L’attacco alla base americana di Pearl Harbor apre un nuovo fronte delle ostilità in Giappone. Desmond Doss, cresciuto sulle montagne della Virginia e in una famiglia vessata da un padre alcolizzato, decide di arruolarsi e di servire il suo Paese. Ma Desmond non è come gli altri. Cristiano avventista e obiettore di coscienza, il ragazzo rifiuta di impugnare il fucile e uccidere un uomo. Fosse anche nemico. In un mondo dilaniato dalla guerra, Desmond ha deciso di rimettere assieme i pezzi. Arruolato come soccorritore medico e spedito sull’isola di Okinawa combatterà contro l’esercito nipponico, contro il pregiudizio dei compagni e contro i fantasmi di dentro che urlano più forte nel clangore della battaglia.
Maggio, 1940. Sulla spiaggia di Dunkirk 400.000 soldati inglesi si ritrovano accerchiati dall’esercito tedesco. Colpiti da terra, da cielo e da mare, i britannici organizzano una rocambolesca operazione di ripiegamento. Il piano di evacuazione coinvolge anche le imbarcazioni civili, requisite per rimpatriare il contingente e continuare la guerra contro il Terzo Reich. L’impegno profuso dalle navi militari e dalle little ship assicura una “vittoria dentro la disfatta”. Vittoria capitale per l’avvenire e la promessa della futura liberazione del continente.
Duszejko è un’anziana signora che insegna l’inglese ai bambini di un villaggio situato al confine tra Polonia e Repubblica Ceca, nei Sudeti. Un giorno le sue due cagne, a cui è affezionatissima, scompaiono. Alcuni mesi dopo è lei a scoprire il cadavere di un vicino, un bracconiere. Le uniche tracce che conducono a questa morte misteriosa, che non sarà l’unica, sono quelle degli zoccoli di un capriolo.
Da due anni innamorati e amanti, Luna e Amar vivono a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina. Uscita da una famiglia laica di ex comunisti, Luna è una donna istintiva, energica e appassionata che, dopo diversi vani tentativi, si rassegna a una fecondazione assistita. Il croato Amar, ex soldato alcolista, perde il lavoro per un grave errore, ma è assunto come docente d’informatica in una comune sul lago di Jablanica, fondata da una setta di musulmani ortodossi salafiti. Quando Luna gli fa visita, lo trova profondamente cambiato: ha smesso di bere, ha risolto i problemi psichici di ex combattente, ma è diventato un fanatico dogmatico. Coprodotto, scritto e diretto dalla 81 bani&3 , è il suo 2° film dopo Il segreto di Esma (Orso d’oro 2006). Pur toccando molti temi etici e religiosi, politici e storici, ha il merito di incanalarli nei personaggi. Il cast degli interpreti è formato da bosniaci, croati, serbi e sloveni. Quasi tutti, compreso l’ottimo Lu&9 ev/Amar, lavorano anche in teatro e in TV, ma è la bella Cviteši&3 /Luna che dà al film l’anima e la luce. Na putu (in inglese On the Path ) vuol dire in bosniaco “essere in cammino verso una meta”, ma indica anche una donna incinta: il figlio è in cammino verso la nascita. Distribuito da Domenico Procacci (Fandango). Dovrebbe circolare nelle scuole medie superiori per far capire la natura e la complessità dell’Islam. Girato in digitale.
Mickey Haller (Matthew McConaughey) è un avvocato che difende i criminali di Los Angeles che lavora dai sedili posteriori della sua Lincoln sedan. Haller ha speso la maggior parte della sua carriera a difendere vari tipi di criminali fino a quando non trova il caso della sua vita: difendere Louis Roulet (Ryan Phillippe), un playboy di Beverly Hills accusato di stupro e tentato omicidio. Il caso inizialmente semplice pian piano si trasforma in un gioco mortale da cui Haller deve cercare di sopravvivere. Inizialmente The Lincoln Lawyer doveva essere diretto ed interpretato da Tommy Lee Jones, ma a fine novembre del 2009 l’attore ha lasciato la produzione per divergenze creative.
Quando una donna anziana viene filmata come parte di uno studio sull’Alzheimer, lei a poco a poco inizia a mostrare comportamenti violenti, che sfociano nel paranormale.
Nella fittizia Nagashima (misto di Nagasaki e Hiroshima) tutto scorre tranquillo fino al giorno in cui un terremoto e il conseguente tsunami gettano scompiglio, danneggiando irreparabilmente una centrale nucleare. La vita della famiglia Ono non potrà più essere la stessa e porterà il patriarca Yasuhiko a farsi carico di scelte dolorose. Come Noriko’s Dinner Table era figlio bastardo di Suicide Club, prosecuzione di un assunto contenutistico totalmente divergente per punto di vista e conclusioni, così The Land of Hope riparte da Himizu e dal disastro di Fukushima per andare molto oltre. Dove Himizu faceva suo il disastro, proiettandolo sui mali di un Giappone dilaniato negli animi ma sostanzialmente aderendo allo stilema abituale di Sono Sion, The Land of Hope adotta un registro insolitamente elegiaco: lo stile eversivo dell’autore è lasciato da parte, in favore di un sentito omaggio alla tradizione nipponica.
Due estranei, senza punti in comune tra loro, si confrontano drammaticamente. Il Bianco (Tommy Lee Jones) e il Nero (Samuel L. Jackson) sono senza nome, distinti solo dal colore della pelle. Sono chiusi in casa e discutono, si scontrano sul significato delle sofferenze umane e sull’esistenza di Dio. “Sunset Limited” è il treno della metropolitana di New York: il professore universitario Tommy Lee Jones aspettava sui binari di venirne investito, quando le grosse mani nere dell’ex carcerato Samuel L. Jackson lo avevano afferrato e strappato a morte sicura. Ma tutto ciò è solamente il prologo, non rappresentato, del nuovo film diretto e interpretato da Jones, prodotto dalla pay-tv americana HBO. Il film-tv, tratto dal testo del Premio Pulizer Cormac McCarthy (autore anche dei romanzi che hanno generato i film The Road e Non è un paese per vecchi), è un flusso inarrestabile e avvincente di dialogo tra i due personaggi e si svolge interamente all’interno di una cucina, intorno a un tavolo, dove siedono il Bianco e il Nero. Al centro del tavolo, una vecchia Bibbia che accende la fede dell’evangelista Jackson (l’ex detenuto esalta la vita e afferma di aver ascoltato la voce di Dio). Ma il Bianco resiste, opponendo la deriva della sua delusione e della sua depressione di uomo di cultura che non crede più in nulla. Spirituale, emotivo, profondamente religioso, il Nero; irriducibile picconatore di qualsiasi ragion di vivere, il Bianco. Entrambi sostengono con passionale vigore le loro convinzioni nel tentativo di una reciproca conversione, dando vita a un duello filosofico-esistenziale senza esclusione di colpi dialettici.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Nel 2014 è uscito X-Men – Giorni di un futuro passato, sequel di X-Men – Conflitto finale; vede il ritorno del cast originale accanto agli attori della tetralogia prequel, e di Singer alla regia. Il 18 maggio 2016 e il 27 maggio dello stesso anno, è uscito rispettivamente in America e in Italia X-Men – Apocalisse. Nel 2017 è uscito Logan – The Wolverine, la cui trama si svolge nel futuro di un universo alternativo, e nel 2019 X-Men – Dark Phoenix.
Al suo ultimo giorno di scuola, Yuko, insegnante di una scuola media, offre ai suoi allievi del latte e inizia la sua confessione: 2 dei ragazzini sono secondo lei responsabili della morte della sua adorata figlioletta di 4 anni e lei sta mettendo in atto la sua vendetta, ha infatti iniettato nel loro latte il sangue del suo compagno, padre della bimba, morto di Aids. Questo avvio – che dura sui 30′ – è la premessa, lineare e agghiacciante, di un film che poi s’ingarbuglia nei flashback e nelle spiegazioni che ricostruiscono i fatti. Dal romanzo omonimo di Kanae Minato, un’analisi feroce del mondo degli adolescenti, un atto d’accusa nudo e crudo contro i genitori incapaci di fare i genitori e una desolante e tremenda affermazione dell’impossibilità di comunicazione tra le due generazioni. Buona colonna sonora, interpreti adeguati. Uscito in Italia con 3 anni di ritardo. VM 14.
Jack Holcombe è un detective della polizia dell’Alaska in procinto di ritirarsi dal servizio. Gli viene affidato un caso estremamente complesso. C’è un serial killer che attira giovani donne, le incatena, le violenta e poi le uccide. Jack sospetta di una persona apparentemente tranquilla: Robert Hansen. Occorrono però prove schiaccianti contro di lui e potrebbero arrivare dalla testimonianza di Cyndy Paulsen che è riuscita a scappare prima di essere uccisa. Cyndy però è una ragazza complicata e indurla a testimoniare non è facile. Ispirato a delitti realmente accaduti questo film torna a mettere l’uno di fronte all’altro Nicholas Cage e John Cusack che non si incontravano dai tempi di Con Air. Questa volta il confronto è a distanza con l’eccezione dell’ultima parte del film e la bilancia pende a favore di un maggiore spazio offerto alla psicologia del detective (Cage) rispetto a quella del killer (Cusack). Se infatti di Jack comprendiamo le motivazioni (spora a tutte un senso di protezione paterna) che lo spingono a cercare di risolvere il caso, Robert viene soprattutto mostrato in azione e i motivi (se così si possono chiamare) per cui uccide vengono più detti degli altri che non fatti emergere dalla sua presenza sulla scena. In realtà però il film (che ripercorre luoghi ormai più che comuni del genere) ha il pregio di centrare l’attenzione sulla fragilità di Cyndy Paulsen interpretata con grande adesione da Vanessa Hudgens. Non è facile rendere le variazioni di umore, le paure, le insofferenze, le ricadute di una ragazzina finita nel giro della prostituzione soprattutto quando la vera Cyndy è tuttora vivente. In proposito va segnalata una nota stonata nei titoli di coda. Le immagini che vi appaiono (che si spera siano state autorizzate) contrastano con la musica che le accompagna. Quello che avrebbe dovuto essere un omaggio si trasforma in un macabro elenco.
Russel Baze è un uomo tutto d’un pezzo, lavora onestamente in un’acciaieria, ama la fidanzata Lena ed è legatissimo ai suoi famigliari: il padre malato terminale, lo zio Red e soprattutto il fratello minore Rodney che, al contrario di Russell, è un’anima persa, un eterno disoccupato reduce dall’Iraq e animato da un desiderio di morte che lo porta a cercare continuamente lo scontro, a cominciare dai match clandestini di boxe a mani nude che combatte per raggranellare un po’ di denaro. I due fratelli sono chiamati ad un destino che appare segnato fin dalle prime scene, anche perché Out of the Furnace è una storia interamente character driven, cioè pilotata dalle caratteristiche psicologiche fondanti dei suoi personaggi. E i destini dei fratelli Baze si riveleranno strettamente legati l’uno all’altro. Out of the Furnace è un film di intensa atmosfera, creata attraverso un uso sapiente delle luci, della fotografia livida, delle ambientazioni desolate in una cittadina industriale di quelle che toglierebbero a chiunque la poesia (e proprio per questo hanno una loro poesia disperata). Le musiche, malinconiche e dilatate, rimandano al western, un genere con il quale il regista Scott Cooper si è più volte cimentato come attore (Get Low, Broken Trail) e al quale aveva in qualche modo fatto riferimento anche nel suo debutto alla regia, Crazy Heart. È onnipresente un sottotesto religioso che identifica in Russell un Cristo contemporaneo destinato ad addossarsi le colpe del mondo: quantomeno di quel mondo violento e spietato, tutto declinato al maschile, che vive di sopraffazioni e combattimenti, e che ha un disperato bisogno di redenzione. Chi più indicato di Russell, uomo profondamente onesto e puro, per portare questa croce? Infatti la sua vicenda si snoda come una inevitabile via crucis con tutte le stazioni allineate, e ogni personaggio è uno strumento della sua missione. Nella visione nichilista di una certa cultura, Out of the Furnace rimanda a Non è un paese per vecchi, senza però la radicalità ideologica dei fratelliCoen, e con una tensione spirituale che alla vicenda dei Coen (per scelta) mancava. Anche la confezione estetica, davvero ammirevole per struggente e malinconica bellezza, rimanda a molto cinema indipendente che l’ha preceduto. Il risultato è un film ben riuscito, anche grazie alla recitazione limpida e tesa degli interpreti – Christian Bale e Casey Affleck nei panni di Russell e Rodney, e un parterre di caratteristi da antologia che comprende Woody Harrelson, Willem Dafoe, Sam Shepard e Forrest Whitaker – ma non si distingue per originalità né della narrazione né della messinscena. Il film cui Out of the Furnace fa più evidente riferimento è Il cacciatore di Michael Cimino (citato esplicitamente in una scena), soprattutto nella dinamica fondamentale fra i due fratelli, molto simile a quella fra i ruoli interpretati nel ’78 da Robert De Niro e Christopher Walken. E a dispetto del titolo (che significa “fuori dalla fornace” e fa riferimento all’acciaieria, cuore pulsante della cittadina e strumento di sopravvivenza per l’intera comunità), racconta i suoi personaggi, nessuno escluso, come immersi in un inferno incandescente dal quale è difficile uscire vivi.
Il remake del thriller tedesco interpretato da Tom Schilling che racconta di un giovane uomo che viene risucchiato nel mondo degli hacker da un gruppo simile a Anonymous. La pellicola inizia con il protagonista che racconta la sua storia a un investigatore dell’Europol dopo una serie di crimini perpetrati dai suoi compagni che hanno fatto arrabbiare la mafia russa ed hanno portato alla morte di tre hacker in una stanza d’albergo.
Jesse è una sedicenne che dalla Georgia raggiunge Los Angeles per tentare la carriera di modella. La sua bellezza e la sua innocenza si fanno immediatamente notare suscitando l’attenzione di colleghe ben più navigate (Gigi e Sarah) le quali si avvalgono di Ruby, una truccatrice che le si presenta come amica, per attrarla in un gioco che per lei si farà sempre più pericoloso. Capita a volte che dinanzi a registi che tornano periodicamente ad affrontare i temi che stanno loro più a cuore ci si trovi a chiedersi se non sarebbe giunto per loro il momento di cambiare registro. Questo non è sicuramente un rimprovero che si possa rivolgere a NWR (come ora ama presentarsi sullo schermo il regista con una grafica che ricorda quella di Yves Saint Laurent). Refn è colui che si era costruito una fama come narratore di storie dure e violente che avevano come protagonisti uomini la cui esistenza veniva portata a confrontarsi con un mondo in cui la redenzione totale era impossibile. Lo troviamo ora intento a sperimentare la strada dell’horror cercando, come afferma, di girare un “horror senza horror”. Così come dichiara di essere sempre stato attratto dall’idea di fare un film sulla bellezza. Il problema nasce dal fatto che ora quel film lo ha girato ma ne è stato così ammaliato dal finire (novello Narciso) con l’annegarci dentro. Perché l’estetica da video installazione che ne permea quasi ogni inquadratura a partire dalla prima gli impedisce di accorgersi che sta solo assemblando modalità di sguardo che altri in precedenza avevano elaborato con ben altro spessore e profondità. Tanto per non fare nomi è sufficiente citare Brian De Palmae David Lynch come tracce visive ricorrenti. Ciò che però maggiormente infastidisce non è tanto la ricerca di un estetismo e di simbolismi spesso fini a se stessi quanto piuttosto la misoginia che sottende l’intero evolversi della vicenda che (va sottolineato) Refn ha girato in ordine cronologico, concedendosi quindi la possibilità di apportare quotidiane variazioni alla sceneggiatura. In questo sta la possibilità di salvezza per Mary Laws e Polly Stenham che quella sceneggiatura l’hanno scritta con lui. Perché altrimenti resterebbe la domanda su come due donne abbiano potuto concepire una storia così profondamente innervata da una disaffezione così profonda nei confronti delle appartenenti al proprio sesso. Se gli uomini dei primi film non si vedevano concedere la possibilità di una redenzione, qui si è dinanzi a una negatività priva di qualsiasi complessità tanto che la strega di Biancaneve, che chiedeva allo specchio chi fosse la più bella del reame, farebbe, nei confronti di Ruby, Gigi e Sarah, la figura della dilettante sprovveduta. La stessa Jesse finisce con il farsi attrarre da un mondo che NWR descrive come demoniaco ma che gli ha offerto (si leggano in proposito i titoli di coda) la più ampia collaborazione. Misteri del marketing.
Il film segna un ritorno al genere horror del regista John McNaughton, 25 anni dopo la sua controversa opera prima, Henry pioggia di sangue. La storia è incentrata su due genitori (Michael Shannon e Samantha Morton) che vivono con il loro figlio malato (Charlie Tahan). Quando una giovane ragazza (Natasha Calis) si trasferisce nella casa accanto, dà al ragazzo la speranza di una vita migliore, con grande dispiacere della sua iperprotettiva madre. Le riprese si terranno a New York.
Ben e Chon sono due amici per la pelle che condividono tutto, dall’amore per la bella Ophelia – detta O – all’attività di coltivatori e spacciatori della miglior marijuana della California del Sud. È stato Chon, ex marine, a riportare i primi semi dall’Afghanistan, poi è venuto Ben, botanico e buddista, che ne ha fatto un prodotto sopraffino, buono per far dollari così come per alleviare il dolore dei malati terminali. La vita scorre dunque idilliaca per il fortunato trio e i loro amici, finché un brutale cartello di trafficanti messicani non decide di fare affari con loro, che lo vogliano o meno. Non c’è dubbio che una delle cose che riescono meglio a Oliver Stone sia il ritratto di uno o più personaggi che s’invischiano in qualcosa di più grande di loro: solo laddove c’è una frontiera che altri non valicherebbero, sconsigliata e inopportuna, i suoi film vibrano più di altri; il coraggio, che all’inizio può essere tanto provocazione quanto reale ardimento, si fa a quel punto materia di vita o di morte e il film diventa una strada da percorrere fino in fondo, piena di svolte imprevedibili e dissestata quanto basta per tenere alta l’adrenalina. Tutti ingredienti che non mancano certo a Le belve , ambientato a cavallo della frontiera delle frontiere, e che ne fanno uno spettacolo cinematografico assolutamente efficace, complice l’estetica acida che lo permea da cima a fondo e, pur con qualche eccesso di maniera, ben racconta il clima da paradiso perduto e da avventura folle e schizzata. C’è, però, anche un ma. Se da un lato, infatti, il regista insiste sul contrasto tra la leggerezza di una fazione e la ferocia dell’altra, tra il sole a picco sulla terrazza da sogno, da una parte, e il buio delle cantine delle torture, dall’altra, il titolo raccoglie sotto il suo ombrello sia gli uni che gli altri, il giudizio è programmaticamente bandito (perché in fondo siamo tutti dei dannati, chi più e chi meno, e il peggiore è probabilmente chi sta nel mezzo, come il personaggio di Travolta) e di questo passo il discorso di Stone finisce per farsi confuso e spesso ambiguo. Come ambiguo, al limite della truffa ai danni dello spettatore, è l’espediente del raddoppiamento finale, che accettiamo solo e soltanto perché le parole iniziali di Ophelia sono pensate per fungere da avvertimento. Come non accadeva nel suo cinema da un po’ di tempo a questa parte, inoltre, la violenza di Savages è massima, oltre che sfortunatamente plausibile, cosa che lo allontana dall’essere un prodotto per tutti i gusti ma lo riporta ad un cinema probabilmente più consono alle migliori potenzialità di Oliver Stone. Un cinema duro, di bravi interpreti, dentro ruoli di non comune sfaccettatura.
Un film di Neil Burger. Con Bradley Cooper, Robert De Niro, Abbie Cornish, Anna Friel, Andrew Howard.Thriller, durata 105 min. – USA 2011. – Eagle Pictures uscita venerdì 15aprile 2011. MYMONETRO Limitless valutazione media: 2,90 su 112 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Eddie Morra è uno scrittore in crisi depressiva, incapace di cominciare il primo romanzo che gli è stato commissionato. Per questa sua tendenza all’autocommiserazione e al boicottaggio autoindotto, la fidanzata decide di lasciarlo. Lo stesso giorno incontra per caso Vernon, il fratello della donna con cui è stato sposato per poco tempo molti anni prima. Per placare i suoi tormenti, Vernon, che è un ex-spacciatore, gli offre un farmaco in via di licenza in grado di aumentare le capacità dei recettori neuronali ed attivare tutte le aree del cervello. Il farmaco ha subito un effetto incredibile su Eddie, facendogli non solo recuperare l’autostima perduta ma anche tutti i ricordi più distanti e reconditi. Quando l’effetto svanisce, decide di tornare subito da Vernon per farsi dare altre pillole, ma una volta raggiunto il suo appartamento, trova l’ex-cognato morto sul divano, ucciso da qualcuno interessato allo stesso farmaco. Il cervello del cinema e quello del suo spettatore non funzionano in modo troppo dissimile. Oltre al fatto che molte delle tecniche utilizzate dai film (ad esempio, il primo piano e il flashback) appaiono come la visualizzazione diretta di alcuni processi mentali (l’attenzione e il ricordo), entrambi si dice siano capaci di sfruttare solo una piccola parte delle loro potenzialità. Cosa significa quindi sfruttare al massimo queste capacità, neuronali o estetiche che siano? Per il protagonista di Limitless significa diventare improvvisamente un genio poliglotta della letteratura e dell’alta finanza. Per il suo regista Neil Burger, significa invece poter utilizzare liberamente e senza vincoli tutti gli effetti più esaltanti e barocchi maturati dall’estetica del videoclip. Dopo aver lavorato con iridi ed effetti seppia per dare una patina da favola d’altri tempi agli illusionismi del mago Eisenheim nella Vienna di fine Ottocento (The Illusionist), stavolta Burger si serve di espedienti tecnici più all’avanguardia, attraverso un impiego ardente e ardito di fisheye, morphing e zoom. E proprio in quella infinita zoomata in avanti dei titoli di testa, con la quale attraversiamo tutta Manhattan come in una mise en abyme, possiamo leggere l’intera configurazione del film. Che altro non è se non una corsa frenetica fra vari generi, una dissolvenza continua fra molteplici suggestioni narrative, sovraccaricate dalle eccitazioni di una sostanza stupefacente. Ci sono davvero poche barriere non varcate in Limitless (la fantascienza, l’action movie, il thriller), così come molti sono i luoghi tipici dispiegati nell’arco del racconto (la cospirazione politica, la mafia russa, l’alta finanza, la dipendenza dalle droghe). Ognuno di questi input non è tanto finalizzato alla costruzione di una sceneggiatura rigorosa e complessa, quanto a introdurre nuovi stimoli per permettere al “cervello” della macchina da presa di Burger di perseguire un continuo esercizio di stile concitato e galvanizzante. Limitless è perciò, fin dal suo titolo, quasi un manifesto per l’estetica postmoderna, il trionfo di un cinema medio votato principalmente all’esaltazione dei sensi e all’immersione continuativa. E tuttavia, se il film funziona è proprio in virtù della sua “medietà” esibita. Nella storia di un mediocre scrittore che, grazie a una pillola sintetizzata da un ex-spacciatore, diventa un genio incredibilmente attivo e sagace, possiamo leggere anche il percorso creativo di un film con evidenti falle di sceneggiatura e ambiguità tematiche, che, attraverso un utilizzo brillante degli artifici visivi dell’avanguardia pop, risulta comunque capace di vitalizzare e stupire il suo spettatore, annullando la sua soglia di credenza e la percezione del passare del tempo.
Danimarca, estate 1945. La II guerra mondiale è finita, ma sulle spiagge della costa occidentale rimangono 2 milioni di mine sparse dai nazisti per impedire lo sbarco degli angloamericani. In violazione della Convenzione di Ginevra per i prigionieri militari, l’esercito danese affida lo sminamento a 2.000 soldati tedeschi, minorenni arruolati da Hitler nelle ultime settimane di guerra. Metà di loro muoiono o rimangono mutilati. Al suo 3° LM, il regista danese, che firma anche soggetto e sceneggiatura, ha imbastito con indubbia perizia un dramma storico che ha il merito di aver svelato un episodio ignoto dell’immediato dopoguerra. Incorpora un doppio insegnamento: 1) le guerre non finiscono con il cessate il fuoco; 2) la vendetta di chi ha subito un’aggressione può essere altrettanto inumana. La sua scrittura è a tratti convenzionale e per avvincere fa un uso disinvolto della suspense in attesa dello scoppio imminente e di inverosimiglianze che ne indeboliscono la credibilità.
Dopo la feroce repressione borbonica dei moti del 1828, 3 giovani del Cilento si affiliano alla mazziniana Giovine Italia. 4 episodi – “Salvatore 1828-32”, “Domenico 1852-55”, “Angelo 1856-58”, “L’alba della Nazione 1862-68” – corrispondono a momenti oscuri del Risorgimento, narrando 40 anni di vita dei 3 protagonisti e i loro drammi di rivoluzionari e cospiratori tra dignità morale e spirito di sacrificio, ansie ideali e disillusioni politiche, conflitti tra Nord e Sud, dalla Campania a Parigi, da Ginevra a Londra e ritorno. Scritto da Martone e Giancarlo De Cataldo, è un largo e ambizioso affresco sul Risorgimento visto dal di dentro. Incongrui e sottili (troppo) i riferimenti all’Italia del ‘900. La linea meridionalistica (Gramsci, Salvemini) e repubblicana è evidente. Ispirato al libro omonimo (1969) di Anna Banti è un’altra prova, quasi viscontiana, della sapiente congiunzione tra teatro e cinema sempre praticata dal napoletano Martone, palese anche nell’uso della musica di Verdi ( Macbeth , Attila , Otello ) e nel tema del tradimento – dai Savoia alla sinistra di Crispi – e in quello del settarismo utopistico e tormentato di Mazzini. In questa storia di una sconfitta storica, di classe e di speranza non manca la lezione di Rossellini su un cinema didattico ma realistico, che rievochi la storia per mostrare la strada da percorrere. Fotografia: Renato Berta. Scene: Emita Frigato. Costumi: Ursula Patzak. Premiato con un Nastro d’Argento a Martone.
Jojo ha dieci anni e un amico immaginario dispotico: Adolf Hitler. Nazista fanatico, col padre ‘al fronte’ a boicottare il regime e madre a casa ‘a fare quello che può’ contro il regime, è integrato nella gioventù hitleriana. Tra un’esercitazione e un lancio di granata, Jojo scopre che la madre nasconde in casa Elsa, una ragazzina ebrea che ama il disegno, le poesie di Rilke e il fidanzato partigiano. Nemici dichiarati, Elsa e Jojo sono costretti a convivere, lei per restare in vita, lui per proteggere sua madre che ama più di ogni altra cosa al mondo. Ma il ‘condizionamento’ del ragazzo svanirà progressivamente con l’amore e un’amicizia più forte dell’odio razziale.
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