln.
1988. Il dittatore cileno Augusto Pinochet è costretto a cedere alle pressioni internazionali e a sottoporre a referendum popolare il proprio incarico di Presidente (ottenuto grazie al colpo di stato contro il governo democraticamente eletto e guidato da Salvador Allende). I cileni debbono decidere se affidargli o meno altri 8 anni di potere. Per la prima volta da anni anche i partiti di opposizione hanno accesso quotidiano al mezzo televisivo in uno spazio della durata di 15 minuti. Pur nella convinzione di avere scarse probabilità di successo il fronte del NO si mobilita e affida la campagna a un giovane pubblicitario anticonformista: René Saavedra. Pablo Larrain, che il pubblico italiano conosce per i suoi precedenti Tony Manero e Post Mortem, affronta in modo diretto una delle svolte nodali della storia cilena recente. L’aggettivo è quanto mai appropriato perché la scelta radicale di utilizzare una telecamera dell’epoca offre al film una dimensione del tutto insolita. Il passaggio dal materiale di repertorio (dichiarazioni di Pinochet e cerimonie che lo vedono presente così come interventi dei rappresentanti dell’opposizione dell’epoca) alla ricostruzione cinematografica diviene così inavvertibile. Il pubblico in sala si trova nella situazione di chi sta compiendo una full immersion nel passato. Tutto ciò all’interno di una ricostruzione che mostra, attraverso il personaggio di Saavedra, come la repressione fosse stata forte e come il regime fosse convinto che fosse sufficiente accusare qualsiasi avversario di ‘comunismo’ per poter vincere. Non manca però anche di sottolineare come tra i sostenitori del NO non fossero pochi quelli che non avevano compreso quanto fosse indispensabile impostare una campagna di comunicazione che andasse oltre la riproposizione delle pur gravissime colpe del dittatore per approdare a una proposta che parlasse di vita, di gioia, di speranza nel futuro e non di morte. E’ in questo ambito che il personaggio impersonato con grande understatement da Gael Garcia Bernal si trova a muoversi consapevole, inoltre, della difficoltà di contribuire alla riuscita di un fondamentale cambiamento del proprio Paese partendo dalle proprie basi di eccellente imbonitore. Pronto, una volta ottenuto l’esito sperato, a tornare a promuovere telenovelas.
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