1977, Minnesota. Il dodicenne Ben è preda di un incubo ricorrente in cui viene inseguito da un branco di lupi. Una notte, cercando tra gli oggetti della madre, trova il vecchio catalogo di una mostra newyorkese sulle origini dei musei: i cosiddetti gabinetti delle meraviglie. C’è anche un biglietto, dentro, con l’indicazione di una libreria. E poi c’è un fulmine, che entra dal cavo del telefono e cambia la vita di Ben. 1927, New Jersey. Rose è una ragazzina che vive sola con il padre, isolata per via della sua sordità. La anima una grande passione per un’attrice, una diva del muto, di cui colleziona ogni notizia. Ben e Rose, a distanza di tempo, compieranno lo stesso avventuroso viaggio attraverso New York, guidati dal comune bisogno di conoscere il loro posto nel mondo.
Alberto ha una moglie, due bambini e una piccola impresa che versa in cattive acque. Stimato oltremodo dalla consorte, che giudica troppo sincera e ingenua, Alberto le nasconde di ‘arrotondare’ la vita facendo il corriere per gente poco raccomandabile. Alla vigilia del secondo viaggio qualcosa però va storto e la sua famiglia è presa in ostaggio da tre malviventi interessati al prossimo carico. Partito dalla provincia ligure alla volta di Reggio Calabria, Alberto dovrà ritirare il pacco illecito e consegnarlo ai sequestratori. Ma niente andrà come previsto. Sulla strada di casa l’impresario dovrà risolvere e risolversi, salvaguardando la vita e il futuro della sua famiglia. Opera prima e pluripremiata di Emiliano Corapi, Sulla strada avvia una biografia ordinaria e minacciata nel sogno di una vita borghese e procede nella follia e nell’angosciosa tensione di un inseguimento. Combinando fino a confondere realismo e genere, Corapi scrive e gira un racconto visivamente rigoroso, dove il budget modesto e gli schematismi dell’intreccio rendono ancora più essenziale la corsa del protagonista verso un destino ineluttabile. L’Alberto di Vinicio Marchioni incarna l’uomo ordinario, assediato dalla vita e chiuso in primi piani claustrofobici e senza dialoghi che rimandano a un’inquietudine interiore e generano la sensazione di non essere più padroni di se stessi. La funzione opprimente della macchina da presa sul personaggio, lanciato in una corsa inquieta attraverso strade secondarie sotto il sole netto del giorno e davanti alle luci artificiali di un albergo ‘come quelli dei film americani’, rispecchia la condizione di vita all’interno di una società capitalista e indebitata, che strozza e istiga rimedi estremi. Al centro del film c’è un impresario esemplare, che ha deciso di sporcarsi le mani e rendersi complice di un meccanismo economico criminale identificato con l’Italia stessa, percorsa in tutta la sua lunghezza e la sua miseria. La strada del titolo, promessa di un altrove, diventa presto un percorso tragicamente limitato e controllato, lungo il quale (in)segue e precede il Sergio di Daniele Liotti, doppio di Alberto con cui condivide un destino disgraziato, una scelta azzardata e un viaggio che resta in fondo solitario per ciascuno di loro. Il volto di Vinicio Marchioni perde la ‘freddezza’ e la nobilitazione tragica del bandito della Magliana (la serie) e trova la pesantezza, l’anonimato e l’opacità di un personaggio di terz’ordine, avviato al riscatto esistenziale ma poi condotto all’unica sublimazione possibile. Un debutto apprezzabile e pregiato, quello di Emiliano Corapi, che indaga la parte peggiore di noi, quella disposta a compromettersi pur di confermare agli altri la propria immagine perfetta. Un film sui falliti e i perdenti che fa il paio con L’industriale di Giuliano Montaldo e un cinema italiano aspro, sincero e non riconciliato, frequentato da attori autentici come Fabrizio Rongione e Donatella Finocchiaro. Un film, ancora, che fa i conti con un Paese che se si riconoscesse per quello che sa di essere sarebbe finalmente diverso.
Una ragazzina viene uccisa. 7 colpevoli, dal sicario ai mandanti, sono catturati uno a uno e torturati da un gruppo terroristico per estorcere la confessione. Kim tratteggia personaggi semplici, caratterizzati da sentimenti primordiali e (dis)umani attraverso la negatività dei loro comportamenti. L’espediente narrativo è l’omicidio e la conseguente vendetta, ma, come sempre, il punto di arrivo non è la mera scoperta di un colpevole su cui potersi rivalere, bensì il percorso interiore che le parti sono costrette a intraprendere. I ruoli si invertono e si rincorrono: l’impunità di chi commissiona delitti e l’inconsapevolezza di chi li perpetra senza tenere conto delle ripercussioni sono contrapposte alle torture di chi si erge a giustiziere popolare, divorato e accecato dal sentimento di vendetta. Una dittatura dell’anima di cui non si scorge altra soluzione che perdersi per ritrovarsi. Vincitore a Venezia 2014 del premio Fedeora, assegnato dalla Federazione di Critici Cinematografici Europei e del Mediterraneo.
Nam Chul-woo è un povero pescatore nordcoreano che nella sua barca ha l’unica proprietà e l’unico mezzo per dare da mangiare a sua moglie e alla loro bambina. Un giorno gli si blocca il motore mentre sta occupandosi delle reti in prossimità del confine tra le due Coree e la corrente del fiume lo trascina verso la Corea del Sud. Qui viene preso sotto controllo delle forze di sicurezza e trattato come una spia. C’è però chi non rinuncia all’idea di poterlo convertire al capitalismo lasciandogli l’opportunità di girare, controllato a distanza, per le strade di Seoul.
Kyoko è un’artista eccentrica che mette la sessualità al centro delle sue opere e maltratta i propri assistenti. Ma forse Kyoko è solo il personaggio di un film e l’attrice che la interpreta ne è l’esatto opposto, timida e complessata per una serie di traumi adolescenziali. O forse ancora…
Ginny ha sposato in seconde nozze Humpty che lavora nel Luna Park di Coney Island e gli ha portato in dote un figlio decenne con una spiccata tendenza per la piromania. Ginny è però insoddisfatta di quel matrimonio e trova nel bagnino Mickey un uomo colto che possa comprendere anche le sue velleità di attrice. Un giorno però arriva a sconvolgere i fragili equilibri Carolina, figlia di Humpty e fuggita dall’entourage del marito mafioso. Quando Mickey ne fa la conoscenza Ginny avverte l’imminenza di un pericolo.
Il capitano Colter Stevens, pilota di elicotteri e veterano della guerra in Afghanistan, si risveglia su un treno di pendolari senza avere la minima idea di dove si trovi. Di fronte a lui Christina, una bella ragazza che lo conosce ma che lui non riconosce affatto. In tasca (e nello specchio) l’identità di un giovane insegnante di nome Sean Fentress. Poi l’esplosione, che squarcia il convoglio. Ma Colter non è morto, da un monitor un ufficiale donna lo informa che dovrà tornare sul treno per identificare l’attentatore e prevenire un successivo, più micidiale attacco. Ogni volta che farà ritorno sul treno avrà solo 8 minuti a disposizione. Di più non gli è dato sapere, la missione è top-secret, il suo nome: “Source Code”.
Abe Lucas, professore di filosofia ormai privo di qualsiasi interesse per la vita, si trasferisce nell’Università di una cittadina. Preceduto da una fama di seduttore incontra la collega Rita Richards che cerca di attrarlo a sé per mettersi alle spalle un matrimonio fallito. C’è però anche la migliore studentessa del corso, Jill Pollard, che subisce il suo fascino e progressivamente gli si avvicina. Un giorno i due ascoltano, del tutto casualmente, la disperata lamentela di una madre che si è vista togliere la tutela di un figlio da parte di un giudice totalmente insensibile a qualsiasi esigenza umanitaria. Abe, in quel preciso momento, sente di poter fare qualcosa per quella donna e, con questo, di poter ridare un senso alla propria vita.
Un uomo (Nao Omori), apre una porta proibita e si ritrova a far parte di un club misterioso. Da quel momento, appaiono dinanzi a lui una serie di donne, ognuna riconoscibile per una particolare qualità.
Stufo di assistere impotente alla corruzione, un minatore cede a una collera incontrollabile. Il ritorno a casa di un emigrante prende una piega inaspettata per la scoperta di un’arma da fuoco. Giovane e carina, la receptionist di una sauna reagisce con estrema determinazione dopo essere stata molestata da clienti facoltosi. Un operaio cambia lavoro sperando di ottenere migliori condizioni di vita, ma finisce in un bordello. 4 storie della Cina contemporanea desunte dalla cronaca. Il paese è segnato dal boom economico, le contraddizioni diventano esplosive e la violenza sembra destinata a esplodere. E Jia Zhang-ke (che appare mentre scende una scala nell’episodio del bordello) la racconta e la mostra quasi fosse una componente del vivere, e morire, quotidiano. Premio per la sceneggiatura a Cannes. Il titolo internazionale riecheggia quello di A touch of zen , il 1° wuxia del 1971, diretto da King Hu. Distribuito da Officine Ubu.
I film del Marvel Cinematic Universe sono una serie di film di supereroi basati sui personaggi dei fumetti Marvel Comics e prodotti dai Marvel Studios. Come accade nell’Universo Marvel dei fumetti, le pellicole di questo franchise condividono l’ambientazione, alcuni personaggi e alcuni elementi della trama che fanno da filo conduttore tra di essi. Con un incasso di oltre 29,6 miliardi di dollari in tutto il mondo, è il franchise più redditizio nella storia del cinema.
Il DC Extended Universe (traducibile in italiano come “Universo esteso DC”), conosciuto anche con l’acronimo DCEU, è un media franchise composto da una serie di film di supereroi basati sui personaggi dei fumetti DC Comics e distribuiti dalla Warner Bros. Pictures. Similmente all’universo DC fumettistico, i film appartenenti a questo franchise condividono ambientazione, diversi personaggi e alcuni elementi della trama che fanno da filo conduttore tra di essi.
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Un padre troppo occupato trascura la figlia e per farsi perdonare la porta a Busan dalla madre. Intanto un virus che trasforma in zombi si diffonde e mette in ginocchio il paese. Quel che è accaduto al paese accade in piccolo anche sul treno: una singola persona infetta scatena una reazione a catena in un ambiente ristretto e lanciato a tutta velocità verso la salvezza, e i caratteri dei personaggi emergono, le differenze sociali veicolano la lotta per sopravvivere, minacciata dall’egoismo di chi è abituato a esercitare il potere. Alcune soluzioni sono troppo facili per dare allo spettatore la possibilità di empatizzare con i buoni, sminuendo il climax emotivo. Trucco ed effetti speciali strabilianti premiati in svariati festival internazionali.
Samira ha tanti anni e un dolore grande: ha perso sua figlia, uccisa dal cancro e da una vita tribolata nella periferia di Palermo. Da sette anni la ritrova in un cimitero assolato e desolato, dove sfama cani e cuccioli prima di riprendere la strada di casa alla guida della sua Punto e a fianco di un genero ostile. Rosa ha una madre da lasciare andare e un passato da dimenticare a Palermo, dove accompagna Clara, la donna amata, al matrimonio di un comune amico. Inquieta e infastidita da una città da cui è fuggita anni prima, infila via Castellana Bandiera, un strada stretta e senza senso di marcia. In direzione ostinata e contraria arriva Samira e chiede il passo per raggiungere la sua casa a pochi metri dall’impasse. Contrariata e altrettanto risoluta, Rosa è decisa a mantenere la posizione. Irriducibili sotto il sole tenace di Palermo, Samira e Rosa si affronteranno in un duello che non contempla resa e retromarcia. Di un uomo caduto morto in un duello non si penserà che “abbia dimostrato di essere in errore riguardo al proprio punto di vista”, scrive Cormac McCarthy in “Meridiano di sangue”. Allo stesso modo Emma Dante, regista teatrale che debutta al cinema, elude ‘giustificazioni’ o allineamenti, decidendo per il dicotomico senza stabilire una vittoria di una parte sull’altra o affermare quello che è giusto su quello che invece è avvertito come inopportuno. Rosa e Samira sono opposti che si osservano e si affrontano a una distanza limite. Figlia di un’altra madre e madre di un’altra figlia, sono selvagge votate alla distruzione vicendevole, corpi in stretto rapporto e dotati dello stesso corredo di dolore. La natura identica e testarda origina allora la tragedia, riflettendole geometricamente e impedendole a praticare la tolleranza e l’integrazione emotiva dell’altro. Calate in un clima ‘pagano’, che mette in scena le incomprensioni e le follie di una comunità, le protagoniste (si) ingombrano la strada del titolo e lasciano fuori campo il buco, un vuoto, uno strappo, una ferita ‘non filmabile’. Oggetto di spettacolo diventa perciò la loro ostinazione all’immobilità. Schierate l’una di fronte all’altra come in un western classico veicolano pulsioni dissidenti e negative, infilando con via Castellana Bandiera il punto di non ritorno. Il duello, celebrazione dell’ordine sulle eventualità disgregative del disordine, nel dramma di Emma Dante genera al contrario una forza distruttiva che diventa espressione fondante della pulsione di morte dei suoi personaggi. Nessuno escluso. Non ci sono regole da stabilire (e da rispettare) in via Castellana Bandiera. Dove la forza produce un diritto e la gente abita lo stesso numero civico, c’è piuttosto da scommettere sul cavallo vincente. Acme del racconto, il duello made in Italy tra una Punto e una Multipla non risolve le tensioni create dalla narrazione ma le provoca definendo geometrie che si dispongono nella profondità delle protagoniste e da lì ripartono contaminando parenti, vicini, curiosi, avventori. Disagio e inesorabilità si distribuiscono frontalmente e si incarnano in donne incapaci di qualsiasi ricognizione, di qualsiasi compassione, di qualsiasi ripresa. Interpretato dalle efficacissime Elena Cotta e Emma Dante, ‘affiancata’ dalla Clara di Alba Rohrwacher, Via Castellana Bandiera è un film a imbuto che trascina idealmente e concretamente in un gorgo di smarrimento infinito i suoi personaggi. Confronto tragico e lontano da qualsiasi purezza eroica, l’opera prima di Emma Dante ci lascia testimoni muti e agghiacciati. Impossibilitati a intervenire inserendo la retromarcia per evitare la deriva e liberare la strada a un ‘paese’ bloccato e incapace di ripartire. Se non in direzione della collisione e del suo esito sciagurato.
Una famiglia vive nella campagna messicana allevando tori da combattimento. Esther si occupa della conduzione del ranch mentre Juan, che è un poeta molto noto, è addetto alla selezione e all’allevamento del bestiame. Quando Esther sembra essersi innamorata dell’addetto all’addomesticamento dei cavalli, Juan vede crollare tutte le sue certezze.
Corea, 1930. Sotto la dominazione giapponese della Corea, Sookee viene coinvolta nel complotto ordito dal (falso) conte Fujiwara, che mira al patrimonio di una ricca ereditiera nippo-coreana, Hideko. Sookee diviene la domestica privata di Hideko.
Del Toro torna ad attingere dal magico mondo dei comics ancora una volta. Magico in senso stretto, perché “Hellboy” è una serie che ha molti elementi esoterici, oltre a quelli orrorifici, avventurosi e polizieschi. La saga creata da Mike Mignola e pubblicata dalla Dark Horse, ruota infatti attorno al B.P.R.D. (Bureau for Paranormal Research e Defense), centro per la Difesa e la Ricerca del Paranormale diretto dal professor Broom, che accoglie una schiera di personaggi (mostri?) piuttosto bizzarri che passano le giornate difendendo il pianeta dalla sempiterna congiura del Male contro il Bene. Hellboy, demone catapultato nella nostra dimensione dai nazisti nel ’44, adottato e cresciuto come un figlio da Broom, è aiutato da Abe Sapiens, un uomo-pesce di sovrumane facoltà intellettive, e dalla bella Liz, pirocinetica con qualche difficoltà di autocontrollo. Il nemico numero 1 è Grigori Rasputin (quel Rasputin), che cerca in ogni modo di portare Hellboy sulla cattiva strada e di usarlo per aprire un portale che permetta ai demoni dell’altro mondo di invadere (e distruggere) la Terra. Hellboy, il film, brilla per l’amalgama particolarmente riuscito di riprese dal vero e animazioni 3D (cosa che non sempre può dirsi dei film del genere). I personaggi sono tutti ben caratterizzati, le scenografie molto suggestive (Praga è una certezza) e l’atmosfera giustamente tetra (credo che non ci sia una ripresa alla luce del giorno…), ma questa non è farina del sacco di Del Toro, in quanto elementi già caratteristici del bel fumetto di Mignola. Purtroppo, del fumettista americano Del Toro prende anche i limiti. “Hellboy” era la prima serie che Mignola scriveva, oltre che disegnava, e palesava tutti i difetti che un esordiente inevitabilmente ha: plot confuso e banalotto, dialoghi dimenticabili e mancanza di coralità tra i personaggi. Tutte imperfezioni riconfermate su pellicola. Mignola nel frattempo è cresciuto come autore: Del Toro avrebbe dovuto farsi aiutare nella sceneggiatura, oltre che nella supervisione.
New York, anni Trenta. Bobby Dorfman lascia la bottega del padre e la East Coast per la California, dove lo zio gestisce un’agenzia artistica e i capricci dei divi hollywoodiani. Seccato dall’irruzione del nipote e convinto della sua inettitudine, dopo averlo a lungo rinviato, lo riceve e lo assume come fattorino. Bobby, perduto a Beverly Hills e con la testa a New York, la ritrova davanti al sorriso di Vonnie, segretaria (e amante) dello zio. Per lui è subito amore, per lei no ma il tempo e il destino danno ragione al sentimento di Bobby che le propone di sposarlo e di traslocare con lui a New York. Ma il vento fa (di nuovo) il suo giro e Vonnie decide altrimenti. Rientrato nella sola città in cui riesce a pensarsi, Bobby dirige con charme il “Café Society”, night club sofisticato che diventa il punto di incontro del mondo che conta. Sposato, padre e uomo di successo, anni dopo riceve a sorpresa la visita di Vonnie. Con lo champagne, Bobby (ri)apre il cuore e si (ri)apre al dolce delirio dell’amore.
La moglie incinta di Soo-hyeon, poliziotto con promettente carriera davanti a sé, è rapita e uccisa dal serial killer Kyung-chul. Lui decide di scovare l’assassino e di tormentarlo fino alla resa dei conti finale. Kim gioca con lo spettatore e lo porta quasi ad approvare le torture fisiche e mentali perpetrate nei confronti del killer: un sadismo difficilmente accettabile in contesti differenti. La vendetta, inesorabile e abominevole, pianificata e freddamente portata avanti, travalica il confine etico di essere umano e quello morale di poliziotto, e la furia inarrestabile si fa strada in Soo-hyeon, creando un alter ego mostruoso che prende possesso di lui, come era stato per Oh Dae-su in Oldboy (2003) di Park Chan-wook. Vincitore di svariati premi e riconoscimenti internazionali, equamente distribuiti tra i 2 protagonisti maschili e il regista.
James Cleveland “Jesse” Owens parte per l’università, lasciando una figlia piccola, una ragazza ancora da sposare e una famiglia d’origine in precarie condizioni economiche. Sembra già una conquista, ma qualche mese dopo, grazie al coach dell’Ohio University, Larry Snyder, Jesse ottiene la convocazione per le Olimpiadi di Berlino. È il 1936 e la politica di epurazione razziale di Hitler divide il Comitato Olimpico Americano: partecipare o boicottare? La comunità afroamericana si pone lo stesso problema. Jesse sa una cosa: se andrà, non potrà permettersi di non vincere. Il regista Stephen Hopkins non è nuovo alla biografia: quella di Peter Sellers aveva fatto infuriare chi la trovava esageratamente critica tanto quanto chi la giudicava non abbastanza mostruosa. Con Race, titolo dal doppio significato, sembra evitare il rischio in partenza, rinunciando alle sfumature e optando risolutamente per un ritratto eroico di Owens, dall’inizio alla fine, nello sport e nella vita. D’altronde – sembra dire Hopkins – i conflitti esterni al personaggio sono tali e tanti che lo mantengono comunque e perennemente sotto pressione. E così è: la scelta di raccontare i giochi olimpici più controversi della storia porta con sé una quantità di materiale narrativo ingente, e il regista lo gestisce aspirando ad un modello di racconto classico, che in qualche momento gli riesce bene e in altri meno. La volontà di mantenersi politicamente corretto (per esempio conducendo il film sul binario parallelo del riscatto del coach bianco insieme al campione nero) riduce, però, il tasso di tensione, così come l’impressione che il battere ogni record non costi a Owens fatica alcuna, e l’immagine del suo reiterato primato, nello stadio bianco che doveva magnificare agli occhi del mondo il Terzo Reich, resta la sola a tentare di ristabilire un equilibrio. La regia, più che altro, vive di rendita della forza della Storia, limitandosi a non fare danni quando si tratta di mettere in campo le interpretazioni di Goebbels e di Leni Reifensthal, qui sdoganata come artista super partes, ben voluta e finanziata dal Fuhrer ma interessata ad un altro fine assoluto, la riuscita del suo film. Del suo uso potenzialmente strumentale dell’atleta di Cleveland, così come della censura che gli Stati Uniti del Sud operarono sulla notizia dei miracoli berlinesi di Jesse Owens, il film non fa menzione. Race corre alla meta ma, dal punto di vista filmico, è una vittoria poco sudata: senza le sfumature, la foto-ricordo è piatta.
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