Scritto da Anne-Louise Trinidic col regista, dal racconto Nightlight (in Love in a Blue Time ) e dal romanzo omonimo (1998) di Hanif Kureishi. Jay e Claire s’incontrano a Londra per fare sesso ogni mercoledì, senza sapere nulla l’uno dell’altra, nello squallido appartamento di lui che ha da poco lasciato moglie e due figli. Dopo qualche tempo, però, Jay la pedina. Scopre che fa l’attrice ( Zoo di vetro ), ha un marito tassinaro e un figlio. Le propone di stare con lui. Lei rifiuta. Si lasciano, ma sanno che si sono fatti del bene. Come Una relazione privata (1999), ma così diverso: più crudele, impietoso, verboso, tortuoso. Più aggressivo e non soltanto per le scene esplicite e crude di sesso. Il tema di fondo non è l’erotismo, ma la possibilità di comunicazione tra due esseri e due sessi. La direzione degli attori è, anche in questo suo 8° film (il 1° in inglese), l’atout di Chéreau che sta addosso con la cinepresa ai due protagonisti con amorosa furia. Orso d’oro a Berlino e premio per la neozelandese Fox ( Un angelo alla mia tavola ).
New York, 1933. Durante la Grande Depressione la fame di fama conduce una troupe cinematografica su un’isola misteriosa per girare un film spettacolare e avventuroso. A bordo della Venture salpano Carl Denham, regista ambizioso, Ann Darrow, un’attrice esordiente e Jack Driscoll, un drammaturgo intellettuale prestato al cinema. Durante una tempesta la nave si incaglia sugli scogli dell’Isola del Teschio, una terra fuori da ogni mappa e governata da un colossale scimmione, Kong, a cui viene offerta in sacrificio la bella Ann. Gli uomini della Venture, nel tentativo di salvare la fanciulla, cattureranno Kong e lo “trasferiranno” a Manhattan per esibirlo come fenomeno da fiera. Ma Re Kong spezzerà le catene e scalerà l’Empire State Building ghermendo di nuovo la bella dai capelli d’oro. La trama dell’Ottava Meraviglia del Mondo è nota da quel lontano 1933, quando due avventurieri, Ernest Beaumont e Merian C. Cooper, crearono nei “laboratori” della RKO la più grande e spaventosa delle creature: King Kong. Il loro modello mentale diventò poi un modello in scala nelle mani di Willis O’Brien, il Méliès anglosassone, che per primo sperimentò tecniche rivoluzionarie come lo stop motion, realizzando mostri animati automaticamente, e la sovrimpressione, facendoli muovere dentro scenografie verosimili e accanto agli attori. E a questa storia Peter Jackson è rimasto fedele ricostruendo per Kong un’inestricabile foresta mai esistita e una New York esistita soltanto negli anni della Depressione; restituendo alla Skull Island le spaventose creature, ragni e insetti giganti, “censurate” nella versione del ’33; e ancora rendendo a Kong, triplicato, il feroce avversario Godzilla. Ma la visione di Jackson va oltre il remake aggiornato, oltre l’interpretazione psicologica, sociologica o politica (terrorismo, grattacieli, aerei che abbattono edifici), rivelando piuttosto un atto d’amore, altamente tecnologico, al cinema americano degli anni ’30. L’omaggio a quel cinema e alla sua icona gigantesca è diffuso nel film fin dalle prime battute che si aprono su New York, sui suoi operai sospesi a dodici piani di altezza come Harold Lloid, sui sipari di Broadway e sui loro divi, sui meccanismi di produzione di Hollywood, sulla fotografia, sui colori dei tramonti in Technicolor davanti ai quali si riconciliano Ann e Kong. Il regista neozelandese rinnova allo spettatore tutto il godimento di un cult-movie fondato sulla tradizione letteraria e sociologica del confronto tra bella e bestia, e a questo piacere aggiunge tutte le suggestioni dell’età d’oro del cinema hollywoodiano e così Jack Driscoll, avventuriero nella versione originale, diventa un drammaturgo di Broadway prestato a Hollywood; Carl Denham rimane regista anche in questa versione ma con l’intraprendenza e la magia di Orson Welles a cui aderisce anche fisionomicamente; Bruce Baxter, l’attore di film di serie B, celebra col suo atletismo impeccabile e il suo volto da bel filibustiere Bruce Cabot (l’attore che nella versione originale del ’33 interpretò Jack Driscoll) e i divi macho-azione di Hollywood. Anche Naomi Watts, dopo Fay Wray nel ’33 e Jessica Lange nel ’76, trova la sua Ann Darrow, sempre bionda e sempre innocente ma più consapevole e più innamorata di quella “creatura” che per lei combatte e muore. Su tutti i protagonisti maschili primeggia, e non solo in statura, Kong, uno scimmione che ha il volto umano e le emozioni umane di Andy Serkis, già Gollum ne Il Signore degli Anelli. Alle gentili signore non resta che schiarire la voce e scivolare con Kong a Central Park. Ai gentili signori darsi alla fuga lungo la Tenement Street.
Sul finire dell’Ottocento, Londra è una città affascinante e pericolosa. Le novità tecnologiche attirano i cittadini più curiosi, ma il richiamo per l’occulto e il soprannaturale è altrettanto forte. Quando Sherlock Holmes e il fido dottor Watson consegnano l’assassino di giovani donne Lord Blackwood alla giustizia e, dopo aver assistito all’esecuzione capitale, assistono non di meno alla sua apparente resurrezione, Holmes è felice di potersi finalmente interessare di qualcosa alla sua portata. Tanto più che si è ripresentata a lui la bella Irene Adler, chiedendo il ritrovamento di un uomo che si scoprirà interrato nella bara di Blackwood. I casi si intrecciano, si aggrovigliano, sporcano gli abiti di fumo e di avventura.
Love Exposure (Ai no Mukidashi) di Sono Sion avrà anche una durata di 237 minuti (indizio, di solito, di una regia imponente), ma è una miscela di satira pungente e senza pretese (buona parte della quale colpisce la religione nelle sue diverse forme), di elegante azione di arti marziali, e di dichiarazioni d’amore gridate a piena voce. Ai fan dei precedenti film di Sono, tra i quali Suicide Club (Jisatsu Circle, 2002), Noriko’s Dinner Table (Noriko no Shokutaku, 2005) e Exte: Hair Extensions (Exte, 2007), questo film suonerà molto familiare. Eppure Love Exposure rappresenta un mutamento di direzione per Sono, che non ha mai tentato niente di così ambizioso. Il protagonista del film è Yu (Nishijima Takahiro), un liceale che diventa un ninja pervertito che con salti e capriole fotografa di nascosto le mutandine delle passanti. Ma non lo fa per il brivido erotico, bensì per accontentare suo padre, un prete cattolico (Watabe Atsuro), il quale insiste che Yu confessi i propri peccati, anche quando non ne ha commessi. Da quando inizia i suoi reportage fotografici, invece, ha molto da raccontare quotidianamente a papà.
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Tavernier si impegna in una storia in tempo di guerra. In Capitan Conan e La vita e nient’altro era di scena la prima guerra mondiale, qui è la volta della seconda. Parigi, 1942. Jean Devaivre è assistente alla regia e cerca di nascondere la sua attività in seno alla Resistenza. Lavora alla Continental, una società tedesca che da due anni produce film francesi. Jean Aurenche è invece sceneggiatore e poeta e si rifiuta di lavorare per i nazisti, cercando a modo suo di combatterli. Le esistenze di questi due personaggi sono destinate a incrociarsi. Presentato al Festival di Berlino.
Los Angeles, 2003. Paul è un reduce del Vietnam e fa parte di un corpo speciale per la sicurezza e la difesa contro gli attentati; Lana, figlia di un missionario, ha vissuto in Africa e torna dopo lungo tempo nel suo paese, a lavorare per una comunità di senzatetto. Entrambi hanno però qualcosa in comune. Paul è lo zio della ragazza, con la quale ha perso i contatti da molti anni. Incontratisi nuovamente, sono testimoni della morte di un uomo mediorientale, che consentirà loro di avvicinarsi l’un l’altro e di esprimere opposte visioni del mondo.
Un uomo che vive in un piccolo appartamento insieme a tre gatti ha un malore. Viene soccorso da un’infermiera che decide di portarlo in ospedale. Sul percorso però una serie infinita di imprevisti sembra trasformare un piccolo incidente di percorso in un vero incubo.
Gli ultimi 40 anni della Storia italiana sono raccontati attraverso le vicende di una famiglia. Il protagonista principale è Nicola (da cui parte il racconto) il quale, durante l’alluvione a Firenze del ’66, incontra e si innamora di una donna e la segue per vivere nella città di lei, Torino. E’ la Torino degli anni ’70, sullo sfondo del terrorismo, dei problemi operai e dell’immigrazione dal Sud. Questo è l’incipit che prosegue fino ai giorni nostri per chiedersi e chiederci che cosa sia cambiato da allora e cosa sia rimasto uguale. Un film per il quale era previsto solo il passaggio in televisione presente invece a Cannes nella sezione “”Un certain regard”. Un’opera storica raccontata in 6 ore, ma non solo: un affresco che descrive l’evoluzione dei costumi, dei rapporti familiari e le trasformazioni sociali, con qualche riflessione pungente sulla politica del nostro Paese. Dopo tanta televisione che si spaccia per cinema troviamo un film che puo anche passare in televisione ma che soprattutto consente al pubblico di rivisitare passioni, lotte, errori e speranze di una generazione e di quella che e’ venuta dopo.
A Mosca, sul finire del XIX secolo, il principe Dimitri Nechljudov viene chiamato dal tribunale in qualità di giurato popolare. Tra gli imputati c’è Katjuscia Màslova, prostituta che verrà ingiustamente condannata ai lavori forzati in Siberia per l’omicidio di un prepotente cliente. Il principe ricorda di averla sedotta, anni prima, nella casa delle zie, dove lei lavorava, e in preda al senso di colpa decide di cambiare radicalmente il proprio stile di vita, seguendola in Siberia con l’intenzione di sposarla. Ma ecco che tutto si stravolge quando sopraggiunge un altro carcerato, Simenon…
A Torino Carla – 35 anni, traduttrice, madre dei piccoli Gianni e Ilaria – è moglie ignara e felice dell’ingegnere Mario che una sera, improvvisamente, la lascia e se ne va a stare con una donna di dieci anni più giovane di lei. Disperazione, depressione, disgregazione, finché con l’aiuto di un vicino di casa riapre gli occhi. È il caso raro di un film sbagliato, dissonante, goffo, al servizio di un’attrice che si “butta fuori” con tale angosciata intensità da dare a tratti l’impressione di stare interpretando un proprio dramma personale. Fischiato a Venezia 2005 dov’era in concorso, è il frutto di una contraddizione difficile da analizzare se non per indizi esterni. Come se Faenza, innamorato perso del romanzo (2002) di Elena Ferrante, difficile da adattare perché a focalizzazione interna, avesse fatto d’impulso una duplice scommessa, con sé stesso e col pubblico, ma si fosse poi trovato a mal partito. Non a caso la sceneggiatura è firmata da lui e da 7 collaboratori fra cui 3 donne. Musiche di Goran Bregovic con la canzone del titolo scritta e interpretata da Carmen Consoli.
La prima informazione utile per lo spettatore è che questo NON è il seguito de Il Patto dei lupi, sgangherata ma divertente pellicola di qualche anno fa. Altra informazione utile è che questo L’Impero dei Lupi è altrettanto sgangherato ma meno divertente. Scritto da Jean-Christophe Grangé, autore dei due I Fiumi di Porpora e di Vidocq, L’impero dei lupi è il classico thriller/action/horror in salsa transalpina, che nulla aggiunge e nulla toglie alla pluralità di generi cui appartiene. La regia di Chris Nahon è tutto sommato valida, il ritmo ed il montaggio serrati, ma la storia pecca di credibilità e pathos, ricorrendo troppo spesso a soluzioni grandguignolesche per distrarre il pubblico da carenze gravi riscontrabili sia in sede di dialoghi (banali) che di sceneggiatura (poco credibile). Il cinema francese dà il peggio di sé quando cerca di imitare Hollywood e non riesce nemmeno ad ottenere gli stessi, scarsi, risultati: le scene action tendono ad essere davvero troppo “finte” e coreografate e la disamina del mondo dell’immigrazione clandestina è troppo superficiale e frettolosa. A salvare il film dalla totale insufficienza ci sono le performances dei tre protagonisti, in modi diversi, tutte positive: Reno è oramai “lo sbirro” per antonomasia, ma è sempre gradevole a vedersi, la Morante, dotata di indiscusso fascino, per una volta non è in lacrime, ma volitiva e tenace, e Arly Jover rappresenta una piacevole sorpresa di cui sentiremo ancora parlare. Film di genere, come il cinema italiano non sa o non vuole più fare da anni, è consigliabile solo per una serata di intrattenimento “a cervello spento”.
È tornato Quentin. La lunga e snervante attesa è finalmente finita ed il “suo” quarto film (o meglio la prima parte del suo quarto film) scorre sullo schermo. Già dai titoli di testa, i fan si tranquillizzano: l’elenco dei personaggi in stile lista della spesa, il primo piano del volto tumefatto dell’attrice con uno sparo e relativa dissolvenza in nero ci dimostrano che “colui che era conosciuto come genio” (da molti), è tornato brillante come un tempo. Kill Bill è stancante, una piacevole fatica per lo spettatore che dovrebbe rivedere alcuni momenti in slowmotion o più volte per apprezzarli appieno. La struttura stessa del film, a episodi con continui flashback tra passato e presente disorienta e stordisce. Tarantino inonda letteralmente ogni scena di forma e contenuti: occhiali da sole disposti in ordinate file sul cruscotto d una macchina, aerei di plastica che volano su scene di cartapesta, tute gialle indossate da Bruce Lee, alluci mobili, occhi cerulei e tanto, tantissimo sangue. Kill Bill è un Helzapoppin. Ed il gusto per la battuta spiazzante, per l’umorismo cinico e beffardo è rimasta la stessa. Se Jackie Brown voleva essere un omaggio al Blaxploitation, Kill Bill è exploitation puro e semplice. Quentin si circonda di un team che sa il fatto suo e spende parecchio: il risultato si vede. Non un’inquadratura fuori posto, non un movimento di camera infelice.Kill Bill, formalmente si avvicina alla perfezione. Gli anni hanno permesso di affinare una già ottima tecnica. La brillantezza di Tarantino è palesemente dimostrata anche dall’attenzione che il regista-spettatore mostra verso le tendenze cinematografiche che hanno dimostrato maggiore dinamismo negli ultimi anni, in primis l’animazione. Vero e proprio film nel film, i venti minuti firmati I.G. Production, che raccontano la tragica infanzia di una delle future vittime della bionda protagonista, nella fattispecie la strabica Lucy Liu, killer della Yakuza, rappresentano una rara gemma di intensità emotiva e spessore drammaturgico. Le sequenze animate della casa nipponica, oltre ad essere un felicissimo esempio di contaminazione metacinamatografica, dimostrano inequivocabilmente la maturità raggiunta da un mezzo espressivo, troppo spesso bistrattato dal cinema “tradizionale”. Una grande differenza rispetto alle passate produzioni si nota nella gestione degli attori da parte del regista. Le precedenti opere erano quadri corali in cui era difficile trovare un personaggio smaccatamente preponderante rispetto agli altri (ed infatti clamore suscitò ai tempi la decisione dell’Academy di candidare all’Oscar come attore protagonista Travolta e non protagonista Samuel L. Jackson per Pulp fiction, visto che la presenza sullo schermo era pressoché identica per spessore e minutaggio), in Kill Bill la Thurman, splendida e affascinanante, è in ogni inquadratura, in ogni scena, occupa da sola l’intero schermo e storia. Tarantino ha fatto bene ad aspettarla (il film trova tra le numerose cause del ritardo accumulato, la inaspettata gravidanza dell’attrice all’inizio delle riprese): Kill Bill segna la sua migliore performance di sempre. In ogni caso la presenza di nomi storici del cinema di serie B (ma dove?) come Sonny Chiba e Gordon Liu, nobilità e da spessore e sostanza ad un cast invero un po’atipico e non perfettamente amalgamato (basta con Lucy Liu!!!) Straordinaria la colonna sonora che spazia da brani dance anni 70 a motivi tradizionali giapponesi, per finire in morbide ballate blues: il giro del mondo in una ventina di pezzi che vanno a comporre un quadro fecondo come quello che accompagnò Pulp Fiction dieci anni fa. Impossibile descrivere appieno il carico di significati alti e bassi che Kill Bill lascia alla libera interpretazione dello spettatore. Se è facile notare un collegamento tra il coma da cui si risveglia la protagonista ed il sonno creativo di Tarantino (entrambi hanno la stessa durata… 4 anni), più sottili sono i riferimenti estetici e filosofi ad una violenza che, pur brutale, assume connotati parodistici e cartooneschi. Purtroppo però, come e forse più di altri film del regista, Kill Bill soffre in maniera drammatica di un difetto di non poco conto. È troppo lungo, anzi, troppo tirato per le lunghe e la durata di certi segmenti del film, specie la battaglia che porta al primo regolamento di conti (che in questa prima parte del film è l’ultimo in ordine temporale) stanca attori e spettatori. Intendiamoci, le coreografie e l’impatto scenico dei duelli ridicolizzano per intensità ed ferocia le laccate evoluzioni di Matrix et similia ma dopo venti minuti, la misura è colma. Evidentemente in fase di totale autocompiacimento, Tarantino allunga, distorce, plagia situazioni che potrebbero e dovrebbero risolversi con maggiore velocità. Il difetto,evidente, non nuoce però alla valutazione globale del film che de facto è agli stessi, alti livelli di Pulp Fiction. In effetti un altro difetto ci sarebbe: il dover aspettare altri quattro mesi per vedere la fine delle avventure della vendicatrice più determinata della storia del cinema. Ma questa è un’altra storia… (Quasi) capolavoro.
Un film di Chan-wook Park. Con Song Kang-ho, Lee Bzung Heon, Lee Yeong-ae Titolo originale Gong Dong Kyung Bi Gu Yuk Jsa. Storico, durata 110 min. – Corea del sud 2000. MYMONETRO Joint Security Area valutazione media: 2,50 su 2 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Il Nord e il Sud della Corea si incontrano lungo una striscia di terra che è denominata Joint Security Area. Un confine che, a dispetto del nome beffardo, non è affatto un simbolo di unione, ma un baratro a due sponde, su ognuna delle quali una Corea contempla e aspetta di veder sprofondare l’altra. C’è una riga di cemento a dividere gli avamposti dei due schieramenti dove le guardie trascorrono anni a fissarsi, senza mai interagire in alcun modo se non premendo il grilletto quando cede la tensione. È proprio uno di questi episodi che deve indagare il maggiore donna Sophie E. Jean: un soldato del Sud si è introdotto in una baracca della zona Nord e ha ucciso un ufficiale e un soldato nemici. Un folle commando “a solo”, sembrerebbe, ma la realtà nasconde un segreto insospettabile. JSA segna alla sua uscita (2000) il record di spesa per un film coreano, ma ripaga rapidamente tale sforzo divenendo il campione d’incassi di sempre del paese asiatico, e imponendosi come il film della svolta nell’industria cinematografica della Corea del Sud. Il segreto di questo successo è frutto della convergenza virtuosa di diversi fattori: un cast di stelle tutte in stato di grazia; una cura inedita per le ambientazioni e la scenografia; una regia consapevole e finalmente capace di osare. Ma soprattutto è la vicenda narrata a conferire a JSA la statura di un vero e proprio classico. Park Chan-wook, autore e regista, scandaglia la tensione tra Nord e Sud nel profondo, oltre la politica, oltre la storia, oltre il macroscopico conflitto, fino al punto in cui l’odio preconfezionato tra due parti di uno stesso popolo è ancora a portata di sputo, e di sorriso. Un solco divide gli uomini sia l’uno dall’altro che all’interno di ognuno di essi, dove il nazionalismo esasperato stride, con violenza, contro un riconoscimento reciproco fatto di usanze in comune, di una stessa lingua, di una fratellanza negata. Con JSA Park Chan-wook rappresenta il clichè della guerra insensata e rapidamente lo scardina, scattando una fotografia che ha l’aria di un souvenir da gita militare ma che a guardarla meglio nasconde vicende di drammatica umanità.
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Mission: Impossible è una serie cinematograficastatunitense, ispirata all’omonima serie televisiva, che dal 1996 vede protagonista (nonché produttore) Tom Cruise nel ruolo di Ethan Hunt, affiancato da personaggi ricorrenti come Benji Dunn (Simon Pegg) e Luther Stickell (Ving Rhames). La serie ha riscosso successo di critica e pubblico avendo prodotto, ad oggi, un fatturato pari a 3,4 miliardi di dollari in tutto il mondo.[1] Il sesto film (Mission: Impossible – Fallout), rilasciato a luglio 2018, è stato il più redditizio della saga a livello globale. Nel gennaio 2019 sono stati annunciati due sequel, diretti entrambi da Christopher McQuarrie, girati simultaneamente e programmati per le estati del 2021 e del 2022.[2] Tuttavia, per difficoltà tecniche insorte durante le riprese del settimo capitolo della serie cinematografica, la produzione ha abbandonato l’idea di girare immediatamente l’ottavo film
Un uomo si sveglia imprigionato nella intercapedine di un muro senza apparente via d’uscita. Com’è finito lì e come può uscirne? Strisciando nel buio, incontra una donna e insieme trovano la forza di andare avanti alla ricerca della libertà. Tsukamoto manifesta il suo istinto sperimentalista in 30 centimetri di spazio registico e 49 minuti di claustrofobica angoscia: rende benissimo un incubo senza capo né coda, ponendo il protagonista in situazioni sempre più estreme a ogni risveglio. Nella 1ª parte, la tensione si sviluppa in un crescendo costante, con mini-sequenze in cui i sensi sono acuiti dall’assenza di percezione del sé e dell’ambiente circostante. L’uso particolare delle luci e quello sapiente dei suoni immergono lo spettatore in un viaggio nel fastidio più puro e nell’incertezza dopo ogni centimetro conquistato. La 2ª parte, più criptica e simbolista, sembra invece suggerire che l’amore vinca su tutto e richiama la metafora platonica della mezza mela. V.M. 14 anni.
Koreeda, uno dei registi più interessanti e sperimentali del cinema giapponese contemporaneo, incontra il film in costume, e nasce un film intenso, divertente e innovativo come “Hana”. Soza è un giovane samurai mandato dal suo clan in un distretto povero dell’antica Edo per vendicare la morte del padre, ma la sua missione molto presto viene soppiantata dal coinvolgimento della vita del quartiere: Soza trova un ruolo felice all’interno del microcosmo grazie all’insegnamento ai bambini, l’onore del suo obiettivo si tramuta quindi in una dedizione di utilità sociale. Poche sono le scene spettacolari di duelli, forte è invece il ripetersi di azioni, anche senza rilevante significato, del quotidiano: Koreeda sceglie di guardare al di la del canoni classici del genere dei film sui samurai per lavorare sul realismo e su valori piu’ vicini alla società contemporaneo. Il suo “eroe” non è una figua mitica, ma un personaggio pienamente umano, attraversato dal dolore, sconfitte, comicità, amore e anche onore, un vero e proprio samurai dei giorni nostri!
Un serial killer si costituisce alla polizia confessando di aver commesso una terribile catena di omicidi che hanno come vittime unicamente donne. L’uomo viene arrestato, in attesa della sentenza di morte per i suoi crimini. Ma i delitti non cessano e portano evidenti indizi che fanno pensare allo stesso assassino. Le indagini sono affidate a due detective, molto diversi e spesso in conflitto tra loro.
Un aspirante giornalista americano di nome Matt, espulso ingiustamente da Harvard, decide di voltare pagina raggiungendo la sorella a Londra. Appena sbarcato nel vecchio continente, Matt si imbatterà nel proprio cugino acquisito, fratello del cognato, leader della frangia più violenta degli ultrà del West Ham United, football club londinese. Il giovane si ritroverà così catapultato in una guerra tra fazioni, vero e proprio motivo di vita per gli hooligans; accolto nella “famiglia”, ne sposerà la filosofia e non tarderà a rivestire un ruolo di rilievo tra i ranghi del gruppo. Distaccandosi per stile cine-genico dal nostro pur valido Ultrà, il titolo affronta in modo patinato ma onesto il ben noto turbine di violenza ai margini degli stadi, contestualizzando la spirale di rabbia non solo come solito sfogo a frustrazioni quotidiane, bensì come catalizzatore capace di mascherare il vuoto esistenziale in senso più ampio: si delinea così a tinte forti e in modo netto il fenomeno come un enorme Fight Club a cielo aperto, dove la componente violenta arriva ad essere completamente slegata da quella sportiva, ridotta a trascurabile pretesto. A fronte di un messaggio trasparente, stagliato su risvolti drammatici grazie al forte effetto contrasto, uno script che amalgamandosi con un discreto stile registico funziona tutto sommato anche a livello di story-telling.
Salvando la vita al boss Sawada, il cameriere Ishimatsu Rikuo fa il suo ingresso nel mondo della yakuza. Nell’ambiente è però considerato un cane rabbioso e il suo comportamento gli impedisce di crearsi una cerchia di seguaci fedeli come si converrebbe ad un vero leader. Imprigionato in seguito a un regolamento di conti, Ishimatsu fa amicizia con Imamura, un esponente della gang rivale Giyu, che al termine della condanna di cinque anni viene ad aspettarlo assieme a Chieko, donna a cui Ishimatsu è legato da un tormentato rapporto di amore e violenza. Una notte, credendo che Sawada lo voglia uccidere per aver picchiato dei superiori, non esita a sparare al proprio capo ferendolo gravemente. È la goccia che fa traboccare il vaso…
Valoroso yakuza, Ozaki manifesta evidenti problemi psichici, mettendo in imbarazzo il proprio clan. La decisione è sofferta ma necessaria: il boss degli Azamawari delega Minami, amico e fratello di sangue di Ozaki, di uccidere lo yakuza impazzito, e di liberarsi poi del corpo in uno sfasciacarrozze di Nagoya. Giunto a Nagoya, compiuta a metà la missione, Minami dovrà fronteggiare l’inspiegabile sparizione del cadavere del compagno: durante la disperata ricerca del corpo, il giovane vedrà oltre la facciata di una cittadina anonima, che nasconde in realtà verità grottesche ed è teatro di insospettabili fenomeni. Gommatevi le mani, plastificate i coltelli e sprangate le finestre: prese queste necessarie precauzioni, Gozu è un tunnel viscoso che dilata il tempo e i sensi, uno yakuza-movie imbevuto di estratto di pineale al punto da far apparire Paura e Delirio a Las Vegas alla stregua di una passeggiata nel parco. Onirico, edipico, transgenico, esterofilo, ricco di latte materno e simbolismi abbastanza da far rivoltare nella tomba persino Lorca, il titolo è in grado di far girare a caso le lancette degli orologi biologici di chiunque. D’altra parte, questo Dark Water “al latte” non mancherà certo di far girare a caso i cosiddetti di quei taluni non amanti dello sconquasso mentale, con lungaggini, esplicito estremo, trovate incomprensibili e chi più ne ha più ne metta; ma Miike è questo, prendere o lasciare.