Transformers è una serie di film statunitensi di fantascienza e azione diretti da Michael Bay, basati sui Transformers, giocattoli e serie animate della Hasbro e Takara Tomy degli anni ’80.
La serie è stata distribuita dalla Paramount Pictures (solo negli Stati Uniti, in Italia dalla Universal Pictures) e DreamWorks (solo i primi due capitoli) e prodotta da Lorenzo di Bonaventura, Ian Bryce, Tom DeSanto e Don Murphy. La serie di film vede i protagonisti, sia umani che Transformers, cambiare di volta in volta eccezion fatta per i personaggi principali della serie: Optimus Prime e Bumblebee.
Il signor e la Signora Fox vivono pacifici col figlioletto Ash e il nipotino Kristofferson, loro ospite, dentro un grande albero in cima alla collina che fronteggia gli stabilimenti dei più cattivi contadini della zona: Boggis, Bunce e Bean. Ma la natura selvatica del signor Fox gli impedisce di trovare soddisfazione come giornalista e lo spinge a cercare di far fessi i tre uomini e a saccheggiare i loro depositi. La vendetta è veloce e spietata e mette a repentaglio non solo la sua amata famiglia ma tutti gli animali del sottosuolo. Mr Fox dovrà elaborare dunque un nuovo e geniale piano per trarre tutti d’impaccio.
Vitriol è il primo lungometraggio di Francesco Afro De Falco, giovane autore napoletano che ha firmato corti e documentari primi di approdare a quest’opera più matura. Lola Verdis, la protagonista, è una giovane laureanda in architettura presso l’Università Federico II di Napoli. Lola sta preparando la tesi, ma le ricerche e la raccolta del materiale la portano lontano, alla scoperta di misteri occulti che riguardano la Napoli segreta e massonica. Il ritrovamento di un oggetto misterioso condurrà ad una concatenazione di scoperte sempre più sconcertanti su un antico ordine esoterico realmente esistito nella Napoli borbonica (l’Ordine Osirideo Egizio). Lola inizia le ricerche grazie all’aiuto del suo amico Davide, grande esperto di esoterismo e massoneria. I due vanno alla scoperta dei luoghi misteriosi dove l’ordine si riuniva in segreto – luoghi disseminati di simbologia esoterica – finché la ricerca si fa sempre più difficile e rischiosa. I due procedono attraverso la registrazione filmica di tutti i reperti, e di tutti i momenti di investigazione. Il film ha uno stile fra il realistico, la presa diretta, e la ricostruzione finzionale dei fatti in stile mokumentary. La regia gioca fra diversi piani di registrazione video creando ad hoc una confusione non fra i piani temporali del racconto, quanto fra i piani dell’immagine e della sua veridicità: ingarbugliando così le immagini riprese dalle videocamera di Lola e Davide usata sui luoghi, i material video rivisti al pc, la registrazione di Lola mentre racconta ad una terza persona cosa è in realtà successo: il suo amico Davide è misteriosamente scomparso. I diversi livelli di immagine si aprono uno sull’altro, quasi una mise en abyme della realtà stessa. Tuttavia il racconto, partito su un soggetto già complesso e lacunoso, si perde in uno stile pretenzioso che non riesce ad affascinare.
Danny e Matthew sono figli dello stesso padre, Harold, ma di madri diverse. Le loro vite hanno seguito direzioni divergenti. Danny è un loser che ha abbandonato una carriera da musicista, è terrorizzato dal mondo ed è privo di fiducia in se stesso; Matthew è un manager di successo che ha lasciato la via indicata dal genitore, scultore il cui talento non è mai stato riconosciuto.
Girato in interni a Bari, in una brutta chiesa moderna del Nordest che viene dismessa e privata di tutti gli arredi, cinepresa sempre ferma e circa 200 primi e primissimi piani (fotografia di Fabio Olmi), è un severo e conciso apologo cristiano e poco cattolico che s’impone per la sua scrittura cui contribuisce il sagace montaggio di Paolo Cottignola. In questa chiesa smobilitata è sopravvissuto un vecchio e coraggioso parroco (l’ottimo francese Lonsdale). Quando è occupata da un gruppo di immigrati africani clandestini, li accoglie, li protegge, li sfama. Così dà un nuovo senso alla sua chiesa vuota e svuotata, una sacralità perduta. Non i riti e le cerimonie fanno la chiesa, ma le opere di bene per i miseri, i derelitti, gli sfortunati. Cambiare il mondo, d’accordo, ma prima di tutto noi stessi. Ristabilire, attraverso la carità, la giustizia e l’onestà. “Stiamo vivendo in un mondo di cartone, e di cartone è fatto il potere, e gli uomini di potere… E il cartone si scioglie come si sta sciogliendo in questi ultimi tempi tutto ciò che sembrava indistruttibile: la finta giustizia, la ricchezza, l’economia”. Prodotto dalla Edison con Rai Cinema, scritto da Olmi con l’apporto laico di Claudio Magris e quello dottrinale di monsignor Gianfranco Ravasi. Fuori concorso alla Mostra di Venezia 2011. Musiche: Sofia Gubaidulina. Scene: Giuseppe Pirrotta.
Alan è un ex agente assicurativo e grafico mancato che è stato lasciato dalla moglie, vive in uno scantinato dormendo su un materasso e sfoga la propria rabbia contro un sacco da boxe o attraverso disegni in cui l’unico colore è il rosso sangue. L’ex moglie Giulia se ne è andata dopo sette anni di incomprensioni e di soprusi, e non vuole più avere niente a che fare con lui. Ma Alan non si rassegna e la tempesta di telefonate e messaggi via Internet, appostandosi sotto casa sua e cercando di ristabilire con lei una relazione. Ines è la procacciatrice multilevel di una ditta di energie rinnovabili capitanata da un coach che è un incrocio fra un guru New Age e un padrone delle ferriere (ed è anche l’ex capo di Alan). Ines vive sola, ha un’unica amica, Mina, e non riesce ad avere rapporti soddisfacenti con gli uomini, men che meno con l’insistente collega Adriano. Le strade di Alan e Ines sono destinate ad incrociarsi, perché i due hanno molto in comune: la solitudine, i problemi relazionali, la dipendenza da un regime aziendale improntato allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (e sottoposto a continue riunioni motivazionali con tanto di “prove” come la camminata sui carboni ardenti), l’attrazione verso i siti di incontri in Rete.
Andrea è un adolescente innamorato della poesia e della madre, giovane e gioiosa che vede spegnersi lentamente a causa del cancro. Ma prima di sua madre è il padre a congedarsi, stroncato da un ictus e dal male senza guarigione della sua compagna. Rimasto solo con le sue parole e l’ingestibile lutto materno, Andrea smette di ‘funzionare’ e interrompe ogni azione, ogni volontà di vita. Un incidente domestico ‘deflagra’ però la sua esistenza, costringendolo a lasciare il letto e a scivolare di nuovo sul suo skateboard e dentro la vita. Ottenuto un posto in un patronato scolastico con il suo talento e l’intervento del suo professore d’italiano, Andrea si trasferisce a Milano, dove medita il suicidio, perseguendolo con metodo, disciplina, psicofarmaci, cocaina e sesso bulimico. Ma diversamente dal suo ispiratore, il poeta austriaco Georg Trakl, Andrea non ha ancora finito con la vita.
Freddie Quell è un soldato uscito dalla Seconda Guerra Mondiale con il sistema nervoso a pezzi. A poco servono le cure che l’esercito gli offre, se non a rendere esplicita un’ossessione per il sesso. A ciò si aggiunge un forte interesse per l’alcol che si traduce in misture che lui stesso si prepara e che offre agli altri con esiti non sempre positivi. Finché un giorno, in modo del tutto casuale, Freddie incontra Lancaster Dodd. Costui ha inventato un metodo di introspezione che sperimenta sul disturbato Marine, il quale sembra trarne giovamento. Da quel momento ha inizio un sodalizio che li vedrà percorrere insieme un lungo tratto di strada. Anche se il loro viaggio finirà con l’offrire loro esiti assolutamente diversi. Il film che è stato forse il più atteso alla 69^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia si rivela perfettamente in linea con l’autorialità di un regista che ha sempre cercato di scrutare il lato oscuro della psiche e dei comportamenti umani senza alcuna intenzione di scandalizzare ma con il desiderio di fare molto di più: cercare cioè di comprenderne le ragioni. Potremmo dire che queste si traducono nel suo cinema con un solo termine: solitudine. Soli, profondamente soli erano i protagonisti di Magnolia nel loro tentativo di sfuggire alle piaghe che spesso si erano inferti da soli. Solo era Il petroliere, bruciato dalle fiamme dei pozzi in cui scorre l’oro nero delle coscienze asservite al Dio Denaro. Soli sono Freddie e Lancaster. Il primo alla ricerca di donne di sabbia che plachino la sua sete sessuale ma anche inconsciamente desideroso di incanalare la propria violenza in forme socialmente accettabili. Il secondo, dotato di un potere di fascinazione su uomini e donne bisognosi di ‘credere’ a vite passate e pronti ad immergersi in dinamiche ipnotiche che li facciano sfuggire a un presente difficile da controllare. Il tutto, da una parte e dall’altra, in un dominio in cui la razionalità non possa infiltrarsi; pena il crollo del castello di illusioni. L’ispirazione a Hubbard, il fondatore di Dianetics, è esplicita ed innegabile ma Paul Thomas Anderson è abilissimo, ancora una volta, nello spiazzare lo spettatore. Chi si aspettava un pamphlet cinematografico sulla capacità di irretire e depredare economicamente gli adepti alla setta, non lasciando loro quasi nessuno spiraglio di fuga, si trova di fronte a tutt’altro. Freddie e Lancaster sono due uomini (perfetta la scelta di Phoenix e Hoffman) che si confrontano mettendo in gioco tutti i loro comportamenti devianti. La differenza tra di loro sta nel modo in cui riescono a gestirli. Alla fine del film si ripensa allo spazio angusto in cui i due si erano incontrati la prima volta mettendolo a confronto con quello in cui finiscono con il ritrovarsi uniti e al contempo divisi più che mai e ci si accorge che in quelle due location si sintetizza il senso di un’opera che sa andare oltre la contingenza della setta miliardaria. L’ultima inquadratura poi riapre il film e chiude l’analisi di una psiche.
Romanziere americano giunto a Roma per presentare il suo best seller, è coinvolto in una serie di delitti che un maniaco esegue ispirandosi al suo romanzo. Se esistesse l’Oscar della macelleria, questo 8° film di D. Argento se lo aggiudicherebbe facilmente. Si lavora con rasoio e scure. “Il parallelismo metalinguistico fa perciò nascere l’ipotesi metaforica secondo la quale, come lo scrittore di Tenebre, anche Argento si consideri in realtà subliminalmente l’unico, autentico assassino dei suoi film” (R. Pugliese).
Duca di York e secondogenito di re Giorgio V, Bertie è afflitto dall’infanzia da una grave forma di balbuzie che gli aliena la considerazione del padre, il favore della corte e l’affetto del popolo inglese. Figlio di un padre anaffettivo e padre affettuoso di Elisabetta (futura Elisabetta II) e Margaret, Bertie è costretto suo malgrado a parlare in pubblico e dentro i microfoni della radio, medium di successo degli anni Trenta. Sostituito il corpo con la viva voce, il Duca di York deve rieducare la balbuzie, buttare fuori le parole e trovare una voce. Lo soccorrono la devozione di Lady Lyon, sua premurosa consorte, e le tecniche poco convenzionali di Lionel Logue, logopedista di origine australiana. Tra spasmi, rilassamenti muscolari, tempi di uscita e articolazioni più o meno perfette, Bertie scalzerà il fratello “regneggiante”, salirà al trono col nome di Giorgio VI e troverà la corretta fonazione dentro il suo discorso più bello. Quello che ispirerà la sua nazione guidandola contro la Germania nazista. Dopo aver raccontato la storia della Rivoluzione americana in nove ore, dentro una mini-serie e attraverso gli occhi del secondo presidente degli States (John Adams), Tom Hooper volge lo sguardo verso il vecchio continente, colto in tribolazione e alla vigilia del Secondo Conflitto Mondiale. Al centro del palcoscenico la cronaca del malinconico e addolorato Duca di York, figlio secondogenito dell’energico Giorgio V, inchiodato dalla balbuzie e da una complessata inferiorità di fronte allo spigliato fratello maggiore David. Crogiolo d’angoscia (im)medicabile e di squilibri emotivi sono quelle esitazioni, quei prolungamenti di suoni, quei continui blocchi silenti che impediscono a Bertie di esprimersi adeguatamente, ingenerando una sensazione di impotenza. Il regista britannico si concentra sul vissuto interno del protagonista, rivelando le conseguenze emotive del disagio nel parlato ai tempi della radio e in assenza del visivo. Il discorso del re non si limita però a drammatizzare la stagione di vita più rilevante del nobile York e relaziona un profilo biografico di verità con un contesto storico drammatico e dentro l’Europa dei totalitarismi, prossima alle intemperanze strumentali e propagandistiche di Adolf Hitler. Non sfugge al re sensibile di Colin Firth e alla regia colta di Hooper l’abile oratoria del Führer, che intuì precocemente le strategie di negoziazione tra ascoltatore e (s)oggetto sonoro, il primo impegnato nel tentativo di ricostruire l’immagine della voce priva di corpo, il secondo istituendo un rapporto di credibilità se non addirittura di fede con la voce dall’altoparlante. Se il mondo precipitava nell’abisso non era tempo di guardare al mondo con paura, soprattutto per un sovrano. Bertie, incoronato Giorgio VI, doveva ricucire dentro di sé il filo interrotto della relazione con l’altro, affrontando il suo popolo dietro al microfono e l’immaginario radiofonico. Fu un illuminato e poco allineato logopedista australiano a correggere il “mal di voce” di un re che voleva imporsi al silenzio. Lionel Logue sostituì col metodo il protocollo di corte, educando la balbuzie del suo blasonato allievo e incoraggiandolo a costruire la propria autostima, a riprendere il controllo della propria vita e a vincere prima la guerra con le parole e poi quella con le potenze dell’Asse. A guadagnare la fluenza e a prendersi la parola è il ‘regale’ protagonista di Colin Firth, impeccabile nell’articolare legato, solenne nella riproposta plastico-fisica del suo sovrano e appropriato nell’interpretazione di un re che ‘ingessa’ emozioni e corporeità nel rispetto rigoroso della disciplina. Dietro al ‘re’ c’è l’incanto eccentrico di Geoffrey Rush, portatore di una “luccicanza” che brilla, rivelando la bellezza della musica (Shine) o quella di un uomo finalmente libero dalla paura di comunicare. Lunga vita al re (e al suo garbato precettore dell’eloquio).
Ki-woo vive in un modesto appartamento sotto il livello della strada. La presenza dei genitori, Ki-taek e Chung-sook, e della sorella Ki-jung rende le condizioni abitative difficoltose, ma l’affetto familiare li unisce nonostante tutto. Insieme si prodigano in lavoretti umili per sbarcare il lunario, senza una vera e propria strategia ma sempre con orgoglio e una punta di furbizia. La svolta arriva con un amico di Ki-woo, che offre al ragazzo l’opportunità di sostituirlo come insegnante d’inglese per la figlia di una famiglia ricca: il lavoro è ben pagato, e la villa del signor Park, dirigente di un’azienda informatica, è un capolavoro architettonico. Ki-woo ne è talmente entusiasta che, parlando con la signora Park dei disegni del figlio più piccolo, intravede un’opportunità da cogliere al volo, creando un’identità segreta per la sorella Ki-jung come insegnante di educazione artistica e insinuandosi ancor più in profondità nella vita degli ignari sconosciuti.
L’infanzia difficile, i travagli dell’adolescenza, la complessità dell’età adulta: narrazione in 3 atti del percorso esistenziale di Chiron, ragazzo nero cresciuto a Miami, e della sua convivenza con una omosessualità problematica, soprattutto nei confronti del coetaneo Kevin, in contrasto sia con sé stesso sia con il mondo che lo circonda. Jenkins ha il merito di riuscire a trattare il tema della diversità evitando luoghi comuni e banali scorciatoie. Il rapporto tra i 2 protagonisti è denso di sovrastrutture e bipolarità affettive, costringe lo spettatore a cambiare continuamente prospettiva, e mantiene una neutralità di campo che si rivela essere la sua vera forza. Abile nel servire la causa senza moralizzare, gioca su efficaci inquadrature e riuscite letture tra le righe. Quello che si intuisce è più efficace di quanto viene mostrato. 3 Oscar, miglior film, miglior attore non protagonista e miglior sceneggiatura non originale e 1 Golden Globe.
New York City, 1962. Tony Vallelonga, detto Tony Lip, fa il buttafuori al Copacabana, ma il locale deve chiudere per due mesi a causa dei lavori di ristrutturazione. Tony ha moglie e due figli, e deve trovare il modo di sbarcare il lunario per quei due mesi. L’occasione buona si presenta nella forma del dottor Donald Shirley, un musicista che sta per partire per un tour di concerti con il suo trio attraverso gli Stati del Sud, dall’Iowa al Mississipi. Peccato che Shirley sia afroamericano, in un’epoca in cui la pelle nera non era benvenuta, soprattutto nel Sud degli Stati Uniti. E che Tony, italoamericano cresciuto con l’idea che i neri siano animali, abbia sviluppato verso di loro una buona dose di razzismo.
Un film di Alejandro González Iñárritu. Con Michael Keaton, Zach Galifianakis, Edward Norton, Andrea Riseborough, Amy Ryan. Commedia, Ratings: Kids+13, durata 119 min. – USA 2014. – 20th Century Fox uscita giovedì 5febbraio 2015. MYMONETRO Birdman valutazione media: 3,70 su 167 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Riggan Thompson è una star che ha raggiunto il successo planetario nel ruolo di Birdman, supereroe alato e mascherato. Ma la celebrità non gli basta, Riggan vuole dimostrare di essere anche un bravo attore. Decide allora di lanciarsi in una folle impresa: scrivere l’adattamento del racconto di Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, e dirigerlo e interpretarlo in uno storico teatro di Broadway. Nell’impresa vengono coinvolti la figlia ribelle Sam, appena uscita dal centro di disintossicazione, l’amante Laura, l’amico produttore Jake, un’attrice il cui sogno di bambina era calcare il palcoscenico a Broadway, un attore di grande talento ma di pessimo carattere. Riuscirà Riggan a portare a termine la sua donchisciottesca avventura? Dopo il tuffo negli abissi della disperazione di Biutiful, capolavoro poco apprezzato dal grande pubblico, il regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu si cimenta con la commedia, benché agrodolce e in alcuni tratti quasi nera. Temi principali sono l’ego, in particolare quello maschile, e l’incapacità di distinguere l’amore degli altri dalla loro approvazione. Chi meglio di un attore molto amato ma poco apprezzato per rappresentarlo? Inarritu scandaglia l’animo di Riggan usando la cinepresa come mai aveva fatto prima, ovvero cimentandosi in una serie praticamente infinita di piani sequenza all’interno dei quali gli attori recitano senza inerruzioni come su un palcoscenico teatrale, entrando e uscendo continuamente dal teatro in cui si svolge prevalentemente l’azione alla strada, e dentro e fuori i camerrini, i corridoi, il backstage del teatro stesso. In un gioco continuo di immagini rifratte attraverso specchi e spiragli. Il paragone con Robert Altman è inevitabile: i piani sequenza (come quello iniziale de I protagonisti), l’adattamento da Carver (come in America Oggi), la messa in ridicolo corale del mondo dello spettacolo (Nashville, I protagonisti, Radio America). Come è altmaniana la visione da insider della Hollywood contemporanea, in particolare quella dei franchise dedicati ai supereroi, “pornografia apocalittica” responsabile dell’infantilizzazione irreversibile del pubblico. Birdman è anche un capolavoro di metacinema: il protagonista è quel Michael Keaton che deve la sua celebrità all’interpretazione di Batman (ma che è anche un grande attore, come dimostra appieno nel film di Inarritu); è più volte citato The Avengers, il film cui Edward Norton, che in Birdman ha il ruolo del prim’attore, ha rifiutato di partecipare nei panni di Hulk, dopo aver litigato con la produzione del film sul gigante verde. E c’è una scena in cui Inarritu fa ciò che Hollywood vorrebbe da ogni regista, dopo aver fatto per tutto il resto del film ciò che Hollywood detesta (tranne la notte degli Oscar): infiniti virtuosismi registici, dialoghi interminabili, mancanza di un eroe immediatamente identificabile. Birdman è apparentemente privo di montaggio (o meglio: il montaggio è molto attento a “non interrompere un’emozione”) il cui ritmo è dato da una pianificazione meticolosa, una inarrestabile agilità nei movimenti di macchina, una recitazione rocambolesca, un incalzante rullo di batteria che accompagna tutte le azioni che coinvolgono Riggan. Ed è un esperimento in linguaggio cinematografico coraggioso e spaccone, reboante e ridondante, eccessivo ma funzionale alla storia che narra. Inarritu racconta l’uomo (e in particolare il maschio) nella sua fragilità e contraddizione, nei suoi sogni di gloria e le sue delusioni di vita. Racconta la presunzione, ma anche la vulnerabilità, di ogni artista, o anche di chi crede di esserlo ed è costretto a confrontarsi con l’evidenza contraria. Attraverso lo sguardo di Riggan, il regista commenta su tutta la società contemporanea, sul “genocidio culturale” in corso e sulla prevalenza fagocitante dei social media, creatori di una nuova forma di ambizione, quella di diventare virale, e una nuova forma di delusione, quella di credere che milioni di contatti equivalgano ad un singolo attestato di stima. Il risultato è un film magmatico (e in questo senso perfettamente “almaniano”) che è un piacere per gli spettatori, gioiosamente ridondante e tracimante vita ed ambizione. Nella sua bulimia creativa Inarritu inanella troppi finali, ma è difficile biasmiarlo per la volontà di dire troppo invece che tutto, ricordando che chi rischia cammina sempre sull’orlo dell’abisso.
Nel misterioso Perù, una famiglia di orsi coltiva da decenni il mito dell’Inghilterra, paese ospitale e di ottimi gusti, come testimoniato dalla visita dell’esploratore Montgomery e dalla sua marmellata di arance. Così, quando giunge l’ora, il piccolo orso s’imbarca, con un cappello in testa e un cartellino che chiede gentilmente che ci si prenda cura di lui. Lo trovano alla piovosa stazione londinese di Paddington, tutto solo sotto l’insegna degli oggetti smarriti, i signori Brown e i loro figli Jonathan e Judy. Con loro, Paddington trova un nome, una casa e una famiglia, ma saranno soprattutto i Br own a scoprire di aver bisogno di Paddington almeno quanto lui ha bisogno di loro. Arriva per Natale, festeggiando la ricorrenza della sua nascita letteraria, il film tratto dalle storie di Michael Bond, un regalo più che gradito, destinato, nel suo genere, a diventare un classico. Benché a produrre sia David Heyman – lo stesso di Harry Potter – non c’è traccia di incantesimi tra i trucchi del film, eppure la formula della composizione è a suo modo magica, specie nella naturalezza con cui fonde passato cinematografico e presente, dando luogo ad una sintesi orignale, intrisa del meglio del genere.
Nel 1979, in seguito alla fuga negli Stati Uniti dello Scià iraniano Mohammad Reza Pahlavi durante la rivoluzione, l’ambasciata americana di Teheran fu presa d’assalto dai rivoluzionari e i suoi impiegati sequestrati per più di 400 giorni. Sei cittadini statunitensi riuscirono a fuggire di nascosto e trovare rifugio nella residenza dell’ambasciatore canadese, il quale, a proprio rischio e pericolo, concesse clandestinamente ospitalità e supporto. Per riportare in patria i propri connazionali la CIA organizzò una missione di esfiltrazione particolarmente audace, ideata dall’esperto del campo Tony Mendez e coadiuvata da una vera produzione hollywoodiana. Basandosi su una sceneggiatura realmente acquistata dal sindacato sceneggiatori fu data l’illusione a tutti (soprattutto alla stampa, in modo che si producessero articoli in materia) che c’era l’intenzione di girare un film di fantascienza in Iran, così da poter ottenere dal Ministero della cultura iraniano il permesso di entrare ed uscire dal paese e, nel fare questo, poter portare via i sei ospiti dell’ambasciatore canadese spacciandoli per maestranze del film. Il titolo del finto film in questione era Argo.
Greg è un aspirante attore, ancora incapace di lasciarsi andare, che rimane affascinato, durante una lezione, dalla libertà d’espressione e dalla carica emotiva di uno strano tizio di nome Tommy Wiseau. Greg diventa così il primo amico che Tommy abbia mai avuto e i due partono per cercare fortuna verso Los Angeles. Ma la fortuna è merce rara, e il sogno di fare cinema brucia dentro di loro, al punto che i due partoriscono l’idea folle di The Room: un film scritto diretto interpretato e prodotto da Tommy, passato alla cronaca come il film più brutto della storia del cinema.
Prima di vedere questo film consiglio di guardare “The Room“
1940. Durante la Seconda guerra sino-giapponese, il tenente Kadokawa è riportato a casa mutilato, sordomuto e ustionato in volto. La moglie Shigeko dovrà imparare a convivere con quel che resta di un eroe. Dal romanzo (1929) di Edogawa – Imomushi , in giapponese Il bruco – è una intensa e tremenda riflessione sull’insuccesso della politica marziale imperialista nipponica della prima metà del secolo scorso. Il protagonista, Tadashi, congedato con tanto di medaglie al valore e riconoscimenti sui giornali, dichiarato “Dio della guerra”, è un torso d’uomo cui mostrare riverenza al solo passaggio. Shigeko è lasciata da sola a confrontarsi con l’orrore della guerra e di un marito distrutto nel corpo e nell’anima. Ma la realtà che affiora è ben diversa: lei è l’unica a conoscerlo da prima della guerra, la sola ad aver subito le sue violenze domestiche e il suo machismo patriarcale e sfoga finalmente su di lui i suoi impulsi vendicativi. La Terajima premiata alla Berlinale come miglior attrice.
25/11 Il giorno dell’autodeterminazione – Mishima e i giovani-11・25自決の日 三島由紀夫と若者たち (11.25 Jiketsu no Hi: Mishima Yukio to Wakamonotachi) è un film del 2012 diretto da Kōji Wakamatsu. Il film ha partecipato alla sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2012
Gli ultimi anni di vita di Yukio Mishima (Arata Iura), figura chiave della cultura giapponese del Novecento, dalla fondazione del gruppo paramilitare Tatenokai (Associazione degli Scudi) nel 1968 al suicidio rituale compiuto nel Ministero della Difesa giapponese il 25 novembre 1970.
Nel 1975 dopo il successo di nicchia di El Topo e quello più clamoroso (specie in Europa) di La montagna sacra Alejandro Jodorowsky era il cineasta intellettuale più ricercato del mondo, aveva carta bianca e quello che voleva era realizzare il film più importante della storia del cinema, traendo spunto dai romanzi di Frank Herbert. Il suo Dune, doveva essere un film rivoluzionario in grado di cambiare la mentalità delle giovani generazioni fornendo nuovi modelli di riferimento. Per fare questo il regista aveva coinvolto (e ottenuto!) la partecipazione di un team incredibile che comprendeva i designer H.R. Giger, Moebius e Chris Foss oltre all’esperto di effetti speciali Dan O’Bannon, le musiche dei Pink Floyd e attori come David Carradine, Mick Jagger, Salvador Dalì e Orson Welles. A preproduzione finita e storyboard completo però è mancato il completamento del finanziamento da Hollywood e il film non si è mai fatto. Almeno non nella maniera in cui Jodorowsky l’aveva immaginato.
Come ricorda il regista Nicolas Winding Refn, amico personale di Alejandro Jodorowsky intervistato per il documentario, è impossibile determinare quanto e come sarebbe cambiato il concetto di blockbuster se alla fine degli anni ’70, quando questo tipo di modalità produttiva stava emergendo, il punto di riferimento del cinema d’intrattenimento fosse diventato il Dune immaginato dal regista messicano invece del Guerre Stellari di George Lucas.
Per anni questo Dune mai girato è stato l’oggetto definitivo del desiderio cinefilo, assieme al noto librone contenente tutto il film scena per scena, illustrato da Moebius, con gli inserti di costumi e scenografie di Giger. Il manualone è la base dalla quale Jodorowsky rievoca oggi il suo film, raccontando per filo e per segno come sarebbe dovuto essere ma soprattutto rievocando l’incredibile storia di come sia partita e poi naufragata questa produzione, come abbia convinto quelle incredibili personalità a lavorare con lui e come li abbia stimolati per due anni a dare il meglio su un progetto che non si è mai fatto.
Il risultato è un documentario esilarante, in cui Frank Pavich, è molto bravo a scandire l’esuberanza dell’84enne Jodorowsky, alternandola con i bozzetti e le interviste agli altri interpreti dell’avventura, condendo i resoconti di come sarebbero state girate le scene con la visualizzazione (più o meno animata) dei disegni che furono fatti all’epoca.
Un lavoro di montaggio acuto e ritmato che mette il cineasta in seconda posizione per far emergere Jodorowsky, grandissimo interprete di se stesso e narratore dalla splendida capacità di trasmettere la passione e l’intensità di una ricerca totalmente folle, che procede per aneddoti tra l’improbabile e l’incredibile. Forse l’unica possibile maniera di analizzare a freddo come nasca l’arte.
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