3° episodio della saga, tratto dai libri di Lewis. Questa volta i nostri eroi entrano nel mondo fantastico attraverso un quadro, che rappresenta un veliero in un mare in tempesta, e si trascinano dietro il cugino Eustace, goffo e presuntuoso. La missione è seguire una stella blu e ritrovare 7 lord scomparsi per poter combattere le tenebre. Comparirà anche il principe Caspian. Tra mille avventure e disavventure, personaggi mitologici, draghi e mostri, quel che conta in questo capitolo è il cambiamento della dimensione del male: non più nemico tangibile, esterno, da affrontare con armi e strategie, ma un qualcosa di più astratto, il Male che è all’interno di ognuno di noi, il male/tentazione che può corrompere. Calvinista convertito alla fede anglicana durante la Grande Guerra, Lewis affronta nel 3° episodio, più che negli altri, il conflitto universale tra Bene e Male e Apted – passato alla regia al posto di Adamson – ne asseconda la spiritualità e i richiami freudiani, omerici e tolkieniani con robusto mestiere e con un uso spettacolare del 3D e degli effetti che tiene d’occhio anche il botteghino.
Fioravante e Murray, nonostante la differenza di età, sono amici per la pelle. Sono in precarie condizioni e Murray propone all’amico di fargli da manager per “il mestiere più vecchio del mondo”, con gli pseudonimi, rispettivamente, di Bongo e Virgil. Le clienti sono molto soddisfatte di lui, in particolare la dottoressa Parker con la sua amica Selima e la vedova Avigal che apre una breccia nel cuore di Fioravante. Scritta, diretta e interpretata da Turturro (alla sua quinta regia), da sempre affascinato dal concetto di prostituzione, non si limita a essere una commedia intelligente e spiritosa. È anche un film sulla solitudine e sulle relazioni (di amicizia e d’amore), un’analisi profonda sull’animo umano, una feroce critica alla comunità ebraica ortodossa, con una galleria di personaggi eterogenei – accomunati dal desiderio di entrare in contatto con gli altri – uno più riuscito dell’altro. E le relazioni mettono in movimento cambiamenti.
Tra il 2008 e il 2009 in Ungheria gruppi organizzati di ‘giustizieri’ hanno commesso atti di violenza contro romeni. 16 case sono state attaccate con bombe molotov, sono stati sparati 63 proiettili per un totale di 55 vittime tra cui 5 ferite gravemente e 6 uccise. I processi contro i sospettati sono tuttora in corso. Mari, romena, vive con il padre invalido in una baracca nei boschi alla periferia di una città. Lavora come tagliaerba per il municipio e come donna di servizio. La figlia più grande, Anna, cerca di studiare in un ambiente non accogliente mentre il preadolescente Rio vagabonda evitando la scuola. Tutti sono sotto la stretta osservazione di un gruppo xenofobo. È un film in cui la tensione si fa respiro, sguardi, dettagli quello di Bence Fliegauf. Un’opera che concede ben poco allo spettatore ma sa come costruire, con una lentezza densa di significazioni quasi palpabili, un clima di paura nei confronti di un Male che può colpire all’improvviso e senza neppure la necessità di una benché minima provocazione. Il regista ha ben chiara la giustificazione che il gruppo razzista ha interiorizzato: non ce l’abbiamo con i romeni. Ce l’abbiamo con gli zingari che rubano eccetera. Di fatto poi tutti i romeni vengono catalogati come zingari. La giovane Anna, attenta nei confronti dei più piccoli e anche disegnatrice creativa, a scuola diventa la studentessa a cui si fa presente che è avvenuto un furto di attrezzature indicandola in tal modo come sospetta. L’attesa della punizione per un reato non commesso pervade tutto il film offrendo non solo l’occasione per riflettere su come l’odio irrazionale riesca a penetrare aree pronte ad assorbirne le più pretestuose ragioni. Just the Wind fa di più perché ci mostra come nella galassia ex comunista le minime garanzie sociali (pagate con il caro prezzo della dittatura) siano state sostituite da democrazie di nome ma non di fatto in cui la vita dei singoli (soprattutto se appartenenti a minoranze da sempre emarginate) non gode più di alcuna tutela.
Teheran, 1988. Shideh vive in mezzo al caos della guerra Iran-Iraq. Accusata di sovversione e registrata nella lista nera dal collegio medico, si ritrova in uno stato di malessere e confusione. Mentre il marito è in guerra un missile colpisce il loro condominio e da quel momento una forza soprannaturale cercherà di possedere Dorsa, la loro giovane figlia.
Remake del film di Chan-wook Park (2003), liberamente tratto dal manga del giapponese Tsushiya Garon disegnato da Minegishi Nobuaki: 1993, odioso pubblicitario cialtrone, incline all’alcol, pessimo padre e marito, è rapito e rinchiuso in una stanza nella quale resta 20 anni. Nutrito e accudito. Unica compagnia, un televisore dal quale apprende che sua moglie è stata assassinata – unico accusato, lui – e la figlia di 3 anni adottata. Quando riesce a evadere (o così crede) si dedica a scoprire chi e perché gli ha fatto ciò e a vendicarsi. Tremendo finale. Teso thriller, intriso di melò con le fosche tinte di una tragedia greca: sceneggiato da Mark Protosevic, è più lineare e meno grottesco della versione coreana, violento e sanguinario, più realistico nel suo non realismo. Distribuito da Universal.
Preferibile la versione originale di Chan-wook Park ma buona anche questa
Sono passati otto anni da quando Cass, la bambina di Matthew e Tina Lane, è stata rapita. Da allora suo padre non ha mai smesso di cercarla. Schiacciato dal senso di colpa (di una distrazione fatale) e dal dolore della compagna, Matthew percorre ostinato le strade bianche di neve che hanno inghiottito la sua bambina. Mentre la polizia indaga, provando a infiltrarsi in una sofisticata rete di pedofili, e Tina perde la testa, sorvegliata (e provocata) dal mostro che le ha sottratto Cass, Matthew prosegue la sua personale indagine, infilando la strada battuta dall’orco. Dopo Il dolce domani, che riprendeva “Il pifferaio di Hamelin”, e dopo Il viaggio di Felicia, che rileggeva in chiave contemporanea “La Bella e la Bestia”, Atom Egoyan ci racconta un’altra favola nera sullo sperdimento esistenziale. Cass, Matthew, Tina, Jeffrey e Nicole, i due ispettori assegnati all’indagine, hanno perduto, ciascuno a suo modo, il proprio orizzonte di riferimento. Prigionieri del proprio passato e dentro un paesaggio congelato, hanno ancora una chance di sopravvivere, ritrovandosi e ritrovando Cass, rapita da un malvagio Sarastro. Perché Captives apre con Mozart e la sua ‘regina della notte’, il più alto e terribile momento de “Il Flauto magico”, in cui una madre canta il bene strappato. Rievocata e ripresa, l’aria mozartiana è il principio musicale (e ideale) del film, che allude alla cattiveria latente della madre, ottenebrata dal dolore, che rispecchia la realtà del mostro, la coazione a ripetere di un modello cerimoniale-sacrificale (accoglienza e martirio), che intende i virtuosismi di ‘follia’ dei protagonisti e l’intermittenza emotiva di un dramma ancora in corso. Cortocircuitando passato e presente, dolore subito e inferto, Egoyan ‘guida’ i suoi personaggi verso un dolce domani e fuori da un cerchio magico che imprigiona e non dà tregua. A condurli attraverso la deterritorializzazione contemporanea e alla scomparsa dei limiti (etici), l’autore prepone Cassandra, che ha il dono della profezia. Diversamente dal suo doppio mitologico, Cass è ascoltata dal padre, a cui fornisce i codici per penetrare la fortezza del nemico e la prigione dorata del passato. La promessa di vita che Cass porta con sé e dentro i suoi pochi anni vince sul Male e sulla sua recidività, messa in scena attraverso paesaggi di solitudine e disperazione. La presenza di strumenti di riproduzione dell’immagine, una costante nel cinema del regista canadese, alimenta la dialettica esterno-interno di un thriller dolente e crudele, che scava costantemente la superficie delle apparenze. Egoyan restringe progressivamente il cerchio d’azione e degli spazi, da fuori a dentro (camera, ufficio furgone, auto), mettendo a fuoco l’interiorità dei personaggi mentre il disegno del tempo cinematografico si frantuma con l’innesto di flashback liquidi e indistinguibili dal ‘presente’. Brani di tempo che si ricompongono un po’ alla volta a delineare la storia e a interfacciare ieri e oggi. Come nei suoi film precedenti le vittime non si vedono, i bambini uccisi, di cui Cass è il volto biondo e scampato, stanno sotto la superficie, cristallizzati dentro lo schermo di un computer, inghiottiti dal ghiaccio incrinato, portati via, uccisi dentro.
Gianni era un bravissimo imitatore con un grande problema psicologico che gli impediva di riconoscersi allo specchio e affermare la propria vera identità. Un problema con radici in un trauma infantile e che, insieme al grande senso di colpa per aver preso parte ad uno schema criminale servendosi del proprio talento vocale, lo ha portato al suicidio. Anni dopo la figlia Giulia indaga sulla morte del padre cercando di scoprirne le ragioni e comincia la sua ricerca dallo psicanalista che aveva in cura Gianni. Ma la ragazza non si limita ad una lettura psicanalitica e, a suo rischio e pericolo, percorre anche la pista delle collaborazioni di suo padre a quel piano criminale che ha coinvolto magistrati e servizi segreti, produttori televisivi e giornalisti, ministri ed escort. La voce narra la storia dark dell’Italia come un B-movie vecchio stile, assai contrastato nei toni, con dialoghi sopra le righe e una fotografia sporca, fatta di primissimi piani e luci di taglio. Una vicenda scritta e diretta da Augusto Zucchi, attore, sceneggiatore e regista teatrale qui al suo lungometraggio di esordio. L’idea di partenza è davvero interessante, perché fa leva su un personaggio che ha segnato la televisione (e la cultura pop) italiana con la sua presenza carismatica e inquietante: Alighiero Noschese, l’imitatore che si è tolto la vita, pare, in seguito ad una profonda crisi di identità. Noschese è davvero un personaggio di grande potenziale drammaturgico, ed è sorprendente l’interpretazione di Rocco Papaleo nei panni dell’imitatore tormentato dal fantasma del suo illustre predecessore. Papaleo mette a frutto la sua versatilità d’artista e la duttilità della sua voce per calarsi nei panni di un uomo-maschera che vive un’esistenza allucinata e straniante misurando per gradi lo scollamento progressivo dal proprio vero sé e la graduale distanza dalle convenzioni di un mondo che lo esclude. Per quanto la messinscena sia eccessivamente artigianale ed eccessivamente caricata (al limite del caricaturale, con l’eccezione di Papaleo), spesso cinematograficamente sgrammaticata e totalmente priva di mezzi toni e sfumature, il risultato è curiosamente disturbante. Chi ha nostalgia dei film complottisti anni Settanta (di grana grossa) e chi è curioso di vedere alla prova il talento drammatico di Rocco Papaleo, con tanto di scena en travesti, è invitato alla visione.
Un soldato in fuga. Diciannove anni, tanta inesperienza, altrettanta paura, più un’innata voglia di sopravvivere. Scappa da una squadra nazista che lo rincorre a colpi di fucile. Siamo nella Germania del 1945, la guerra sta per finire, ma lui non lo sa. Quando trova un’uniforme nazista da indossare nulla sarà più come prima e lui sarà il primo a comportarsi come i suoi stessi persecutori.
Con il lento incedere dei cavalli al passo, il regista-musicista John Maclean realizza il suo primo lungometraggio e lo veste con i costumi del vecchio western. Jay Cavendish (Kodi Smith-McPhee) è uno smilzo sedicenne scozzese, ingenuo e senza peccato, deciso a raggiungere il lontano West per ritrovare la sua bella Rose Ross (Caren Pistorius). In questo viaggio d’iniziazione è affiancato da Silas Selleck (Michael Fassbender), un cowboy fuorilegge, senza rimorsi e senza passato, taciturno con il ragazzo, ma eloquente voce narrante, che si offre come guida protettiva in cambio di pochi soldi.
Nick segue il fratello nel sogno di vivere in Colombia, sulla spiaggia, in un vero e proprio paradiso terrestre. Lì conosce Maria, di cui s’innamora perdutamente. Ci sono però alcuni problemi con due fratelli del posto, che non amano l’idea che dei canadesi vivano nel loro bosco. Nick ne parla una sera con l’amatissimo zio di Maria, un uomo dal carisma insuperabile, che riesce nella magia di occuparsi generosamente del suo paese come della sua famiglia. Il giorno dopo, i focali fratelli piantagrane vengono trovati appesi a testa in giù, carbonizzati. Perché lo zio di Maria è Pablo Escobar, e nessuno sfugge a Pablo Escobar. Per Nick, il sogno d’amore e libertà cede progressivamente il posto al peggiore degli incubi. È sempre bello assistere alla nascita di qualcosa. Con Escobar: Paradise lost nasce un regista. Andre Di Stefano, attore italiano dalla carriera internazionale, dimostra con il primo film di possedere tutte le qualità del buon regista, compresa l’ambizione, quando è ben riposta come in questo caso. Si confronta con una materia complessa, potentemente schizofrenica, e con un altro regista, uno dei più grandi e dei più folli. Escobar, dio della povera gente e demonio incarnato, si curava moltissimo dell’immagine di sé che voleva restituire, sapeva confondere, illudere, e non sono poche le sequenze in cui Di Stefano lo mette dietro un obiettivo fotografico, a dirigere un matrimonio o una folla (“porta via Maria da qui” arriverà ad ordinare ad un certo punto a un suo scagnozzo, in un attimo di delirio, in un campo di calcio gremito di gente accalcata). Benicio Del Toro, già Che Guevara, indossa un’altra icona latinoamericana, di segno diametralmente opposto. La forza della sua interpretazione è la stessa del suo personaggio e ha a che vedere con le sfumature profonde e insondabili dell’autoinganno. Quell’uomo che parlava con Dio prima di ordinare i più atroci massacri, che cantava struggenti canzoni d’amore alla moglie, leggeva le fiabe ai figli, ma non si fidava nemmeno dei collaboratori più stretti, s’ingannava lui stesso rispetto alle proprie azioni (“tutto quello che facciamo lo facciamo per la nostra famiglia”) o covava un’anima più nera del nero? Senza che in alcun modo questo dubbio passi mai per una sfumatura di giustificazione, Del Toro ne fa la pasta della propria performance, ipnotizzante. Non regge il confronto, specie nei primi piani, Josh Hutcherson nei panni di Nick, ma tutto sommato non è un difetto che offende, tale è l’abisso tra i due personaggi prima ancora che tra gli attori. La tragedia, che si fa strada per spire avvolgenti, sempre più soffocanti, ha i connotati concitati del thriller ma anche la vena ancestrale del rapporto di complicità e tradimento tra padre e figlio, perché Nick non è certo senza colpa, e la sua scusa, è la stessa del mostro: l’amore, la famiglia.
Virginia Vallejo, celebre anchorwoman colombiana ha chiesto asilo politico agli Stati Uniti. Amante appassionata di Pablo Escobar, criminale e trafficante di cocaina senza scrupoli e rimorsi, ha deciso di raccontare alla DEA gli anni della loro relazione e dell’ascesa vertiginosa del ‘patrón’ di Bogotà. Ambiziosa e decisa a saperne di più di quello che diventerà in pochi anni il più ricco e potente trafficante di sempre, Virginia si innamora di Pablo e lo sostiene nella carriera politica sorvolando su quella criminale. Ma i desideri di Pablo sono più voraci dei suoi e finiscono per trascinarla in un abisso da cui le tenderà la mano l’agente Neymar della DEA.
Ventiquattro anni dopo la sua morte, la vita di Pablo Escobar assomiglia ancora a una successione impetuosa di colpi di riflettori, di istantanee di luce piena che preservano tuttavia le ombre indispensabili alla leggenda del più grande narcotrafficante della storia.
L’irraccontabile barone della droga che mise a ferro e fuoco e sangue la Colombia degli anni Ottanta. Anni di violenza brutale spezzati dalla diffusione mondiale della polvere bianca. La fascinazione che il suo personaggio continua a esercitare rimane intatta, come dimostra la stupefacente serie di Netflix (Narcos), che rivendica l’impossibilità di conoscere la verità e sbatte in faccia allo spettatore l’abisso dell’ignoto. O confermano i film come The Infiltrator, storia vera di Robert Mazur, agente dello U.S. Customs Service che si infiltrò nell’organizzazione di Escobar per smascherare il sistema di riciclaggio del denaro sporco.
Terzo in ordine di tempo, Escobar – Il fascino del male assume il punto di vista di Virginia Vallejo, amante del nostro, che riparò negli States la disfatta. Adattamento del suo libro, “Loving Pablo, Hating Escobar”, il dramma di Fernando León de Aranoa si concentra sulla relazione tumultuosa degli amanti provando inutilmente ad afferrare il profilo fuori norma del più grande pirata del XX secolo. Convinto al contrario di essere un dannato eroe popolare, la sua natura di bestia sanguinaria si svelerà progressivamente e quasi involontariamente.
Un confine e due gruppi di topografi professionisti. In cima al Monte Rosa, sotto nubi prepotenti, è stata ritrovata una mummia ma nessuno ha ancora stabilito se il luogo della scoperta sia terra italiana o svizzera. Così due squadre di esperti partono alla ricerca del soggetto ma il maltempo smarrisce nelle nebbie la spedizione svizzera e spinge quella italiana a ripararsi in un rifugio accogliente. Dopo aver dichiarato che il corpo è “italiano”, i due gruppi si uniscono a festeggiare insieme e, chiacchierando di amori del passato e affetti del presente, si accorgono di avere a che fare con un misterioso delitto
La montagna, silenziosa e ruvida, accoglie una storia intrigante che comincia come una sorta di documentaristica cronaca di una spedizione scientifica per trasformarsi poi in un raffinato giallo investigativo. Sospesi in un attimo di vita che ferma il normale corso delle cose, i protagonisti sono gli agenti di un coinvolgente dibattito razionale che, per le intuizioni felici, ricorda quello diligente di alcune serie americane di successo, CSI su tutte. Però qui, isolati dalla vita frenetica della città, i rumori, i suoni e le parole acquistano un peso narrativo in più e non rischiano di perdersi nel nulla. Così i più piccoli dettagli, un cappello, una spilla, la pagina di un libro, oltre che documenti di un passato recente, sono anche oggetti portatori di un carico emotivo. Il film di Andrea Papini ha il pregio di andare in una direzione poco frequentata e di portare avanti la sua idea con forza e garbo, assemblando le immagini aperte dei paesaggi di montagna con quelle più intime e chiuse dentro il rifugio. Un’alternanza di spazi che ritma i capitoli di un’indagine anomala, condotta da detective improvvisati, momentaneamente assorti in un viaggio all’indietro per scoprire chi ha ucciso il corpo ritrovato sul ghiacciaio. Tra loro c’è chi ha un approccio metodico, mette insieme spunti e indizi, e chi invece affronta il caso con più superficialità, una leggerezza che li porta, ad un certo punto, ad essere anche complici di un delitto lontano. In questa divisione tra agguerriti investigatori assetati di verità e più freddi astanti prende forma una metafora della società contemporanea. Dove c’è chi vuole conoscere, e chi invece preferisce non sapere, mettendo in piedi paletti e paletti di confini insormontabili
Quando al dottor Hess Green (Stephen Tyrone Williams) viene introdotto un misterioso artefatto maledetto da un curatore d’arte, Lafayette Hightower (Elvis Nolasco), viene incontrollabilmente attirato da una nuova sete per il sangue che travolge la sua anima. Tuttavia, non è un vampiro. Lafayette soccombe rapidamente alla natura vorace di questa sofferenza che trasforma Hess. Presto la moglie di Lafayette, Ganja Hightower (Zaraah Abrahams), va in cerca del marito e viene coinvolta in una pericolosa storia d’amore con Hess che mette in discussione la natura stessa dell’amore, della dipendenza, del sesso, e dello stato della nostra società apparentemente sofisticata.
L’attacco alla base americana di Pearl Harbor apre un nuovo fronte delle ostilità in Giappone. Desmond Doss, cresciuto sulle montagne della Virginia e in una famiglia vessata da un padre alcolizzato, decide di arruolarsi e di servire il suo Paese. Ma Desmond non è come gli altri. Cristiano avventista e obiettore di coscienza, il ragazzo rifiuta di impugnare il fucile e uccidere un uomo. Fosse anche nemico. In un mondo dilaniato dalla guerra, Desmond ha deciso di rimettere assieme i pezzi. Arruolato come soccorritore medico e spedito sull’isola di Okinawa combatterà contro l’esercito nipponico, contro il pregiudizio dei compagni e contro i fantasmi di dentro che urlano più forte nel clangore della battaglia.
Maggio, 1940. Sulla spiaggia di Dunkirk 400.000 soldati inglesi si ritrovano accerchiati dall’esercito tedesco. Colpiti da terra, da cielo e da mare, i britannici organizzano una rocambolesca operazione di ripiegamento. Il piano di evacuazione coinvolge anche le imbarcazioni civili, requisite per rimpatriare il contingente e continuare la guerra contro il Terzo Reich. L’impegno profuso dalle navi militari e dalle little ship assicura una “vittoria dentro la disfatta”. Vittoria capitale per l’avvenire e la promessa della futura liberazione del continente.
Duszejko è un’anziana signora che insegna l’inglese ai bambini di un villaggio situato al confine tra Polonia e Repubblica Ceca, nei Sudeti. Un giorno le sue due cagne, a cui è affezionatissima, scompaiono. Alcuni mesi dopo è lei a scoprire il cadavere di un vicino, un bracconiere. Le uniche tracce che conducono a questa morte misteriosa, che non sarà l’unica, sono quelle degli zoccoli di un capriolo.
Da due anni innamorati e amanti, Luna e Amar vivono a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina. Uscita da una famiglia laica di ex comunisti, Luna è una donna istintiva, energica e appassionata che, dopo diversi vani tentativi, si rassegna a una fecondazione assistita. Il croato Amar, ex soldato alcolista, perde il lavoro per un grave errore, ma è assunto come docente d’informatica in una comune sul lago di Jablanica, fondata da una setta di musulmani ortodossi salafiti. Quando Luna gli fa visita, lo trova profondamente cambiato: ha smesso di bere, ha risolto i problemi psichici di ex combattente, ma è diventato un fanatico dogmatico. Coprodotto, scritto e diretto dalla 81 bani&3 , è il suo 2° film dopo Il segreto di Esma (Orso d’oro 2006). Pur toccando molti temi etici e religiosi, politici e storici, ha il merito di incanalarli nei personaggi. Il cast degli interpreti è formato da bosniaci, croati, serbi e sloveni. Quasi tutti, compreso l’ottimo Lu&9 ev/Amar, lavorano anche in teatro e in TV, ma è la bella Cviteši&3 /Luna che dà al film l’anima e la luce. Na putu (in inglese On the Path ) vuol dire in bosniaco “essere in cammino verso una meta”, ma indica anche una donna incinta: il figlio è in cammino verso la nascita. Distribuito da Domenico Procacci (Fandango). Dovrebbe circolare nelle scuole medie superiori per far capire la natura e la complessità dell’Islam. Girato in digitale.
Mickey Haller (Matthew McConaughey) è un avvocato che difende i criminali di Los Angeles che lavora dai sedili posteriori della sua Lincoln sedan. Haller ha speso la maggior parte della sua carriera a difendere vari tipi di criminali fino a quando non trova il caso della sua vita: difendere Louis Roulet (Ryan Phillippe), un playboy di Beverly Hills accusato di stupro e tentato omicidio. Il caso inizialmente semplice pian piano si trasforma in un gioco mortale da cui Haller deve cercare di sopravvivere. Inizialmente The Lincoln Lawyer doveva essere diretto ed interpretato da Tommy Lee Jones, ma a fine novembre del 2009 l’attore ha lasciato la produzione per divergenze creative.
Quando una donna anziana viene filmata come parte di uno studio sull’Alzheimer, lei a poco a poco inizia a mostrare comportamenti violenti, che sfociano nel paranormale.
Nella fittizia Nagashima (misto di Nagasaki e Hiroshima) tutto scorre tranquillo fino al giorno in cui un terremoto e il conseguente tsunami gettano scompiglio, danneggiando irreparabilmente una centrale nucleare. La vita della famiglia Ono non potrà più essere la stessa e porterà il patriarca Yasuhiko a farsi carico di scelte dolorose. Come Noriko’s Dinner Table era figlio bastardo di Suicide Club, prosecuzione di un assunto contenutistico totalmente divergente per punto di vista e conclusioni, così The Land of Hope riparte da Himizu e dal disastro di Fukushima per andare molto oltre. Dove Himizu faceva suo il disastro, proiettandolo sui mali di un Giappone dilaniato negli animi ma sostanzialmente aderendo allo stilema abituale di Sono Sion, The Land of Hope adotta un registro insolitamente elegiaco: lo stile eversivo dell’autore è lasciato da parte, in favore di un sentito omaggio alla tradizione nipponica.
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