Regia di Satyajit Ray. Un film con Soumitra Chatterjee, Victor Banerjee, Swatilekha Chatterjee, Gopa Aich, Jennifer Kapoor, Manoj Mitra, Indrapramit Roy, Bimala Chatterjee. Titolo originale: Ghare-Baire. Titolo internazionale: THE HOME AND THE WORLD. Genere Drammatico – India, 1984, durata 138 minuti. – MYmonetro 3,00 su 2 recensioni tra critica, pubblico e dizionari.
Uno degli ultimi lavori di Satyajit Ray, Ghare Baire, realizzato nel 1984, fu nominato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Ray aveva scritto la sceneggiatura negli anni Quaranta, molto prima di quella di Pather Panchali. Forse la ragione è che il tema del romanzo omonimo di Tagore, l’emancipazione delle donne, rappresenta una delle passioni di Ray. Ambientato durante il movimento nazionalista dei primi anni del XX secolo, quando gli Inglesi erano decisi a dividere il Bengali in diversi territori in base alla religione, il film fa appello alla pietà mentre rivela l’ipocrisia di alcuni leader del movimento nazionale. Tutto questo è realizzato attraverso un triangolo amoroso tra un nobile progressista bengalese Nikhil, che cerca di emancipare la moglie Bimala, mentre un leader nazionalista, Sandip, non solo lo sfrutta come un parassita ma seduce persino la sua ingenua consorte. Il risultato è un dramma intenso che non solo non ha perso rilevanza dopo un secolo dalla sua scrittura, ma che continuerà ad essere apprezzato allo stesso modo in futuro.
In una Los Angeles, una volta tanto non da copertina, si combatte la lotta senza esclusioni di colpi tra un falsario assassino (Dafoe) e due poliziotti decisi a eliminarlo a ogni costo.Ma il confine tra il bene e il male appare sempre più sfumato. Ancora una volta Friedkin confeziona un film di grande successo e di azione travolgente, avvincente e violento quanto basta.
Sulla faccia nascosta della Luna, un gruppo di scienziati idealisti ha gettato le fondamenta di una nuova società destinata a crescere libera e migliore di quella terrestre; ma, a mano a mano che scompaiono i “padri fondatori”, la nuova generazione si abbandona all’ignoranza, alla superstizione, alla rivalità interna. Il vecchio Jerzy, ultimo dei nobili colonizzatori, venerato dai giovani alla stregua di un profeta divino, lascia al popolo un testamento spirituale contenente gli insegnamenti per vivere in pace e, allontanatosi su una montagna al compimento dell’opera, affida la propria esperienza alle pagine digitali di un video-diario che spedisce con un razzo sulla Terra, a futura memoria per gli uomini. Il prezioso documento viene decifrato da Marek, solerte ricercatore spaziale e uomo psicologicamente tormentato, che decide di intraprendere un viaggio verso il mondo sconosciuto per verificare quanto realmente sia accaduto. Scambiato per la reincarnazione di Jerzy, Marek accetta di liberare il popolo caduto in soggezione di una crudele una razza di dominatori, ma durante la difficile guerra viene tradito e condannato a morte mediante crocefissione… La gente dovrà adesso affidarsi alle proprie forze e costruire responsabilmente una propria storia. Forse ripeterà gli errori degli uomini: di certo, crescerà nel religioso ricordo di un misterioso liberatore venuto un giorno dal cielo… Ispirato agli epici racconti della cosiddetta “Trilogia della Luna” scritta tra il 1900 e 1903 da Jerzy Zulawski (prozio del regista), il film ne ricalca la ripartizione in tre parti (la colonizzazione e l’imbarbarimento; l’avvento del messia e la sua morte; la rivelazione finale). Il significato simbolico della pagina scritta è esaltato sullo schermo da una ricercatezza formale che impreziosisce l’immagine senza togliere al contenuto la valenza filosofica. Al regista Zulawski si può forse rimproverare un eccesso di barocchismo e una tendenza all’autocompiacimento nell’uso personalissimo della macchina da ripresa, ma non gli si può negare una sincerità d’intento che riflette una profonda partecipazione alla causa della libertà e l’esigenza di una rilettura critica della storia degli uomini. L’esito del film è strettamente legato alla lunga e travagliata lavorazione. Cominciato nel 1976 tra il deserto di Gobi e il litorale baltico polacco, fu interrotto in più riprese a causa di problemi finanziari, pesanti intoppi burocratici e feroci censure politiche. Il risultato finale – ottenuto mediante il recupero delle parti filmate in anni diversi, nuovo montaggio e ulteriori integrazioni – dà chiaramente la sensazione di un’opera cresciuta nel tempo e che del tempo tradisce i segni: una sorta di sofferta meditazione personale che il regista ha rivendicato a segno di una sua maturazione di pensiero ma alla quale il Festival di Cannes del 1988 non ha unanimemente riconosciuto valore artistico.
Irresistibile ascesa del “professore di Vesuviano” che in carcere si fa una cultura, diventa il capo della “camorra riformata”, tratta alla pari con politici, servizi segreti, affaristi americani e terroristi. Prodotto da Reteitalia (Fininvest) e Titanus al costo di 4 miliardi (con un’edizione TV di 5 ore che non andò mai in onda), tratto da un romanzo di Giuseppe Marrazzo, ispirato alle imprese di Raffaele Cutolo e sceneggiato dall’esordiente G. Tornatore con M. De Rita, è un affresco di sangue, violenza e abominio. In bilico tra cinema americano d’azione e la sceneggiata napoletana, il 30enne regista governa la materia narrativa con ritmo sostenuto, capacità di sintesi, cruenti colpi di scena. È un melodramma nero con trasparenti allusioni al caso Cirillo. Ottimo Gazzara di malefica grandezza tra una colorita galleria di personaggi minori. Ritirato nel 1986 dopo 2 mesi di distribuzione e querelato.
l piccolo Fenix vive con disagio la sua infanzia nello scalcinato circo guidato dal padre Orgo, dissoluto e ubriacone, nonché lanciatore di coltelli. Concha, la mamma di Fenix, acrobata trapezista, è a capo di una singolare setta religiose dedita al culto di una presunta (la Chiesa ufficiale non la riconosce) santa martire, cui vennero tagliate le braccia dai suoi stupratori perché con esse cercava di difendersi. Gelosa, Concha, dopo aver assistito alla demolizione della sua chiesa da parte delle ruspe del proprietario del terreno, scopre la tresca tra Orgo e la passionale Donna Tatuata. Questa, a sua volta, l’abbiamo vista bistrattare con gusto la figliastra Alma, una gentile sordomuta che con Fenix ha stretto un profondo legame di solidarietà tra disillusi. Furente, Concha getta dell’acido sugli amanti, ma Orgo, reso pazzo dal dolore, usa i suoi coltelli prima per staccare di netto le braccia alla moglie e poi per sgozzarsi. La Donna Tatuata fugge portando con sé Alma, davanti agli occhi disperati di Fenix che in un solo momento ha perso tutto. Diventato adulto, Fenix è rinchiuso in un manicomio dal quale evade quando la mamma sbuca dal nulla per riprenderselo. I due iniziano una nuova vita artistica simbiotica, nella quale Fenix funge da “braccia” della madre in curiosi spettacoli all’interno di un oscuro teatrino. Ma il fragile equilibrio si spezza: sanguinosi delitti cominciano a verificarsi nella città e ricompare anche Alma, alla ricerca del suo Fenix. Ovvero, uno psycho-thriller alla maniera di Jodorowsky. Gli elementi tipici del genere ci sono tutti – e, a detta di Jodorowsky, infatti, proprio uno psycho-thriller in sostanza gli era stato chiesto di realizzare – a partire dal colpevole mentalmente disturbato con tanto di trauma infantile annesso per arrivare ai delitti truculenti con arma da taglio. Sorta di aggiornamento psicomagico della figura di Norman Bates, il protagonista vive il suo trauma quale tara ereditaria da una madre iperpossessiva ed egoista e da un padre scriteriato e affettivamente assente, tranne quando, anche lì comunque in modo possessivo, pretende di trasmettere al figlio i suoi valori (o disvalori) attraverso un sanguinoso tatuaggio. Ma se gli elementi dell’horror psicologico non mancano, a caratterizzare il film è la cifra autoriale sempre preponderante e originale di Jodorowsky, regista di pochi, ma generalmente indimenticabili, film. Calato in una realtà messicana trasfigurata dal filtro immaginifico del regista, il film è anche e forse soprattutto un turgido melodramma criminale a tinte forti, ricco di umori e spunti che si affastellano e si accavallano perlopiù mirabilmente su una trama lineare e, nei suoi tratti essenziali, perfino banale, sempre riscattata comunque dalla forza della visione. Alcuni momenti sono di una bizzarria sublime: il funerale dell’elefante è un esempio brillante, con la solennità della commemorazione rotta all’improvviso dalla corsa della moltitudine a fare a pezzi il cadavere dell’animale per cibarsene. Ma anche la simbiosi perfetta delle braccia di Fenix a sostituire quelle mancanti della madre è folgorante per efficacia e significanza. E c’è spazio anche per un divertito rimando al mondo del wrestling che tanto ha caratterizzato il cinema d’azione messicano: la figura della lottatrice Santa è un’irresistibile parodia di El Santo, eroe di innumerevoli film (molti dei quali diretti da René Cardona, il cui figlio René Cardona jr è qui produttore esecutivo). Ma le citazioni cinematografiche sono svariate, da L’uomo invisibile di James Whale al tema delle mani posseduti che richiamano le molteplici versioni di Le mani di Orlac. Certe ridondanze e alcuni compiacimenti narcisistici dovuti proprio alla sontuosità iconografica del film rallentano la rappresentazione e la rendono talora meno efficace, ma sono dettagli di imperfezione che non minano la riuscita complessiva di una pellicola che riempie gli occhi raccontando in modo anche struggente la difficoltà per i sentimenti veri e “puri” di sopravvivere alla grettezza umana. I figli di Jodorowsky, Axel e Adan, forniscono una perfetta adesione al personaggio in età diverse e guidano un cast funzionale e a cui di certo non era stato chiesto di recitare sotto le righe.
Londra, 1884. John Merrick è un’attrazione da circo, che si esibisce sotto il nome di “The Elephant Man” ai servizi del meschino Mr. Bytes: la terribile forma di neurofibromatosi che gli ha deformato il volto lo rende infatti ripugnante alla vista. Un giorno l’ambizioso dottor Frederick Treves assiste allo spettacolo di Bytes e interviene per trasferire John in ospedale ed esporre a un consesso di medici la particolare forma di malattia che lo colpisce. Quando scopre che Merrick non solo è in grado di leggere, ma è un uomo colto, gentile e raffinato, lo trasforma gradualmente in un protagonista della buona società della Londra vittoriana.
Durante una partita di pallanuoto, Michele, funzionario del PCI colto da amnesia, rimette insieme i pezzi della propria vita e discute sul disagio, la confusione, le contraddizioni della sinistra. E il sole dell’avvenire? Il più radicale, nevrotico, estremo film di Moretti. Sincero come una tegola in testa. Contro l’idiozia del potere, la chiacchiera, gli stereotipi del giornalismo, le ciance dei politici, la perdita della memoria storica.
Intelligente, romantico film che ripercorre la vita di Karen Blixen (una superlativa Meryl Streep). Sposata per convenienza con un nobile rozzo e fatuo, nel 1913 lascia la natia Danimarca alla volta di Nairobi, dove si innamora di un avventuriero inglese (Robert Redford). Ma l’Africa le offrirà alterne fortune e drammi profondi. Pollack ci offre l’immagine di un’Africa patinata e affascinante, pervasa da atmosfere d’epoca perfettamente ricostruite e splendidamente fotografata. Qualche lungaggine qua e là ma soprattutto una splendida prova di recitazione e ben cinque premi Oscar: al film, al regista e a sceneggiatura, fotografia e colonna sonora.
Melodramma in 2 parti, è la storia vera di Pu Yi che nacque (1906) imperatore e morì (1967) cittadino qualsiasi della Repubblica Popolare Cinese. Tragitto di un uomo dall’onnipotenza alla normalità, dal buio della nevrosi alla luce della quotidianità, ma anche parabola di un attore coatto, di qualcuno costretto – bambino dai compatrioti, adulto dai giapponesi invasori – a recitare una parte che, in fondo, gli piace. Cinema alla grande e talvolta grande cinema. Nella 1ª parte, la più operistica, bloccata nella Città Proibita di Pechino, il regista deve aggirare le trappole del colossal in costume, nella 2ª gli ostacoli rigidi della biografia. Il film più armonioso di B.B. e, forse, con Piccolo Buddha , il più accademico. La voce di Lone è di Giancarlo Giannini. 9 premi Oscar: film, regista, sceneggiatura (con Mark Peploe e Enzo Ungari, basata sulle memorie di Pu Yi e su quelle di Reginald Johnstone, il suo precettore scozzese), fotografia (V. Storaro), montaggio (G. Cristiani), musica (Ryuichi Sakamoto, David Byrne e Cong Su), scenografie (Ferdinando Scarfiotti, Osvaldo Desideri, Bruno Cesari), costumi (James Acheson), sonoro (Bill Rowe, Ivan Sharrock). César in Francia (miglior film straniero) e Globo d’oro a New York (miglior film dell’anno). Nel 1998 B.B. autorizzò una nuova versione di 219 minuti.
Per impedire la chiusura della loro vecchia scuola, due fratelli organizzano un concerto. Combinano tanti guai che l’intera polizia di Chicago li insegue con ogni mezzo. Un classico della nuova comicità demenziale, un film di culto per i fan di Belushi. Anche l’orecchio ha la sua parte con molti divi del Rhythm and Blues, da Ray Charles a Cab Calloway e Aretha Franklin. Scritto da Landis con D. Aykroyd e costato 27 milioni di dollari, è basato su una coppia di personaggi popolari nella trasmissione TV Saturday Night Live . Tra gli ospiti di passaggio i registi Frank Oz e Steven Spielberg e l’ex fotomodella Twiggy.
Gli ultimi anni di John Reed (1887-1920), giornalista americano socialista che, dopo una tempestosa relazione con Louise Bryant, parte con lei per Pietroburgo dove sta per scoppiare la rivoluzione. Scriverà I dieci giorni che sconvolsero il mondo (1919). Uno dei pochi film hollywoodiani dove gli intellettuali sono raccontati con simpatia, e l’unico che ha per protagonista un comunista rispettabile e sensibile. Un po’ squilibrato nel rapporto tra privato e pubblico, tra sentimenti e idee, ma con vigorose pagine specialmente nella parte finale in Russia. 12 nomination e 3 premi Oscar (regia, fotografia di V. Storaro e M. Stapleton attrice non protagonista nella parte di Emma Goldman).
La biografia di Frances Farmer, attrice hollywoodiana brava, ma sfortunatissima. Sedicenne, Frances turba il perbenista ambiente di Seattle, negli anni Trenta, con un saggio sulla “morte di Dio”, che la fa sospettare di filocomunismo, sospetti aggravati da un viaggio in Urss. La ragazza, che vuol diventare attrice, tenta dapprima la via del teatro, poi quella del cinema. Ma l’ambiente cinematografico, contestato, la distrugge.
Un produttore cinematografico (Mulligan) tenta di trasformare l’unico fiasco della sua carriera in un successo aggiungendovi sequenze pornografiche, ma ha bisogno della “collaborazione” della moglie (Andrews), affermata star. Il prolifico Edwards firma una satira amara e violentissima sugli intrallazzi dello star-system hollywoodiano, dipingendo senza mezzi termini un grottesco ritratto di corruzione, incompetenza e imbecillità che colpisce, graffia e diverte. Le lettere che compongono il titolo sono le iniziali di “son of a bitch”, epiteto con il quale Edwards marchia con humour e rabbia ogni personaggio del film e il film stesso.
Jack Torrance è uno scrittore in crisi in cerca dell’ispirazione perduta. Per trovarla e sbarcare il lunario accetta la proposta di rintanarsi con la famiglia per l’inverno all’interno di un gigantesco e lussuoso albergo, l’Overlook Hotel, solitario in mezzo alle Montagne Rocciose. L’albergo chiude per la stagione invernale e il compito di Jack sarà quello di custodirlo in attesa della riapertura. Nel frattempo, pensa Jack, lui potrà anche lavorare al suo nuovo romanzo. Con lui, la devota mogliettina Wendy e il figlioletto Danny, per nulla entusiasta della prospettiva.
Nel colloquio con chi gli affida il lavoro, Jack viene messo a conoscenza che qualche anno prima proprio in quell’hotel è successo un tremendo fatto di sangue: un precedente custode era impazzito, forse per la solitudine, e aveva sterminato la propria famiglia con un’ascia prima di suicidarsi.
Jack assicura che niente del genere potrà capitare a lui. All’albergo, il giorno della chiusura, Jack riceve le consegne e le istruzioni, Il posto è fantastico e tutto sembra perfetto. Ma Danny comincia a vedere strane cose e l’inverno all’Overlook Hotel sarà molto lungo. Stanley Kubrick, uno dei pochi autentici geni del cinema, non si è mai preoccupato di “abbassarsi” all’utilizzo del cinema di genere, cogliendo anzi l’occasione del confronto con stilemi e convenzioni stratificate per trarne nuova linfa creativa. E, incidentalmente, magari per rivoluzionare il genere di cui si occupava, come è di certo successo per esempio nel caso della fantascienza e di 2001: Odissea nello spazio. Con Shining, Kubrick opera in modo non dissimile. Prende un romanzo horror di successo (di Stephen King) e lo interpreta a modo suo andando con geometrica lucidità all’essenza del genere e nello stesso tempo allontanandosene per elaborare un percorso del tutto personale.
Al servizio di due vecchie signorine norvegesi, Babette Hersant, cuoca francese emigrata, spende una forte somma vinta alla lotteria per allestire un pranzo per dodici persone che è un’opera d’arte gastronomica. Tratto da un racconto (nel volume Capricci del destino, 1958) di Isak Dinesen, pseudonimo di Karen Blixen, è un piccolo gioiello di delicata grazia e di struggente eppur serena malinconia. Ottimo esempio _ quasi come The Dead di Huston _ di adattamento cinematografico. Oscar per il miglior film straniero.
Nell’Inghilterra della regina Vittoria (1867), una donna troppo libera sconvolge la vita di un ricco gentleman. Più di 100 anni dopo 2 attori, entrambi sposati, hanno una passionale relazione sul set di un film ispirato alla stessa vicenda. “L’amore è soltanto follia” (Shakespeare). Da un romanzo (1969) di John Fowles, sceneggiato da Harold Pinter su un doppio binario temporale. Accolto con molte riserve dai critici che lo giudicarono un film sbagliato con qualche passaggio di magica suggestione, pur apprezzandone la recitazione, il Technicolor (Freddie Francis) e le scene (Assheton Gorton). Suggestiva musica notturna (Carl Davis) di un quartetto per due voci. Da rivalutare. La Streep è più che brava. Candidatura all’Oscar per lei (la sua prima) e anche per la sceneggiatura e il montaggio (John Bloom).
Mentor, di Psycon, vuole le menti degli abitanti della base lunare Alpha per alimentare il suo computer vivente, il quale, per mezzo della trasformazione molecolare, dovrebbe ridare al suo pianeta morente l’antico splendore. Quando la transmuta Maya, sua figlia, capisce l’inganno del padre, aiuta Koenig a fermarlo. Unica superstite di quel mondo condannato, si trasferirà su Alpha. Nel frattempo la Luna si trova in una deformazione spaziale che la proietta a 5 anni luce da Aquila 1, con la quale John e Tony stavano agganciando un relitto alieno. Fortunatamente sul relitto c’è una registrazione del defunto comandante che permette ai due terrestri di calcolare le esatte coordinate del varco spaziale. Sulla Luna, intanto, Maya febbricitante perde il controllo molecolare e mette a rischio l’incolumità della base
Un film di Jouan Simon Piquer. Con Edmund Purdom, Christopher George, Paul SmithHorror, durata 90 min. – Gran Bretagna 1986. MYMONETRO Pieces valutazione media: 1,00 su 1recensione. Un adolescente si diverte mettendo insieme i pezzi di un puzzle che rappresenta una ragazza nuda. Sua madre, che lo scopre, decide di dargli una lezione, ma il ragazzo la previene ammazzandola. Il delitto passa impunito ma quarant’anni dopo la vicenda torna a galla.
Salvatore Di Vita, regista affermato a Roma, torna dopo 40 anni nel natio paese siciliano per i funerali del proiezionista Alfredo che gli insegnò ad amare il cinema. Il ricordo del passato lo aiuta a ridefinire il presente. Oscar 1989 per il film straniero e 2° premio a Cannes. È un’elegia sulla morte del cinema in sala nelle cadenze di un melodramma popolare, ma rivisitato con l’ottica scaltra di un cineasta di talento, europeo e, insieme, profondamente siciliano. Tornatore fa un cinema della ridondanza, ma anche di una forza generosa di cui l’anemico cinema italiano degli anni ’80 aveva bisogno. L’edizione premiata è frutto del radicale taglio eseguito dal regista con il produttore Franco Cristaldi (fu tolto un blocco di 25 minuti, eliminando il personaggio della Fossey), dopo le prime presentazioni nelle sale. Distribuito all’estero come Cinema Paradiso . 5 premi della British Academy: film straniero, sceneggiatura, Noiret, Cascio, musiche di Ennio e Andrea Morricone.
Un film di Eric Rohmer. Con Marie Rivière, Amira Chemakhi, Sylvie Richez, Rosette Titolo originale Le rayon vert. Commedia, durata 98′ min. – Francia 1986. MYMONETRO Il raggio verde valutazione media: 3,61 su 13 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
È luglio e Delphine, impiegata parigina che va per i trenta, non sa dove andare in vacanza e con chi. Suo inquieto andirivieni da Parigi in Normandia, in montagna e a Biarritz dove finalmente, incontrato un ragazzo giusto, vede _ guardando il sole che tramonta nell’Atlantico _ il raggio verde, quel fenomeno di rifrazione che dà il titolo al romanzo (1882) di Jules Verne. Chi lo vede, dice Verne, riesce a leggere meglio nei propri sentimenti e in quelli degli altri. Girato in 16 mm con largo margine d’improvvisazione nei dialoghi per gli attori (soprattutto per Rivière, attrice o figura rohmeriana a 18 carati), è un film chiaro, delizioso, n. 5 della serie “Commedie e proverbi”. Leone d’oro a Venezia 1986. Diffuso in Francia su Canal+ prima che nelle sale.
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