Estate del 1959, nell’Oregon. Quattro ragazzini partono per un’escursione di cinquanta chilometri lungo la ferrovia, affrontando varie avventure e scoprendo il cadavere di un ragazzo scomparso giorni prima. Da un racconto (The Body, 1982) di Stephen King, sceneggiato da Raynold Gideon e Bruce A. Evans, nominati all’Oscar, uno dei film più belli sull’adolescenza degli anni ’80, nel miracoloso equilibrio della memoria tra sentimento e avventura. Sarebbe piaciuto a Truffaut. Bravissimi i quattro ragazzini. Fotografia stupenda di Thomas Del Ruth. Musica: Jack Nitzsche con la canzone “Lollipop”. Il titolo è lo stesso di una canzone di Ben E. King.
Un film di Alain Cavalier. Con Catherine Mouchet, Helene Alexandridis, Aurore Prieto Biografico, Ratings: Kids+16, durata 90′ min. – Francia 1986. MYMONETRO Thérèse valutazione media: 4,00 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
È la storia di Thérèse Martin, nata nel 1873 ad Alençon, che, entrata sedicenne nel convento di Lisieux seguendo l’esempio delle due sorelle, vi morì di tubercolosi nel 1897. Fu elevata agli altari nel 1925 col nome di Santa Teresa di Lisieux. È il caso raro di un film laico, appoggiato più all’antropologia che alla psicologia, che, attraverso la leggerezza e la concretezza della vita quotidiana, suggerisce il senso del sacro, la religione vissuta come energia dell’amore. Premio speciale della giuria a Cannes e 6 premi César.
Anno 1912. Un anziano pittore, Ladmiral, vive in campagna con una governante. Come spesso accade, una domenica, arrivano a fargli visita il figlio maggiore con la moglie e i tre bambini. Nel pomeriggio si fa viva anche la figlia maggiore, che completa, seppur per poco, il tranquillo e delicato quadretto familiare. Un film fatto di poco o nulla, eppure intensamente emozionante e meritatamente premiato a Cannes nel 1984.
Un travestito, artista di cabaret, si fa credere un nobile omosessuale polacco dalle ambizioni musicali. È il successo. Ma le cose si complicano quando un boss americano inizia a girarle intorno, poco convinto dalla sua identità gay.
Ho inserito questo film, che non viene mai citato nelle classifiche colte e pochissimo ricordato dal grande pubblico. Le ragioni sono molte. La prima è, naturalmente, la qualità del film. La seconda è Huston, che lo diresse pochi giorni prima di morire, sapendo di morire e rappresentando, con un coraggio più che umano, il mistero che andava incontrando. La terza ragione è James Joyce, uno dei massimi scrittori del Novecento, che nessuno aveva mai tradotto in film. Joyce è la letteratura. Col suo celeberrimo Ulisse, e ancora di più col successivo Finnegan’s Wake, aveva stravolto i concetti del racconto, non più logico e conseguenza di fatti ma conseguenza di parole, con assonanze, analogie, memorie improvvise e atemporali. In tutto questo c’era davvero poco spazio per le immagini. Ma Joyce nel 1906 aveva scritto i racconti Gente di Dublino, diciamo secondo lo stile tradizionale. Un libro straordinario. Il cinema aveva già attaccato monumenti inattaccabili, come Mann, Kafka e Proust, riuscendo faticosamente ad aderire a storie e significati. Autori cinematograficamente difficili, specie gli ultimi due. Furore può anche essere condiviso da Steinbeck e Ford, e Il gattopardo da Lampedusa e Visconti, ma Il processo è di Kafka non di Welles, e Un amore di Swann è di Proust, non di Schlondorff. Huston riprese l’ultimo dei racconti di Dublino, dal titolo I morti. A Dublino, nel 1904, le sorelle Morkan danno un ballo annuale. È invitata la buona borghesia. Ci va Gabriel, con sua moglie Gretta. Si fa musica, c’è una cena, si parla di tutto: pettegolezzi, arte, il tempo, politica. Prima di lasciare la casa Gretta sente una canzone che letteralmente la sconvolge. La donna ammutolisce, chiude gli occhi, dolorosissimamente. Il marito se ne accorge. Lei gli racconta che quella canzone era cantata da un ragazzo, Michael Furey, morto a diciassette anni di polmonite, perché era rimasto sotto la pioggia per salutare lei che stava per partire. Gabriel è a sua volta sconvolto: non ha mai conosciuto davvero sua moglie, era all’oscuro di una vicenda tanto importante. Di notte, con Gretta che dorme, Gabriel pensa alla morte. Parla a se stesso guardando il buio oltre la finestra. Joyce conclude il racconto così: “Neve cadeva su ogni punto dell’oscura pianura centrale, sulle colline senz’alberi; cadeva lieve sulle paludi di Allen e più a occidente cadeva lieve sulle fosche onde rabbiose dello Shannon. E anche là, su ogni angolo del cimitero deserto in cima alla collina dov’era sepolto Michael Furey. S’ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle tombe, sulle punte del cancello e sui roveti spogli. E l’anima gli svanì mentre udiva la neve cadere stancamente su tutto l’universo, stancamente come se scendesse la loro ultima ora, su tutti i vivi e i morti”. Ma Huston non se la sente di far morire il protagonista e queste parole le fa dire a lui. Il film dunque interviene sulle straordinarie parole di Joyce con due licenze: un finale diverso e soprattutto le immagini. Huston mostra il buio, la neve sui vetri, un campanile nero, il ghiaccio sul fiume. La morte secondo le immagini del cinema. Grande cinema e grande letteratura: un soccorso reciproco e tempestivo.
Regia: Kurt Neumann, Edward Bernds, Don Sharp, David Cronenberg, Chris Walas
La trilogia classica degli anni ‘60 (L’Esperimento del Dottor K., La Vendetta del Dottor K. e La Maledizione della Mosca) e gli spettacolari film degli anni ‘80 (La Mosca e La Mosca 2). Cinque film per altrettanti viaggi nella paura in compagnia di scienziati pazzi, mutazioni genetiche ed esseri raccapriccianti. La saga “body horror” più famosa di tutti i tempi in versione restaurata in un box completo ricco di extra.
Il franchise è il più longevo tra quelli tuttora in attività e vanta anche il record per essere l’unica tra le serie “decennali” ad aver avuto nella sua storia una continuità di uscita delle pellicole (infatti la pausa maggiore è stata quella tra 007 – Vendetta privata e GoldenEye, che è durata 6 anni e mezzo).
Per festeggiare il fidanzamento tra Angelo, giovane borghese di Bologna, e Silvia, appartenente a una famiglia di contadini agiati di Porretta Terme, nel febbraio 1936 in un casolare dell’Appennino si svolge un pranzo di venti portate. Film ambizioso e maturo questo (16°) di Avati, affidato coralmente a una compagnia di 25 e più attori che recitano, benissimo, quasi sempre in presa diretta. Qualche inverosimiglianza. 2 Nastri d’argento (film, sceneggiatura), 1 Donatello e 1 Ciak.
Rientrato in Italia dopo cinque anni di assenza, Svitol comincia un viaggio attraverso la memoria collettiva di chi aveva vent’anni nel 1968. Ne uccide più la depressione che la repressione. 1° film sulla generazione del ’68, è disperato ma con lampi di allegro sarcasmo, commosso ma a ciglio asciutto, amaro ma ironico. L’aria del tempo c’è. Bucci è da 10 e lode.
Sette ex studenti contestatori degli ultimi anni ’60 all’università del Michigan si ritrovano ai funerali di un amico e passano il weekend insieme. Ricordano i vecchi tempi, parlano del presente e del futuro. È diventato un film di culto per gli ex sessantottini di mezza Europa. Sapiente e un po’ ruffiano ritratto collettivo di una generazione disillusa, divertente e amaro, sostenuto da un dialogo scoppiettante e da un’ottima squadra di attori, sebbene “troppo scritto”. Presenza virtuale di Kevin Costner come l’amico morto. Figurava in alcuni flashback, eliminati al montaggio dal regista. Scritto da L. Kasdan con Barbara Benedek. Tre nomine agli Oscar (film, sceneggiatura, Close). Sullo stesso tema John Sayles, in Return of the Secaucus 7 (1979), è più autentico e originale.
Henry Walton Jones Jr., meglio noto come Indiana Jones, è un personaggio cinematografico ideato da George Lucas, un archeologo protagonista di una serie di quattro film d’avventura scritti da Lucas e diretti da Steven Spielberg e di una serie televisiva. Il suo ruolo è stato interpretato sul grande schermo dall’attore Harrison Ford.
Film
I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark, 1981). Nel 2000 il film è stato reintitolato Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta.
Opera breve ma non per questo non interessante. La cinepresa segue una persona anziana che, quando vuole escludere i rumori molesti, si leva la protesi auricolare, restando così in un mondo assolutamente muto. Tale pratica renderà difficoltoso il rientro a casa delle sue nipoti. Detto così può sembrare poca cosa, ma dalle immagini traspare “poesia”, cosa notevole per un lavoro breve. Molto bella anche la fotografia, con colori pastello, che ritrae i muri delle abitazioni ricoperti da muffe e muschi. Merita la visione.
Vita, attività politica e morte di Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948): studi a Londra, apprendistato in Sudafrica, attività politica, digiuni di protesta, morte violenta per mano di un bramino e solenni funerali. Nell’impersonare il grande apostolo dell’indipendenza dell’India e della non violenza, Kingsley è straordinario. Appartenente alla categoria dei colossi con un’idea, il film è coinvolgente, convincente, un po’ didattico. 8 premi Oscar: film, regia, Kingsley, sceneggiatura (John Briley), fotografia, costumi, scenografie, montaggio.
Un tranquillo musicista di Spoleto ha una sorella tanto inquieta e combinaguai, quanto lui è tranquillo e mite. La morte della madre riporta a casa la sorella dopo molti anni. Ne appprofitta per reclamare dal musicista la soluzione di tutti i suoi guai (ha una relazione con un uomo anziano, un figlio da un ungherese, e un giorno anche una donna gelosa le spara). La moglie del musicista, stufa della cognata invadente, se ne va. Fratello e sorella rimangono soli. Forse felici.
Una serie di intricate vicende di un gruppo di persone tutte ossessionate dal sesso: da Reza Niro, un diverso, a Sexilia, ninfomane. Recuperato nel 1990 sulla scia del successo di Almodóvar (che qui appare nelle vesti del regista di fotoromanzi), è un filmaccio sgangherato, senza centro, piuttosto mal recitato. Il peggior torto che gli si può fare è quello di prenderlo sul serio.
Un film di Pedro Almodóvar. Con Eusebio Poncela, Carmen Maura, Miguel Molina, Bibì Andersen, Antonio Banderas. Titolo originale La ley del deseo. Drammatico, durata 106′ min. – Spagna 1987. – VM 18 – MYMONETRO La legge del desiderio valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Gli amori di un regista omosessuale, diviso tra due ragazzi (uno poi ucciderà l’altro), e quelli di sua sorella, attrice procace che un tempo era suo fratello, transessuale immerso nella memoria dell’amore incestuoso per il padre col quale era scappata di casa e per il quale aveva cambiato sesso. Il film che impose in Italia Almodóvar, poligrafo eccentrico di origine contadina, ex hippy, teatrante, cineasta alternativo della trasgressione: un cocktail di romanticismo e buffoneria, surrealismo e grottesco, melodramma e farsa. Il trionfo del cattivo gusto, ma volutamente portato all’estremo e condito con umor nero di inconfondibile segno ispanico. Può affascinare o irritare, certamente diverte.
Si vede discretamente ma è probabile che sia un vhsrip
Morto il fidanzato per overdose, cantante di flamenco si rifugia nel piccolo convento madrileno delle Redentoras Humilladas dove le suore si iniettano eroina, allevano una tigre e molte galline, scrivono sotto pseudonimo romanzetti spinti, s’impegnano in un futuro viaggio in Thailandia come corrieri della droga. Il che non impedisce loro di essere pie, generose, amanti del prossimo. Questo melodramma raffreddato con i veleni del grottesco non è una parodia: i sentimenti di queste donne, suore o peccatrici, sono presi sul serio. È sbracato e divertente a causa della strategia retorica di Almodóvar che spiazza lo spettatore, suscitando in lui “la percezione e l’accettazione di un mondo in cui il disordine eccede e sfida ogni ricomposizione” (A. Wilde), strategia che sarebbe uno dei caratteri del postmoderno. Maciullato dalla distribuzione (e dalla censura) italiana.
Pepi coltiva pianticelle di marijuana sul balcone. Un poliziotto la scopre e accetta di non denunciarla in cambio della sua verginità. Per vendicarsi, Pepi chiede aiuto all’amica Bom che seduce la moglie masochista del poliziotto e lo fa bastonare dagli amici, che sbagliano e pestano il suo gemello. Opera prima del trasgressivo regista spagnolo, ex impiegato della SIP, omosessuale e rockettaro, girata in 16 mm nel 1978, è un divertente, caotico, ironico quadro di un microcosmo che riesce a far ridere, a scandalizzare o imbarazzare con canagliesca grazia amorale.
Una donna sta per essere abbandonata dal suo amante, un famoso doppiatore cinematografico. Mentre cerca di rintracciarlo s’imbatte nel figlio dell’amante, in un’amica che crede di essere inseguita dalla polizia e infine nella nuova fiamma del suo ex. Il film ha ottenuto 1 candidatura a Premi Oscar, ha vinto un premio ai Nastri d’Argento, Il film è stato premiato al Festival di Venezia, 1 candidatura a Golden Globes,
Il nucleo centrale del quarto lungometraggio del regista spagnolo Almodovar è rappresentato da Gloria, casalinga tutta casa e cucina. Vive col marito tassista un’esistenza miseranda e ha accumulato una grande frustrazione. È la sfortuna in persona. Non è però un film drammatico secondo la follia del suo autore, è una parodia che non manca di evidenziare aspetti emblematici di quotidianità, e il dramma esiste.
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