Fotografo “d’assalto”, Jacques Kaminski ha viaggiato molto e amato molte donne, dalle quali ha avuto 4 figlie che ha sempre trascurato per lavoro e viaggi. Passati i 70, è in montagna con l’ultima compagna quando riceve la visita delle ragazze. Loro sanno il motivo di questa riunione di famiglia, lui no. Uscito in Italia con 3 anni di ritardo, è forse il più autobiografico dei film del francese Lelouch (che ha 7 figli da 5 donne diverse) e che dà a Hallyday (troppo dedito a chirurgie plastiche facciali) l’onore e l’onere di mettere a nudo la sua dimensione più intima e personale. Come sempre ci mette il carico di citazioni cinefile e autocitazioni, di tante musiche (quelle che ama di più), di eccessi qua e là di zucchero e buoni sentimenti familiari. Risultato abbastanza noiosamente egoriferito, ma con eleganza.
Luciana è una giovane immigrata spagnola a New York, che lotta per sopravvivere mentre prova a fuggire da un traumatico incidente del suo passato. Per sbarcare il lunario accetta lavori di ogni sorta: un giorno distribuisce volantini pubblicitari mascherata da pollo, un pomeriggio fa la babysitter, una sera si veste elegante per andare a una festa esclusiva, apparentemente solo per farsi guardare. Luciana dovrebbe sostituire una sua amica, che le promette “non devi far niente di ciò che non vuoi”, in cambio di duemila dollari solo per partecipare al party. Ma la serata prenderà ben presto una piega imprevista e pericolosa, e sarà troppo tardi per abbandonarla.
New York. Quartiere di Queens. Una rapina in banca finisce male, Connie riesce a fuggire mentre suo fratello Nick, affetto da un ritardo mentale, viene arrestato. Da quel momento Connie inizia a darsi da fare per poter trovare il denaro necessario per pagare la cauzione mentre progressivamente sviluppa un altro progetto: farlo evadere. Inizia quasi come una commedia il quinto film dei fratelli Safdie, con i rapinatori che scrivono con la penna biro le disposizioni per la cassiera, ma poi il registro cambia rapidamente. Perché ciò che a loro interessa mettere in luce sono personaggi che vivono nel presente, per i quali il futuro non rappresenta una meta ma una incertezza totale.
Scritto dal genovese Montaldo, attivo dal 1961, con la moglie Vera Pescarolo e il prolifico Andrea Purgatori, è un film di esplicita denuncia etico-sociale dove vale la forma più che i contenuti. Nicola Ranieri, proprietario a Torino delle Officine Meccaniche ereditate dal padre, è sull’orlo del fallimento. Da 8 anni sposato senza figli con Laura, come lui ricca borghese, sospetta che lo tradisca con un baldanzoso garagista, ma non si rende conto di essere fallito anche come marito. Invece di raccontare cause, responsabilità, rapporti con i 70 operai che Nicola non può più pagare e rischiano di perdere il lavoro, Montaldo scarica tutto genericamente sulla recessione che affligge da anni l’Italia e l’Europa e sullo strozzinaggio delle banche e delle assicurazioni e dedica molto, troppo spazio alla sua gelosia. Non manca nemmeno una lieta fine in cui, praticando l’antica, italica arte dell’arrangiarsi, si mette sullo stesso piano dei suoi supposti persecutori. All’attivo rimangono la bravura di Favino (un po’ meno quella della Crescentini in un personaggio contraddittorio), le livide luci e i colori di Arnaldo Catinari, il talento dello scenografo Francesco Frigeri. Tirate le somme, è un film formalista.
Avvocato d’ufficio, senza passione, disilluso e stanco, Perez non ha mai avuto abbastanza coraggio per diventare l’avvocato di valore che avrebbe potuto essere. Ritrova le palle – e sé stesso – quando la figlia, fidanzata con un piccolo delinquente, si trova in serio pericolo e, per salvarla, infrange ogni regola. Non è la storia in sé che conta, ma come è raccontata – la sceneggiatura è del regista con Filippo Gravino – come è descritta – un’atmosfera opprimente senza possibilità di uscirne -, come è fotografata – da Ferran Paredes che riprende il Centro Direzionale di Napoli con occhio gelido e duro – e soprattutto conta la potenza di un personaggio che Zingaretti (anche produttore) riesce a rendere credibile in ogni sfaccettatura, compresa quella forse meno risolta del rapporto della figlia con lui. Medusa distribuisce.
Ormai ospite fisso dei diversi festival che si succedono durante l’anno, Hong Sang-soo continua a produrre film con frequenza mirabile ma esiti alterni. Anche Oki’s Movie pare cristallizzato nella sua consuetudine meta-cinematografica: protagonista di volta in volta uno sceneggiatore o un regista, spesso di basso se non bassissimo profilo, e la sua difficoltà a relazionarsi con la realtà e a gestire i rapporti umani, specie quelli perennemente conflittuali e ricchi di incomprensione con l’universo femminile. Il modello sempre più ingombrante è quello di Eric Rohmer e della sua vivisezione delle relazioni uomo-donna, affrontate attraverso logorroici e spesso estenuanti dialoghi, intervallati solo raramente da concrete effusioni amorose. Oki’s Movie, con la sua complessa struttura a rovescio e a episodi, rappresenta un po’ l’epitome di questa tipologia di film, accarezzando simbolismi velleitari e sufficientemente involuti per rimanere ermetici (e quindi misteriosi e quindi affascinanti) di fronte alle ipotesi interpretative dello spettatore. Sembra trascorso molto tempo dalla rivelazione di A Virgin Stripped Bare by Her Bachelors, quando al talento di Hong Sang-soo si attribuivano ancora virtù potenzialmente salvifiche per il cinema coreano.
Ambientato nella fatiscente periferia di Calcutta, Labour of Love è il racconto lirico di due vite ordinarie costrette dalla spirale della recessione a stare lontane. Sono vincolate a un turno di lavoro e alle faccende domestiche, e passano lunghi periodi nel silenzio di una casa vuota. Condividono la solitaria ricerca di un sogno che pare lontano e che li sfiora ogni mattina.
Aditya Vikram Sengupta, alla sua opera prima, realizza una sinfonia metropolitana, nei meandri di una fatiscente e caotica megalopoli, Calcutta. Praticamente senza parole, i pochi dialoghi non hanno nulla di narrativamente significativo. Una canzone di due esseri umani, di due solitudini, di due coniugi che non si vedono mai, le cui vite non si possono incrociare, costretti a orari e turni di lavoro differenti. Sullo sfondo la violenta recessione che ha colpito anche l’India, e che costringe i protagonisti ad arrangiarsi con tutti i mezzi possibili. Il film si dipana per immagini, il cui susseguirsi scandisce le giornate della vita dei due personaggi. La città, il giorno e la notte, come in un trip sinfonico, come un film di Godfrey Reggio, come un allucinato Les parapluies de Cherbourg sprofondato nella dimensione lorda della città indiana.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Troppo tardi e troppo poco perché la fine del mondo si potesse fermare. E così, come da peggiori profezie eco-apocalittiche, alle 4:44 di un giorno X tutto avrà fine, per una coppia di amanti come per l’umanità intera. “Al Gore was right”. Una profezia recepita tardivamente quella apocalittica del quasi-presidente degli Stati Uniti d’America, sorta di santone che, insieme al Dalai Lama e alle sue riflessioni sull’umanità, ricorre in loop come coro morale del film di Abel Ferrara. Un Ferrara quasi pacificato, quasi sereno di fronte all’apocalisse incombente. La sua tipica figura tormentata tra edonismo e desiderio di autodistruzione, senso di colpa e voglia di redenzione, si annulla nello smarrimento collettivo della comunità umana, in balia di eventi di cui è sfuggito il controllo. E con il tormento dell’individuo sparisce anche la dannazione, sostituita da una voglia di affetto e di composizione dei contrasti, di ultimo godimento dei semplici piaceri della vita, quelli a cui è impossibile rinunciare fino all’ultimo respiro.
Con la tipica carnalità e convivialità dell’autore di New Rose Hotel, l’opera a cui 4:44 Last Day on Earth è forse più accostabile, quella sensazione di abbraccio familiare che coinvolge anche il pubblico; quella fisicità unica, che lo accompagna anche durante i litigi via Skype. Un’empatia che il regista ormai mostra di privilegiare rispetto alla cura formale per il film, girato in digitale e lasciato scorrere in uno stream of consciousness suggestivo ma talora povero visivamente. Sostanza più che forma, faccenda che ancora una volta accenderà i fan di Abel e contemporaneamente scatenerà i suoi (molti) detrattori.
Trovata versione in ita grazie ad un utente, versione 720p in inglese su sito russo (i subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni)
Tina ha un fisico massiccio e un naso eccezionale per fiutare le emozioni degli altri. Impiegata alla dogana è infallibile con sostanze e sentimenti illeciti. Viaggiatore dopo viaggiatore, avverte la loro paura, la vergogna, la colpa. Tina sente tutto e non si sbaglia mai. Almeno fino al giorno in cui Vore non attraversa la frontiera e sposta i confini della sua conoscenza più in là. Vore sfugge al suo fiuto ed esercita su di lei un potere di attrazione che non riesce a comprendere. Sullo sfondo di un’inchiesta criminale, Tina lascia i freni e si abbandona a una relazione selvaggia che le rivela presto la sua vera natura. Uno choc esistenziale il suo che la costringerà a scegliere tra integrazione o esclusione.
Ispirato a 5 novelle del Boccaccio. Ambientato in una Firenze trecentesca colpita dalla peste: un gruppo di giovani fugge dalla città e si rifugia in una casona di campagna, dove passano il tempo a raccontarsi storie. I Taviani aprono e chiudono il film con scene di peste, simbolo di tutti i mali – “tutte le pesti di cui siamo circondati: dallo spettacolo d’orrore di quei monatti vestiti di nero che guidano prigionieri vestiti d’arancio alla crisi di casa nostra” – e valorizzano (o per lo meno vorrebbero farlo), nello sviluppo narrativo, la forza delle donne – “sono loro ad aver l’idea di lasciare Firenze e gli uomini vengono loro dietro” – ma scene e costumi da serie tv degli anni ’70 (le parrucche sono inguardabili), una recitazione filodrammatica penosa e la prolissità uccidono tutte le migliori intenzioni.
Il giapponese Mori torna a Seoul per ritrovare Kwon, che non vede da due anni. Nel frattempo vive alcune curiose avventure in città, che racconta in una lettera a Kwon, nella speranza che questa possa leggerla. Aprendo la lettera Kwon fa cadere le pagine, smarrendo così il loro ordine sequenziale: le leggerà in questa nuova sequenza, cercando di ricostruire quanto avvenuto a Mori. L’arte quantomai complessa di mutare tutto senza mutare apparentemente nulla appartiene sempre più a Hong Sang-soo, un anti-gattopardo del cinema, che prosegue incessantemente nella sua opera di cesello di storie minimaliste e divertissement che, tra uno scherzo registico e l’altro, trovano il tempo di filosofeggiare sull’esistente. Hill of Freedom non fa eccezione, anzi, pare quasi un ulteriore passo avanti, nonostante la lunghezza contenuta, nella poetica del regista sudcoreano. In meno di 70 minuti Hong trova il modo di condensare gli espedienti narrativi e le tecniche di ripresa a lui più care: zoom e piani fissi prolungati accompagnano un’ardita scomposizione tra fabula e intreccio, un nuovo esperimento à la Resnais sull’arte dello storytelling. Cinema e vita paiono ormai indistinguibili, ambedue suddivisi in fotogrammi, ambedue scanditi da un Tempo tiranno che pare oggettivizzare concetti in realtà soggettivi. Passato, presente e futuro sono solo proiezioni dell’uomo, come spiega lo spaesato Mori, ignaro di essere egli stesso il fulcro della dimostrazione empirica di questo concetto. Ma è il tocco a fare la differenza, quella raffinata carezza che è tale anche e soprattutto in contrasto rispetto a uno stile scarno e volutamente semplicistico. Ancora una volta il dialogo tace quando è l’amore a parlare, ma è soprattutto indicativo che Hong scelga l’ellissi quando sono i pugni a parlare, non mostrando ciò che chiunque mostrerebbe, in coraggiosa controtendenza con un preponderante e diffuso esibizionismo registico. Hong appartiene a un’altra epoca e a un’altra idea di cinema, senza farne mistero. Ma in fondo renderla anche la nostra epoca è solo una questione soggettiva: di passato, presente e futuro.
Malick con questo documentario ritorna all’essenza del cinema e grazie alla sola potenza delle immagini stimola la riflessione rammemorante dello spettatore sull’esistenza umana e ne provoca lo stupore, con la stessa forza con cui quel treno dei Lumiere, all’inizio, destò la meraviglia del pubblico nel primo cinematografo.
Al risveglio nel Mondo Spirituale, André Luiz incontra creature tenebrose e minacciose che vivono, insieme a lui, in quel luogo cupo e oscuro. Oltre a ciò è anche atterrito e sconvolto dal fatto che, nonostante sia “morto”, ancora prova fame, sete, freddo ed altre sensazioni fisiche. Dopo un lungo periodo di sofferenza in questa zona di dolore e purificazione dagli errori del passato, viene raccolto da Spiriti elevati e portato alla Colonia Spirituale Nosso Lar, da cui prende nome il film. Da quel momento, André Luiz inizia a conoscere meglio la vita dell’oltretomba e ad apprendere lezioni, acquisendo conoscenze che cambieranno completamente il suo modo di vedere la vita.
Nel 1990 in Abcasia Ivo e Margus provano a resistere sulla loro terra, ambita dai georgiani e difesa dagli abcasi. Ivo, esiliato estone, costruisce cassette per i mandarini di Margus, vicino di casa compatriota che sogna un ultimo raccolto prima di abbandonare il villaggio. Ivo invece non ha mai pensato di andarsene perché in quei luoghi ‘riposa’ il suo bene più prezioso. Vecchio e saggio Ivo è suo malgrado travolto dagli eventi. Uno scontro tra georgiani e mercenari ceceni, in cui sopravvivono soltanto due soldati, lo costringe a intervenire e a soccorrere nella propria casa e coi propri mezzi i feriti. Di parte avversa, i due ospiti provano a convivere sotto lo stesso tetto e sotto lo sguardo rigoroso di Ivo che converte il loro odio ottuso in un sentimento nobile e complesso.
Angelino ha 35 anni e, dopo la morte della madre, vive con il padre Peppino. Angelino non ha un lavoro, non ha desideri e non ha una ragazza. La sua vita trascorre tra le richieste del padre, che lo vorrebbe impegnato in un’attività e magari anche sposato, e un triste bar. Intorno a loro un grigio inverno che muta i colori della Sardegna, una radio che trasmette prediche religiose e una situazione economica in cui la crisi domina. Bonifacio Angius riesce a centrare in pieno l’obiettivo di realizzare il primo lungometraggio di finzione realizzando un ritratto complesso e amaro di una condizione esistenziale che è al contempo radicata nel territorio portato sullo schermo (un angolo di Sardegna) e rappresentativa di miriadi di situazioni analoghe italiane e non. Perché Angelino non è lo scemo del villaggio, non è un depresso né tanto meno un bamboccione da stereotipo socioeconomico.
Soffre piuttosto di un autismo sociale che non gli impedisce di porre e di porsi domande (solo apparentemente banali) che vanno ad impattare contro un muro di gomma che persegue l’indifferenza come obiettivo auspicabile. Anche quando sembra che la vita gli scorra sopra senza lasciare traccia nel suo intimo impermeabile a qualsiasi evento non è così. Angelino in realtà soffre per un rapporto con una figura paterna che lo ha avuto al fianco senza accorgersi di avercelo. Perché Peppino è un padre che ha svuotato nell’intimo la consorte e che non sa neppure che cosa ha o non ha condiviso con il figlio. A questo si aggiunge una distorta proposta della religiosità vista solo dal punto di vista del giudizio e della possibile punizione. Tutto quanto è stato quasi congelato nel lasciarsi vivere del giovane uomo avrà però modo di emergere con una grande lucidità che Angius sa cogliere con profonda partecipazione riuscendo però a non trascurare di innervare la sua sceneggiatura con una dolente ironia
3° film scritto e diretto dal rumeno Mungiu, ispirato a 2 romanzi non-fiction di Tatiana Niculescu Bran: Spovedanie la Tanacu (2006), poi adattato per il teatro e messo in scena a New York nel 2007, e Cartea judecatorilor (2007). È la storia vera della giovane Alina che torna dalla Germania per ricongiungersi con Voichita, conosciuta in orfanotrofio, l’unica persona che ama e da cui è stata amata. La ragazza, però, ha trovato Dio in un piccolo convento in Moldavia ed è riluttante a ricominciare la relazione. Alina si scontra con l’incapacità del prete, capo della comunità, e delle monache di capire la sua sofferenza. Dalla reciproca incomprensione si passa alla sopraffazione fisica. Inconfondibile lo stile di regia: scene lentamente dilatate nel tempo e con un unico punto di ripresa che spesso riunisce nell’inquadratura diversi personaggi. Privo di ogni pathos melodrammatico, è il realismo malinconico di una tragedia quieta. Distribuisce BIM.
Ubicato nell’Alta Austria, Radegund è un’oasi di pace dove Franz e Fani si sono incontrati e innamorati. La loro vita scorre lieta scandita dalle stagioni e dalle campane della chiesa, dal lavoro nei campi e la ricreazione sui prati. Ma la guerra allunga la sua ombra e rovescia il loro destino. Franz è chiamato alle armi e a giurare fedeltà al Führer. Incapace di concepire la violenza obietta, procedendo in direzione ostinata e contraria.
Tul sta per vedere il suo mondo distrutto. Gli è stato inviato un pacchetto di foto e di dati, che esamina e poi mette via tempestivamente, dentro il trituratore. Si rade la testa, indossa le vesti di un monaco, e si apposta nella tenuta appartenente all’uomo della foto. Poi, prende una pistola e spara un proiettile nel collo dell’uomo. Altri colpi vengono sparati, e uno di loro finisce nella testa di Tul. Tutto diventa nero. Quando si sveglia tre mesi dopo, tutto è invertito e lui si ritrova dalla parte opposta. È un danno cerebrale bizzarro, o una qualche forma di contrappasso karmico?
Moon-kyung è un regista donnaiolo, o forse solo uno che si fa credere tale. Con l’amico critico Joong-sik rievoca il loro incontro di anni prima. Ma i due non sanno quanto quel giorno abbia cambiato le loro vite
Mary è una studentessa thailandese all’ultimo anno di liceo. Mentre prova a concentrarsi sullo studio per l’esame di maturità insieme all’amica del cuore Suri, la ragazza si ritrova ad affrontare cambiamenti improvvisi che sconvolgono la sua vita serena e la spingono a provare nuovi sentimenti d’amore. Le pressioni degli adulti sulla necessità di pianificare il futuro aumentano e le certezze acquisite sembrano crollare. Tra compiti in classe, lunghe chiacchierate con l’inseparabile amica e i primi batticuore, Mary si sforza di trovare la propria strada e di dare un senso alla sua vita, proprio nel momento in cui tutto sembra volersi sottrarre al suo controllo.
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