Uxbal ha due figli, Ana e Mateo che ama profondamente e una moglie, Marambra, con la quale c’è un rapporto conflittuale che li spinge a separazioni e a tentativi di riappacificamento. Uxbal vive di manodopera clandestina che sopravvive ammassata in tuguri (i cinesi) o cerca di far crescere il proprio figlio in condizioni comunque estremamente precarie come l’africana Ige. Uxbal si trova a confronto con la morte anche di minorenni. Uxbal attende la morte, la sua. Uxbal ha un cancro che gli lascia poco da vivere. Per Alejandro Gonzales Inarritu è finalmente arrivato il film della maturità. Liberatosi dell’autoimposta necessità di far prevalere gli incastri di montaggio sulla qualità della sceneggiatura si autorizza in Biutiful a portare sullo schermo una storia tanto lineare quanto complessa e profonda. È come se quell’anello che Uxbal dona all’inizio del film (si scoprirà molto più tardi a chi) affermandone l’autenticità a dispetto di quello che ne ha detto la moglie, fosse un patto con lo spettatore. Non si cercherà più di mescolare le carte, di lavorare sulla dimensione degli scarti temporali per occultare eventuali vuoti di scrittura. Grazie al corpo/cinema di Xavier Bardem Inarritu si mette a nudo e ci costringe a ‘guardare’ il dolore, a sentirlo penetrare in noi, a condividerlo. Scegliendo però sin dall’inizio una delle città ‘da cartolina’ per eccellenza: Barcellona. Se Woody Allen, spinto da esigenze di budget e con una punta di autoironia, ci aveva portato a spasso per i luoghi cari al turismo di massa Innaritu fa l’opposto. La Barcellona di Gaudì sta racchiusa in un lontano panorama. La città di cui percorriamo strade e vicoli è un organismo divorato, come quello del protagonista, da un cancro sociale che ha prodotto metastasi ovunque. Non c’è nulla di ‘biutiful’ se non forse, la speranza che cova nello sguardo di Mateo e in quella sua attesa di un viaggio premio sui Pirenei. Pochi film hanno saputo far ‘sentire’ in modo così partecipe e lucido il magma ribollente di un animo in cui ai molteplici sensi di colpa sociale si mescola inestricabilmente la mancanza di una figura paterna (che si spera di ritrovare nell’aldilà) e, al contempo, il sentirsi padre fino all’estremo, fino all’ultimo. Fino a oltre la morte.
Regia di Liang Zhao. Un film Da vedere 2015 Titolo originale: Bei xi mo shou. Genere Documentario – Cina, Francia, 2015, durata 95 minuti. Consigli per la visione di bambini e ragazzi: +13 Valutazione: 4,00 Stelle, sulla base di 1 recensione.
Nel mezzo del cammin della sua vita un uomo nudo giace ripiegato su se stesso in posizione fetale nella Cina di oggi, al confine fra due mondi: un paradiso agreste che fa già parte di un passato irreversibile e un inferno minerario creato seguendo l’istinto distruttivo della mitologica bestia Behemoth. La terra è profanata da ruspe che scavano come artigli e viene trasportata lontano dai “giocattoli del mostro”, non prima di essere stata scandagliata da mani febbrili alla ricerca di qualcosa di prezioso che non dà gioia a chi lo trova. I minatori che popolano questo girone dantesco sono sproporzionatamente piccoli rispetto a ciò che producono, e facilmente rimpiazzabili, nel caso venissero spazzati via dalle esplosioni che sventrano le montagne, o fatalmente intossicati dal fumo e dal debris che esala dalle pareti violate, o arrostiti dalla lava che scorre dalle viscere stuprate come sangue incandescente. È una Divina Tragedia la cui guida non è un compositore di endecasillabi ma un uomo comune con uno specchio appoggiato sulle spalle che riflette il disastro a ritroso, e cerca segni di vita nel deserto.
Il lustrascarpe Marcel Marx vive a Le Havre tra la casa che divide con la moglie Arletty e la cagnolina Laika, il bar del quartiere e la stazione dei treni, dove esercita di preferenza il proprio lavoro. Il caso lo mette contemporaneamente di fronte a due novità di segno opposto: la scoperta che Arletty è malata gravemente e l’incontro con Idrissa, un ragazzino immigrato dall’Africa, approdato in Francia in un container e sfuggito alla polizia. Con l’aiuto dei vicini di casa – la fornaia, il fruttivendolo, la barista – e la pazienza di un detective sospettoso ma non inflessibile, Marcel si prodiga per aiutare Idrissa a passare la Manica e raggiungere la madre in Inghilterra. Un cast di attori franco-finlandesi, con le facce e le fogge da polar melvilliano, interagiscono in quel di Le Havre in un quartiere dove ancora “buongiorno vuol davvero dire buongiorno”, per usare – assolutamente non a caso – una frase di Miracolo a Milano, di De Sica e Zavattini. Eppure, la battuta più bella ed emblematica del film è proprio: “restano i miracoli”, dice il dottore, “non nel mio quartiere”, chiosa Arletty. È tutto qui il miracoloso (questo sì) nodo di poesia e disincanto, ottimismo e amarezza di cui è fatto Le Havre , uno dei migliori Kaurismaki in assoluto. Il finale si preoccuperà poi di illuminare il concetto, con uno splendido e improbabile ciliegio in fiore: un altro mondo è possibile o ci vorrebbe davvero un miracolo perché una storia come quella di Idrissa accadesse nella realtà? Entrambe le cose, sembra dire il regista: il cancro che affligge il nostro modo di vivere e di agire è a un livello più che mai avanzato, ma “restano i miracoli”. D’altronde, il fondatore del Midnight Sun film festival, quando al suo meglio, non ha mai fatto altrimenti che promuovere ossimori – i Leningrad cowboys -, trovare ricchezza nella povertà, (far) reagire con straordinaria nonchalance di fronte all’incongruo (la scena dell’ananas, in questo film, è qualcosa che non si dimentica), mescolare magistralmente anacronismo e attualità. È un sognatore? Eppure il sole di mezzanotte è un fenomeno reale, astronomico, naturale.
Stella, una studentessa di farmacia viene inserita in un gruppo di ricerca per svolgere la sua tesi. Poco alla volta si rende conto che il tempo trascorso nel laboratorio di chimica è insalubre, qualcuno sta male, si parla di coincidenze. Anna, una sua amica, vorrebbe che la ragazza lasciasse il laboratorio, invano. La vicenda di Stella si intreccia con quella di un dottorando che ha già percorso la strada in cui la giovane si imbatterà. Nel dicembre 2008 la notizia dell’apposizione dei sigilli ai laboratori di chimica alla facoltà di farmacia dell’università di Catania, a causa del sospetto ambientale, oltre al ritrovamento del memoriale del dottorando Emanuele Patané, morto di tumore al polmone nel 2003, hanno costituito per Costanza Quatriglio lo spunto per dare l’avvio alla lavorazione del film. Nel diario il ventinovenne denunciava le condizioni insalubri dei locali non idonei alla ricerca scientifica. Un processo tutt’ora in atto, che vede imputati i vertici della facoltà per inquinamento e discarica non autorizzata. Vincitore del premio “Gillo Pontecorvo – Arcobaleno Latino”, Con il fiato sospeso è il frutto di una lunga documentazione che mette in luce l’obsolescenza di strutture preposte alla ricerca oltre all’amara constatazione della ricattabilità in cui spesso vivono gli studenti universitari. Dopo l’intenso ritratto dell’analfabeta Vincenzo Rabito, Terramatta, Costanza Quatriglio con questo breve e intenso film ritorna al linguaggio della fiction, anche se poi non rinuncia a certi stilemi del documentario. Una scelta registica precisa, etica, tesa a svelare la “macchina cinema”, la messinscena che vi sta dietro, con tanto di stesura di una sceneggiatura, del lavoro con attori professionisti, quasi che la realtà sia troppo drammatica e dolorosa da dover essere filtrata, elaborata. Buona la scelta di Alba Rohrwacher nei panni di Stella e di Michele Riondino che dà voce alle parole di Emanuele.
Una band punk a corto di serate accetta da un roadie scalcagnato di suonare ad un ritrovo di white supremacists, skinhead d’estrema destra da provincia americana. Giunti in loco la serata si svolge in uno scenario di grande tensione e la band la porta avanti con la sfacciataggine che gli compete ma la tragedia inizia a spettacolo finito, quando prima di andarsene sono involontari testimoni di un omicidio a sangue freddo da parte degli organizzatori. Rinchiusi in una stanza sanno che tutti lì fuori li vogliono morti e, a differenza loro, sono perfettamente in grado di ucciderli.
Montréal, Canada, 1989. Laurence è uno stimato professore di letteratura in un liceo e un apprezzato romanziere esordiente. Nel giorno del suo 35esimo compleanno, confessa alla propria fidanzata – la grintosa regista Frédérique – che la sua vita è una totale menzogna. Laurence ha sempre sentito di essere nato nel corpo sbagliato. Donna costretta in abiti e attributi maschili, Laurence ha finalmente preso consapevolezza del bisogno di non mentire più, agli altri e soprattutto a se stesso. Fred, che sta con lui da due anni, è sconvolta. Ma la loro è una relazione di passione, affinità, complicità, stima, sostegno e un affetto profondissimo. Dopo un iniziale allontanamento, la coppia si ricompone: Laurence ama Fred comunque, a prescindere dal suo desiderio di diventare donna; Fred non può fare a meno di lui e desidera sostenerlo nel difficile percorso di transizione. Inizia, così, una nuova vita. Ma le ostilità e i pregiudizi che i due innamorati dovranno affrontare, nei dieci anni seguenti, metteranno più volte in discussione il loro rapporto straordinario. Può l’amore elevarsi così tanto da superare le differenze di genere? Esiste un sentimento talmente puro e accogliente da continuare ad ardere anche quando il corpo smette di diventare uno strumento di richiamo sessuale? Il terzo film di Xavier Dolan – giovane promessa del cinema canadese indie – pone domande a cui è arduo rispondere. Lo stesso regista non sembra interessato a proporre soluzioni ai molti interrogativi suscitati, così come non intende dare giudizi sulla storia narrata e sui personaggi che la abitano, così fuori dall’ordinario. A proprio agio con personaggi marginali, questa volta Dolan getta uno sguardo sulla marginalità più estrema, così poco raccontata anche dal cinema queer. La transessualità non è un soggetto facile e il regista, poco più che ventenne, sceglie di trattarlo nel modo più semplice e naturale possibile: filtrandolo attraverso le lenti del sentimento d’amore, che stempera la drammaticità e l’estremizzazione della vicenda di Laurence, uomo affermato che decide, in età non più giovane, di rinunciare a tutte le certezze acquisite, pur di vivere finalmente se stesso. La posta in gioco è altissima, perché Laurence si assume la responsabilità di rischiare tutto ciò che ha costruito: l’affetto della famiglia e degli amici, la stima sociale, un lavoro che lo riempie di soddisfazioni e soprattutto l’amore della sua anima gemella. Improvvisamente solo in una società che, nonostante la dichiarata apertura mentale, non è disposta a rinunciare alla propria facciata di perbenismo e conformismo, Laurence deve affrontare la diffidenza e il pregiudizio di chi un anno prima lo ammirava. Dolan rappresenta plasticamente questa condizione di reietto, con la falsa soggettiva che anima la sequenza iniziale del film, in cui il protagonista, vestito da donna, cammina per strada e la macchina da presa immortala gli sguardi stupiti, intimiditi o derisori che lo scrutano. Ma Laurence ha dalla sua la maturità e la consapevolezza di sé, oltre che la forza dell’amore, pur se la ferma volontà di andare fino in fondo comporta la necessità di rinunciare alla totalità di questo amore. Una totalità che i due attori protagonisti – Melvil Poupaud e Suzanne Clément, straordinari nei rispetti ruoli – rendono plasticamente, facendola pulsare davanti ai nostri occhi. La tenerezza e la sensibilità con cui il regista guarda a questa storia – da cui la parola “speciale” è bandita, perché indicatore di un perbenismo che non ha neppure il coraggio di manifestarsi apertamente – costituiscono la cifra artistica e insieme umana del film che segna il passaggio definitivo del giovane cineasta alla maturità, dopo le due sorprendenti ma acerbe prove precedenti. Laurence Anyways è l’opera di Dolan dal tema più estremo, eppure è la meno urlata, la più delicata. La più narrata e la meno estetizzante, anche se riconosciamo la consueta cura dell’inquadratura, dei costumi, dei colori, della colonna sonora (rigorosamente anni ’80 e ’90) e dei dialoghi. La più disperata, ma anche quella più intrisa di speranza. In definitiva, la più vera.
Il batterista Ruben forma con la fidanzata Lou il duo Blackgammon: i due vivono insieme e sono sempre in viaggio per le strade d’America, in tour da un club all’altro. Ex tossicodipendente pulito da quattro anni, Ruben si accorge di percepire uno strano ronzio nelle orecchie e in poco tempo diventa quasi completamente sordo.
Stati Uniti, 1841. Solomon Northup è un musicista nero e un uomo libero nello stato di New York. Ingannato da chi credeva amico, viene drogato e venduto come schiavo a un ricco proprietario del Sud agrario e schiavista. Strappato alla sua vita, alla moglie e ai suoi bambini, Solomon infila un incubo lungo dodici anni provando sulla propria pelle la crudeltà degli uomini e la tragedia della sua gente. A colpi di frusta e di padroni vigliaccamente deboli o dannatamente degeneri, Solomon avanzerà nel cuore oscuro della storia americana provando a restare vivo e a riprendersi il suo nome.
Un film di Kathryn Bigelow. Con Jessica Chastain, Jason Clarke, Joel Edgerton, Jennifer Ehle, Mark Strong. Thriller, durata 157 min. – USA 2012. – Universal Pictures uscita giovedì 7febbraio 2013. MYMONETRO Zero Dark Thirty valutazione media: 4,10 su 79 recensioni di critica, pubblico e dizionari. La caccia ad Osama Bin Laden è stata la missione che più ha impegnato l’America contemporanea, nel corso di un decennio abbondante e di due mandati presidenziali, e che più l’ha esposta, in termini di promesse e vendette, all’interno dei suoi confini e al cospetto del mondo intero. Questa è la storia di Maya, giovane ufficiale della CIA, armata d’intuito e di una determinazione dura a morire, che non si è lasciata fermare dai giochi di potere né dalle indecisioni o dallo scetticismo dei superiori ed è riuscita nell’impresa storica di trovare l’ago che pareva svanito nel nulla all’interno di uno dei pagliai più fitti, complessi e lontani dagli uffici di Washington che si potessero immaginare. Al di là del successo nel raccontare una storia nota con una tensione che non dà tregua, e oltre una regia di massima precisione, come un’arma intelligente guidata però da una mano umana scaldata dalla passione, c’è una considerazione banale nella sua evidenza che fa di Zero Dark Thirty un film raro e imperdibile: tanto nella ricostruzione quasi documentaristica dei metodi di lavoro dell’Intelligence, delle dinamiche maschili al suo interno, della solitudine al femminile, dell’impegno visivo, strategico e linguistico che ne sono parte integrante e che occupano per intero la prima parte del film, quanto nella grande sequenza dell’azione e nella difficile chiusura, non c’è nulla che manchi al film né nulla che sia di troppo. Non è una questione di realismo, ma una misura tutta interna all’opera, ottenuta con gli strumenti della scrittura e della messa in scena e i tempi del montaggio, che lo rende magnificamente esauriente e mai esondante. Non si dia dunque troppo credito a chi si lascia scandalizzare dalla sequenza della tortura in apertura, perché vorrebbe dire guardare il dito là dove la Bigelow indica la luna (tanto più che la realtà delle cose, in questi casi, è plausibilmente più cruenta). Eppure la sequenza ha la sua importanza, perché posiziona il personaggio di Jessica Chastain in un punto cruciale. La Chastain è il film, proprio in virtù del suo collocamento su un fronte duro, inscalfibile, totalmente dentro il proprio lavoro (come la regista dentro il suo) ma anche profondamente femminile, efficace là dove usa altre modalità per la caccia all’uomo, che non sono la forza bruta né l’intimidazione. Sta tutto lì, nel portarci a credere al cento per cento che dietro quella piccola donna dalla carnagione chiara e dal fisico inesistente c’è un killer che arriverà al bersaglio che nessun altro ha saputo avvicinare, il successo di Kathrin Bigelow e del suo cinema solo apparentemente “maschile”. Ciò non toglie che la regista riservi le uniche scene di palpabile umanità alla comunione maschile dei soldati prima dell’attacco, nelle bellissime sequenze dei giochi al campo o del silenzio tragicamente poetico in elicottero, ma il punto non cambia, perché Zero Dark Thirty non è una missione di pace, bensì la storia di una (magnifica) ossessione. Che Maya – personaggio solo vagamente ispirato alla realtà ma più che altro creato ad hoc – sia il film, e non solo la sua protagonista, lo testimonia anche la sua trasformazione fisica nella scena in cui indossa il chador sopra le All Star, che ad un certo punto sposta lo scopo dell’impresa dall’esterno verso l’interno del personaggio. Non è più, allora, la sicurezza della terra madre, né lo sventare nuovi devastanti attacchi, la priorità assoluta che la muove, bensì la fedeltà cieca a un obiettivo folle, come nella miglior letteratura cinematografica. Perché trovare Osama, per Maya, vuol dire prima di tutto trovare se stessa.
Irlanda, 1952. Philomena resta incinta da adolescente. La famiglia la ripudia e la chiude in un convento di suore a Roscrea. La ragazza partorirà un bambino che, dopo pochi anni, le verrà sottratto e dato in adozione. 2002. Philomena non ha ancora rinunciato all’idea di ritrovare il figlio per sapere almeno che ne è stato di lui. Troverà aiuto in un giornalista che è stato silurato dall’establishment di Blair e che accetta, seppur inizialmente controvoglia, di aiutarla nella ricerca. Gli ostacoli frapposti dall’istituzione religiosa saranno tanto cortesi quanto depistanti ma i due non si perdono d’animo. Stephen Frears racconta in questo suo riuscitissimo film la storia vera di una madre alla ricerca del figlio perduto che Martin Sixsmith ha reso nota con il libro “The lost Child of Philomena Lee” che, pubblicato nel 2009, ha consentito a molte donne di sentirsi sostenute nel raccontare il loro ‘vergognoso’ passato. Frears di lei dice: “Incontrando la vera Philomena Lee ero sorpreso dal fatto che volesse venire sul set, cosa che ha fatto il giorno in cui veniva girata la scena terribile della lavanderia. Philomena è una donna magnifica, priva di autocommiserazione, che continua ad avere fede nonostante le ingiustizie subite”. Sta proprio nella chiusura di questa dichiarazione il senso profondo di un film che sa commuovere, far pensare e anche divertire. Perché sul grande schermo ne abbiamo già viste molte di vicende di madri che cercano i figli loro sottratti nei più diversi modi e Peter Mullan con Magdalene aveva già denunciato nel 2002 l’atroce situazione di queste giovani vite affidate a religiose accecate da una presunta fede. Frears però ci fa sapere che Philomena non ha perso la fede (quella vera) e costruisce il suo film (grazie a due formidabili interpreti come Judi Dench e Steve Coogan) proprio sul confronto tra due persone che partono da punti di vista in materia estremamente distanti. Martin giornalista e studioso della storia della Russia non crede in Dio ed ha scarsa fiducia anche negli esseri umani di cui ha assaggiato sulla propria pelle la feroce doppiezza. Philomena non è una donna colta (legge romanzetti d’amore di cui ricorda ogni dettaglio) e avrebbe mille ragioni per essere divenuta una delle atee più rigorose ma non è così. Perché è riuscita, anche nella sofferenza più profonda, a non confondere Dio con coloro che hanno talvolta la pretesa (trasformata in potere prevaricatore e assoluto) di rappresentarlo. Philomena e Martin si confrontano e anche si scontrano in materia (anche perché il giornalista non le risparmia mai il proprio scetticismo) ma non si tratta qui di chi abbia ragione o abbia torto. Si tratta piuttosto di un incontro che è sempre possibile quando si è capaci di andare al di là delle barriere che il pregiudizio erige tra le persone. Frears riesce a raccontarlo grazie all’umanità che ha pervaso i suoi film migliori e alle doti di narratore di grande spessore.
Quattro adolescenti muoiono, in luoghi diversi ma alla medesima ora, in circostanze strane. Rachel, zia di una delle vittime, su richiesta della sorella indaga sul mistero, e viene così a scoprire che esiste una videocassetta che, a sette giorni esatti dalla sua visione, porta ad una morte orribile chi la guarda. Nel tentativo di dipanare l’intricata matassa, coinvolge nelle indagini anche il piccolo figlio Aidan e l’ex fidanzato.
Theodore è impiegato di una compagnia che attraverso internet scrive lettere personali per conto di altri, un lavoro grottesco che esegue con grande abilità e a tratti con passione. Da quando si è lasciato con la ragazza che aveva sposato però non riesce a rifarsi una vita, pensa sempre a lei e si rifiuta di firmare le carte del divorzio. Quando una nuova generazione di sistemi operativi, animati da un’intelligenza artificiale sorprendentemente “umana”, arriva sul mercato, Theodore comincia a sviluppare con essa, che si chiama Samantha, una relazione complessa oltre ogni immaginazione. A Spike Jonze interessano le più banali e comuni tra le sensazioni umane ma per arrivare a dar voce e corpo in maniera personale e addirittura “nuova” ai più antichi tra i temi trattati dall’arte (e dunque dal cinema) necessita sempre di passare per un elemento fantastico, l’inserimento di una sola implausibile stranezza per attivare meccanismi e percorsi nuovi. In passato lo ha fatto con lo sceneggiatore Charlie Kaufman (che di questo è stato maestro) ora ci è arrivato con un film scritto autonomamente (e si nota un po’ di fatica della sceneggiatura nel giungere alla conclusione), un’opera che attinge ai temi della fantascienza classica e li trasforma da obiettivo del film a suo mezzo. Il rapporto con le macchine non come spunto di riflessione ma come strumento per parlare d’altro. Con il lusso di poter usare l’attrice più attraente del momento solo in audio, senza mai farla vedere (l’intelligenza artificiale parla per bocca di Scarlett Johansson), facendo in modo che sia il cervello dello spettatore a sollecitare il rinforzo positivo legato a quella voce, e appoggiandosi alla capacità superiore alla media di Joaquin Phoenix di “ascoltare”, cioè di essere l’unico inquadrato in ogni conversazione significativa, volto emittente e ricevente di tutte le battute, Spike Jonze riesce a girare una storia d’amore al singolare, senza puntare il dito contro la tecnologia. Anzi. Attraverso la sua versione estrema della società in cui viviamo (sembra ambientato 10 anni da oggi) Her supera la dicotomia classica della fantascienza tra spirito e materia, ovvero la lotta che in ogni uomo l’umanità compie per emergere e trionfare sul dominio imposto con o dalla tecnologia. Rifiutandosi di mettere in scena il rapporto che avevamo fino a qualche decennio fa con l’avanzamento tecnologico, Jonze arriva invece dalle parti di Wall-E, cioè in quel reame di storie in cui la lotta dello spirito per emergere è aiutata dalla tecnologia e non ostacolata. Non cosa la tecnologia rischi di farci ma chi siamo noi mentre ci guardiamo nel suo specchio. Ridotto ai minimi termini infatti Her mette in scena il lungo processo attraverso il quale viene elaborata la fine di un amore: venire a patti con l’esigenza di andare avanti, lasciare il passato dietro di sè e voltare pagina attraverso esperienze estreme e grottesche. Questo modo di procedere consente al regista di piegare i generi, fondendo fantascienza e melodramma (ma non c’è dubbio che sia il secondo a prevalere) e dipingendo uno stile di vita e un universo animato dalla più evidente contingenza con il tempo presente. Non c’è un briciolo di fobia nella sua visione ma anzi l’amichevole presa in giro da parte di chi con le novità del presente ha un rapporto di confidenza. Il risultato è che vedendo Her si ha l’impressione che solo in questa maniera sia possibile operare quell’indagine sull’attualità, tipica delle forme d’arte non ancora morte, quella che consente di scovare quali siano le pieghe in cui poter trovare il sentimentalismo oggi.
Dopo un soggiorno in Tagikistan, Paul Dédalus, antropologo francese, rientra a Parigi. Fermato dalla polizia di frontiera, viene interrogato da un funzionario della DGSE (i servizi segreti esteri francesi). Paul Dédalus deve spiegare l’esistenza di un suo perfetto omonimo, un ebreo russo nato il suo stesso giorno, rifugiato in Israele e morto da qualche anno e da qualche parte in Australia. Paul cerca nei ricordi e risale il tempo, indietro fino all’infanzia, alla morte per suicidio della madre, alla sua giovinezza coi fratelli e il padre vedovo inconsolabile, il suo incontro con la dottoressa Behanzin, all’origine della sua vocazione per l’antropologia, e quello con Esther, il suo primo e struggente amore. È un nome che dona al film di Arnaud Desplechin il suo primo respiro. Chi è Paul Dédalus? Chi è quest’uomo che confrontato con un’identità parallela si mette a sondare la sua? E cosa definisce un uomo? Il nome, la data e il luogo di nascita scritti sul passaporto? Oppure i ricordi incalzanti che si contendono lo spazio nella sua memoria, scrivendo giorno dopo giorno i capitoli di un romanzo intimo? Facciamo un passo indietro. Paul Dédalus è l’eroe de I miei giorni più belli ma il suo nome viene da lontano. Alter ego di James Joyce venuto al mondo con “Ritratto dell’artista da giovane” e poi ‘cresciuto’ nel suo “Ulisse”, Dédalus è il doppio finzionale di Desplechin concepito nel 1996 (Comment je me suis disputé…ma vie sexuelle) e incarnato da Mathieu Amalric. Dodici anni dopo riemerge bambino in Racconto di Natale e sotto il tetto della grande casa roubaisienne della matriarca Junon/Deneuve, diciannove anni dopo ritorna in un film-fiume declinato in tre capitoli che gradualmente crescono in ampiezza e durata, accompagnando il protagonista dall’infanzia all’età adulta. Seguendo il modello stabilito da François Truffaut, Desplechin riprende il personaggio di uno dei suoi primi film per fargli vivere delle nuove avventure, passate e presenti. (Es)tratto da Comment je me suis disputé…(ma vie sexuelle), Paul Dédalus non è più lo stesso ma non è nemmeno un altro (ieri filosofo, oggi antropologo). Scarti e incoerenze (intenzionali) tra i due Dédalus rendono (im)possibile il proseguimento di un film nell’altro, cortocircuitando e riorganizzando tutto in un egopic che afferma il primato della soggettività e dell’introspezione. Tuffato nella sua memoria, Paul Dédalus pesca tre ricordi, quelli del titolo francese (Trois souvenirs de ma jeunesse): il primo, breve e violento, fa eco alle opere passate del regista e ad altri grandi momenti del cinema sull’infanzia (Truffaut e Pialat, Rossellini e Buñuel); il secondo rimanda a un altro mito fondatore del cinema di Desplechin, quello dello spionaggio (La Sentinelle), la belle aventure (la gita scolastica in URSS) serve all’autore per concepire un altro Paul Dédalus, il giovane ebreo a cui il nostro, personaggio eroico bigger than life, dona il suo passaporto per raggiungere Israele; il terzo, cuore battente del film, è consacrato al soggetto amato, Esther, adolescente dall’allure fatale che lo fa capitolare per sempre. Il souvenir conclusivo e più lungo è in sostanza un teen-movie, un film ‘per corrispondenza’ (tra Roubaix e Parigi), una storia d’amore ordinaria e magnifica e magnifica perché ordinaria. Un sentimento che non ha niente di eccezionale se non di essere stato vissuto e mai dimenticato. Scandito dai turbamenti e dagli eccessi della passione, dalle lettere che gli amanti si scrivono e leggono guardando in ‘camera’, il terzo episodio si svolge sullo sfondo della caduta del Muro di Berlino che segna la fine dell’adolescenza e trasloca Paul a Parigi. E a Parigi il protagonista, che prende a pugni la vita e si lascia pestare dalla vita, avvia i suoi studi di antropologia ed elegge, dopo la zia, una nuova madre adottiva, la professoressa Behanzin che ha il nome di un re africano senza regno, eroe mitico della resistenza alla Francia coloniale. Egoista e passionale, Esther è la magnifica ossessione di Paul che apprende la vita, cresce, invecchia e si scopre ancora pieno di un “furore intatto” davanti al suo rivale, l’amico canaglia che lo derubò del suo ‘bene’, e al sentimento irriducibile per Esther, che ha amato, tradito, lasciato, ripreso, ripensato, rivissuto. Desplechin filma il loro desiderio adolescente in quello che ha di più grande e tragico: una libertà che aiuta a determinarsi e a diventare soggetto quando sei giovane, un ‘peso’ di cui non sai più che fare quando sei diventato grande. Creatura e creatore, Paul Dédalus è condiviso da Antoine Bui, Quentin Dolmaire e Mathieu Amalric. Dei tre corpi-memoria (infanzia, giovinezza, maturità), l’ultimo pronuncia “je me souviens”, risorgendo gli altri in un tourbillon romanzesco, una riconfigurazione ininterrotta che prosegue oggi con un vero-falso prequel, che non si impone subito con evidenza ma trova progressivamente il suo battito. Un movimento retrospettivo che assume la forma del ricordo e un movimento di rilancio che lo rimette in circolo, incarnato in volti sconosciuti (Antoine Bui, Quentin Dolmaire) e splendidamente lontani dal loro doppio più àgé (Mathieu Amalric). Fantasma di carne e sangue con cui s’intendono senza vacillare nello spettatore il credito di un personaggio che non smette di sbocciare.
Gennaio del 1895, pochi mesi prima che i fratelli Lumière diano vita a quello che convenzionalmente chiamiamo Cinema, nel cortile dell’École Militaire di Parigi, Georges Picquart, un ufficiale dell’esercito francese, presenzia alla pubblica condanna e all’umiliante degradazione inflitta ad Alfred Dreyfus, un capitano ebreo, accusato di essere stato un informatore dei nemici tedeschi. Al disonore segue l’esilio e la sentenza condanna il traditore ad essere confinato sull’isola del Diavolo, nella Guyana francese. Il caso sembra archiviato. Picquart guadagna la promozione a capo della Sezione di statistica, la stessa unità del controspionaggio militare che aveva montato le accuse contro Dreyfus. Ed è allora che si accorge che il passaggio di informazioni al nemico non si è ancora arrestato. Da uomo d’onore quale è si pone la giusta domanda: Dreyfus è davvero colpevole?
Marcello ha due grandi amori: la figlia Alida, e i cani che accudisce con la dolcezza di uomo mite e gentile. Il suo negozio di toelettatura, Dogman, è incistato fra un “compro oro” e la sala biliardo-videoteca di un quartiere periferico a bordo del mare, di quelli che esibiscono più apertamente il degrado italiano degli ultimi decenni. L’uomo-simbolo di quel degrado è un bullo locale, l’ex pugile Simone, che intimidisce, taglieggia e umilia i negozianti del quartiere. Con Marcello, Simone ha un rapporto simbiotico come quello dello squalo con il pesce pilota.
Fúsi a 43 anni vive ancora la madre e lavora come addetto ai bagagli in un aeroporto. Corpulento e introverso non ha mai avuto una fidanzata e subisce senza reagire i pesanti scherzi dei colleghi. L’attuale compagno della madre per il suo compleanno gli regala un cappello da cowboy e l’iscrizione a un corso di ballo country. Fúsi è estremamente restio alla partecipazione ma l’incontro con Sjofn, una delle corsiste, lo spinge a provare. Ci voleva un film che arriva dalla periferica Islanda per ricordarci che si può fare un cinema intimistico (nell’accezione più positiva del termine) senza per questo dover annoiare lo spettatore con silenzi chilometrici o solipsistici intellettualismi che aspirerebbero alla dignità della cinefilia senza riuscirvi.
Steven è un cardiologo: ha una bellissima moglie, Anna, e due figli, Kim e Bob. All’insaputa di costoro, tuttavia, si incontra frequentemente con un ragazzo di nome Martin, come se tra i due ci fosse un legame, di natura ignota a chiunque altro. Quando Bob comincia a presentare degli strani sintomi psicosomatici, la verità su Steven e Martin sale a galla. Come per la versione originaria di 2001 – Odissea nello spazio, è un minuto di buio a introdurre The Killing of a Sacred Deer, sulle note dello Stabat Mater di Schubert. L’immagine immediatamente successiva è quella di un intervento a cuore aperto, inquadrato senza veli dalla macchina da presa.
Irlanda del Nord, 1981. Il Primo Ministro Margaret Thatcher ha abolito lo statuto speciale di prigioniero politico e considera ogni carcerato paramilitare della resistenza irlandese alla stregua di un criminale comune. I detenuti appartenenti all’IRA danno perciò il via, nella prigione di Maze, allo sciopero “della coperta” e a quello dell’igiene, cui segue una dura repressione da parte delle forze dell’ordine. Il primo marzo, Bobby Sands, leader del movimento, decreta allora l’inizio di uno sciopero totale della fame. Il britannico Steve McQueen ha con l’immagine un rapporto estremamente fisico, che qui porta all’estremo, dal fisico al fisiologico, poiché le armi della contestazioni sono dapprima i rifiuti del corpo e poi il corpo stesso, ultima risorsa a disposizione e ultimo baluardo di libertà: quella di poter scegliere di disporre di sé, della propria vita e della sua fine.
John May è un funzionario comunale dedicato alla ricerca dei parenti di persone morte in solitudine. Diligente e sensibile, John scrive discorsi celebrativi, seleziona la musica appropriata all’orientamento religioso del defunto, presenzia ai funerali e raccoglie le fotografie di uomini e donne che non hanno più nessuno che li pianga e ricordi. La sua vita ordinata e tranquilla, costruita intorno a un lavoro che ama e svolge con devozione, riceve una battuta d’arresto per il ridimensionamento del suo ufficio e il conseguente licenziamento. Confuso ma null’affatto rassegnato, John chiede al suo superiore di concedergli pochi giorni per chiudere una ‘pratica’ che gli sta a cuore e che ha il volto di Billy Stoke, un vecchio uomo alcolizzato che aveva conosciuto un passato felice. Di quel passato fa parte Kelly, la figlia perduta per orgoglio molti anni prima. Lasciata Londra per informarla della dipartita del genitore, John si muove tra i vivi e assapora la vita che ha il volto di una donna e il sapore di una cioccolata calda.
Adèle ha quindici anni e un appetito insaziabile di cibo e di vita. Leggendo della Marianna di Marivaux si invaghisce di Thomas, a cui si concede senza mai accendersi davvero. A innamorarla è invece una ragazza dai capelli blu incontrata per caso e ritrovata in un locale gay, dove si è recata con l’amico di sempre. Un cocktail e una panchina condivisa avviano una storia d’amore appassionata e travolgente che matura Adèle, conducendola fuori dall’adolescenza e verso l’insegnamento. Perché Adèle, che alle ostriche preferisce gli spaghetti, vuole formare gli adulti di domani, restituendo ai suoi bambini tutto il bello imparato dietro ai banchi e nella vita. Nella vita con Emma, che studia alle Belle Arti e la dipinge nuda dopo averla amata per ore. Traghettata da quel sentimento impetuoso, Adèle diventa donna imparando molto presto che la vita non è sempre un (bel) romanzo.
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