Nel 1770, durante il primo dei suoi tre viaggi in Italia, il quattordicenne Amadè (com’era familiarmente chiamato Wolfgang A. Mozart) arriva col padre Leopold (Capolicchio) in una villa fuori Porta San Vitale, nei pressi di Bologna dove ha da sostenere un esame di contrappunto all’Accademia dei Filarmonici. Fa amicizia col figlio del suo ospite, il conte Pallavicini (Delle Piane), e amoreggia con una fanciulla. Avati racconta Mozart adolescente nel suo sentirsi e sapersi diverso, ma anche nello strenuo sforzo di essere – o rimanere? – eguale agli altri coetanei. In una cornice di ricercata eleganza figurativa (fotografia di Pasquale Richini) si prende molte libertà con la storia, ma lo dichiara con bella semplicità. “Avati inventa una memoria favolista … è il cineasta del non accaduto, del possibile suggerito” (J.A. Gili). Premio speciale per i valori tecnici a Venezia.
Uno dei migliori lavori di John Woo con citazioni da La magnifica illusione e Duello al sole. Il killer del titolo durante una sparatoria acceca per sbaglio una ragazza. Decide di rimediare all’errore proteggendola, all’insaputa di lei.
A Saigon il cap. Willard dei servizi speciali riceve l’ordine di risalire un fiume della Cambogia, raggiungere il colonnello Kurtz, che sta combattendo una sua feroce guerra personale, ed eliminarlo. Ispirato a Cuore di tenebra (1902) di Joseph Conrad, sceneggiato da J. Milius, splendidamente fotografato da V. Storaro, è il più visionario e sovreccitato film sul Vietnam, trasformato in mito. Delirante, eccessivo, diseguale, ricco di sequenze straordinarie, assai discusso e talvolta estetizzante nel suo ostentato brio stilistico, nella sua spropositata ambizione di grandiosa complessità. È una riflessione amara, forse disperata, sull’imperialismo USA, erede del colonialismo europeo, sulla follia omicida della civiltà occidentale, sul legno storto dell’umanità. Palma d’oro a Cannes, ex aequo con Il tamburo di latta . 2 Oscar: Vittorio Storaro (fot.) e Walter Murch (suono).
The Karate Kid è un franchise multimediale statunitense legato alle arti marziali, creato dallo sceneggiatore Robert Mark Kamen e prodotto dalla Columbia Pictures. La serie segue il viaggio di vari adolescenti in formazione che sono costretti a difendersi da soli dopo essere stati vittime di bulli, di solito della loro stessa età. Sono aiutati da un mentore che insegna loro le arti marziali in modo che possano affrontare i loro rivali o dimostrare il loro valore in un torneo.
Nel 2010 è uscito un remake, diretto da Harald Zwart, con una trama simile ma con un diverso gruppo di personaggi. Nonostante nel paese di produzione abbia mantenuto il titolo originale, The Karate Kid, il remake si è concentrato sul kung fu, poiché il film era ambientato in Cina; in Italia il film è uscito con il titolo The Karate Kid – La leggenda continua.
Momenti nelle vite dei componenti di un piccolo gruppo di gangster di New York distribuiti su circa 40 anni. La storia, narrata con frequente uso di flashback e flash forward, è incentrata su David “Noodles” Aronson e i suoi compagni di sempre (sono cresciuti insieme nel Lower East Side): Cockeye, Patsy e Max. Si va dagli Anni Venti al tramonto del Proibizionismo per finire agli Anni Sessanta quando Noodles, ormai anziano, torna a New York. Tutto ciò non necessariamente in quest’ordine. “C’era una volta in America non è un film sui gangster. È un film sulla nostalgia di un determinato periodo, di un determinato tipo di cinema, di una determinata letteratura. Sono certo di aver fatto “C’era una volta il mio cinema” più che C’era una volta in America“. Così Sergio Leone su uno dei capolavori più maltrattati della storia del cinema. Il regista non aveva il diritto di final cut e la distribuzione americana rimaneggiò il film in più modi fino allo scempio di risistemare la narrazione in ordine cronologico. Se c’è un film in cui il flusso temporale legato ai ricordi, ma al contempo annebbiato da un presente che si disperde nelle volute di fumo dell’oppio, è fondamentale, quel film è C’era una volta in America . Il capolavoro di Leone ha trovato una versione definitiva in cui vengono reinseriti ben 26 minuti reintegrandoli nella giusta collocazione e portando così il film alla sua vera durata. La violenza che il film non ci risparmia si conferma come elemento costitutivo di Noodles, un uomo ‘inadatto’ al presente dal quale vorrebbe sottrarsi per restare ancorato a dei ‘valori’ che ha visto scomparire un po’ alla volta. Ispirato all’autobiografia “Mano armata” di David Aaronson pubblicata da Longanesi nel 1966, il film (e di, va ricordato, sceneggiatori come Leo Benevenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco “Kim” Arcalli, Franco Ferrini e lo stesso Leone) scardina ogni linearità narrativa per entrare nello sguardo e nella memoria di un uomo a cui il ricordo porta al contempo sollievo e sofferenza. È un film proustiano nel senso più pieno del termine C’era una volta in America. Proustiano nel suo ‘farsi’ ma anche nel suo riproporsi. Offrendoci un’opportunità per ripensare, a 28 anni di distanza, non solo al cinema che, secondo Leone, non c’era più ma anche al ‘suo’ cinema. Che non c’è più. Senza facili nostalgie ma con un po’ di rimpianto.
Durante una sosta in un pianeta sconosciuto un essere s’introduce nella Nostromo , gigantesca astronave da carico, e semina terrore e morte tra i sette membri dell’equipaggio. Sopravvive soltanto la coraggiosa Ripley. È un thriller fantascientifico con componenti di horror e suspense che conta poco per quel che dice, ma che lo dice benissimo, grazie a un apparato scenografico di grande suggestione e a un ritmo narrativo infallibile. La sua chiave tematica è la paura dell’ignoto, perciò pesca nel profondo. Oscar per gli effetti visivi a Carlo Rambaldi, H.R. Giger, Brian Johnson e Nick Allder. Da novembre 2003 è in circolazione una nuova edizione rimasterizzata in digitale curata da R. Scott. Colonna musicale di J. Goldsmith.
Dal romanzo The Short Timers di Gustav Hasford: in un campo di addestramento dei Marines nel South Carolina diciassette giovani civili vengono trasformati in combattenti (macchine da guerra e di morte); partito per il Vietnam, Joker, uno dei diciassette, lavora per un giornale militare e si trova coinvolto nell’offensiva del Tet (1968). Per la prima volta in venticinque anni Kubrick fa i conti con la realtà di oggi, nuda e cruda, andando al di là del Vietnam per prendere a bersaglio l’atrocità del secolo, il tempo sporco della Storia. Iperrealistico, è un film in prosa asciutta, quasi sciatta, di una secchezza fertile, attraversato da una gelida brezza di umor nero sulla violenza dell’istituzione militare. Diffama la guerra e l’esercito. Girato interamente in Inghilterra. La voce italiana del sergente Hartman (Ermey) è di Eros Pagni.
Vengono narrate le vicende di 4 famiglie che vivono rispettivamente negli Usa, in Urss, in Germania e in Francia nel corso di 45 anni di storia che precedono, attraversano e seguono la Seconda Guerra Mondiale. La musica (che comprende, oltre a pezzi jazz e canzoni popolari, il Bolero di Ravel e brani di Chopin, Liszt, Brahms e Beethoven) fa da trait d’union tra le differenti storie. “La memoria compie al nostro posto delle scelte che intervengono sulla nostra personalità e fanno di ognuno di noi il riflesso di ciò che il nostro cervello ha immagazzinato”. Così Claude Lelouch che alla memoria affida la riuscita di questo film dalle proporzioni monumentali già nell’impianto cronologico. Si va infatti dal 1936 al 1981 e il materiale di base è fornito dai suoi ricordi personali e da ciò che gli è stato raccontato.
Dal romanzo omonimo di Masuji Ibuse. La lenta agonia dei sopravvissuti all’atomica – che un aereo USA lanciò il 6 agosto 1945 su Hiroshima – è raccontata attraverso le vicende quotidiane di una coppia di anziani coniugi e della loro nipote. Quel senso della famiglia – tante volte raccontato nel cinema di Y. Ozu, Gosho, Naruse – è visto con un’angolazione nuova: il lavoro lento della morte dentro di noi, e la solidarietà amorosa che alimenta. All’evento – chiamato dai giapponesi gembaku , il lampo – si dedicano una ventina di minuti, in 2 sequenze separate, che non sono i momenti migliori. Pur negli accenti sommessi di una cronaca secca, S. Imamura rimane impari alla tragicità del fatto. La solennità del passo narrativo attenua il coinvolgimento emotivo, ma la tenerezza della giovane Yasuko (la cantante Y. Tanaka) e il suo rapporto col folle reduce Yoichi (preso, come alleggerimento tragicomico, da una novella dello stesso M. Ibuse) rimangono memorabili. Edizione originale con sottotitoli.
Tre vite che sembrano parallele, ma in vari momenti s’intersecano. Quella di un intellettuale, pezzo grosso della tv, con un brillante avvenire politico. Quella di una ragazza di campagna che diventa attrice e poi stilista di moda. E infine quella di un dirigente industriale, che non riesce a stare al passo con le nuove tecnologie. La donna è, in successivi momenti, amante del primo e principale del secondo. Il commento è affidato a un noto medico-biologo, che si serve dei tre casi per illustrare le sue teorie anche filosofiche (con la caduta delle persone in stato di angoscia, il primo passo verso la malattia e la morte).
I subita sono tradotti dai subeng con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Taiwan, 15 Agosto 1945: L’Imperatore nipponico Hirohito annuncia la resa incondizionata alle forze alleate, e i giapponesi lasciano l’isola di Formosa, sotto il loro dominio dal 1894. Taiwan, 10 Dicembre 1949: Chiang Kai-shek e i vertici del Kuomintang si rifugiano a Taipei, fondando la Repubblica Cinese, di cui Chiang fu il primo presidente. City of Sadness svolge il suo corso tra questi due estremi temporali, attraverso le vite della famiglia Lin, nella cittadina rurale di Chiu-fen. Hou Hsiao Hsien dipinge con il suo stile elegante ed ellittico una saga familiare che condensa e dilata insieme l’eco di quel tumultuoso periodo della storia di Taiwan.
Finita la scuola, Ah-Ching e i suoi amici passano il loro tempo a bere e a combattere nell’isoletta di pescatori in cui vivono. Stanchi di quella routine, tre di loro decidono di recarsi nella città portuale di Kaohsiung per cercare lavoro. Grazie ad alcuni parenti trovano un appartamento. Ma non appena si insediano, Ah-Ching si innamora della fidanzata di un vicino di casa. Da quel momento, i tre si trovano ad affrontare la dura realtà della grande città.
Howard è un giovane papero che sta godendo il meritato riposo dopo un’intensa giornata di lavoro nella sua casa nel pianeta dei paperi, davanti alla Tv con una rivista in mano. Improvvisamente una forza incontenibile lo rapisce e lo catapulta nello spazio profondo in un viaggio verso l’ignoto.
Bernard e Mathilde si sono amati con passione e si sono lasciati con rabbia. Si ritrovano otto anni dopo, entrambi “felicemente sposati”. Il fuoco si riaccende. Meglio durare o bruciare? Abitano in campagna, vicino a Grenoble (patria di Stendhal…). “Stupido” come una canzone di Edith Piaf o di Gino Paoli, ma dice la verità sull’amore: fa male. 20° film di F. Truffaut, il suo 6° film d’amore e, purtroppo, il penultimo. F. Ardant lo illumina come una fiamma bruna. È, a modo suo, anche un thriller: un film d’amore hitchcockiano. L’amore-passione in cifra quotidiana.
Regia di James Ivory. Un film Da vedere 1987 con Denholm Elliott, Hugh Grant, James Wilby, Helena Bonham Carter, Rupert Graves. Cast completoTitolo originale: Maurice. Genere Drammatico – Gran Bretagna, 1987, durata 140 minuti. Consigli per la visione di bambini e ragazzi: V.M. 14 – MYmonetro 3,86 su 10 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. Dal romanzo (postumo) di E.M. Forster. Due compagni di università si innamorano tra di loro. Dopo la scuola, uno, timoroso della dura morale vittoriana, si sposa e cerca di dimenticare il suo passato omosessuale. Per l’altro è più difficile. Dopo essersi tormentato a lungo, finisce per accettare la propria identità sessuale. Ivory soddisfa la sua ambizione di portare in cinema il romanzo “proibito” di Forster, ma la tematica ormai suona un tantino scontata (dopo molti film sull’argomento).
Due pellegrini affamati partono da Roma verso il Nord, attraverso la campagna; lungo la strada altri si aggiungono a loro, ciascuno diverso dall’altro, ma accomunati dal bisogno di cibo. Scritta con Vincenzo Cerami, è una fiaba comico-poetica, dominata dallo sguardo dal basso del suo autore: distaccato, affettuoso, semplice eppur misteriosamente trasfiguratore. È lo sguardo di un anarchico epicureo che guarda il mondo come se per istinto (o antica saggezza?) sapesse già tutto. Qualche squilibrio: il film per le sale è la riduzione di un’edizione per la TV di 3 puntate.
Traffichino dalle scarpe spaiate è incaricato dalla moglie di un operaio dell’Italsider di trovare il marito scomparso. Nella sua traversata del ventre di Napoli lo attendono sorprese. Commedia grottesca in cui la denuncia sociale sul degrado di Napoli ha cadenze di farsa, ma sfora nel fantastico sociale e ricorre alle tecniche dell’investigazione. Scritto da Elvio Porta con il regista. Musiche di Tullio De Piscopo e Pino Daniele.
È la seconda volta (dopo Re per una notte) che Scorsese si imbatte nella commedia (questa volta da incubo metropolitano kafkiano). Il progetto non è stato sviluppato personalmente dal regista, coinvolto in quel periodo nella preparazione de L’ultima tentazione di Cristo che subì una cancellazione improvvisa da parte della Paramount a sole quattro settimane dall’inizio delle riprese. Dopo aver respinto mucchi di script, ricevette la sceneggiatura di Fuori orario dai produttori Amy Robinson e Griff Dunne (scritta in realtà da Joe Minion uno studente della Columbia University come saggio finale di un corso di cinema del regista jugoslavo Dusan Makavejev). La sceneggiatura sarà trasformata in modo sostanziale dal regista. Fuori orario è stato da subito considerato “una rinascita” nella sua carriera (grande successo di critica e premio alla miglior regia al Festival di Cannes) e il film potrebbe essere letto come una sorta di sua autobiografia emotiva. Scorsese rivelò che le tribolazioni di Paul Hackett (che appaiono un po’ come una versione derisoria e crudele degli ultimi anni della sua vita) riflettono la frustrazione professionale di quel periodo. Ma anziché piangersi addosso, il cineasta infonde al film un’energia inattesa: mai un incubo raccontato al cinema è stato più gioioso. Girato in sei settimane a New York, il film dimostrerà che il regista è in grado di realizzare egregiamente un progetto low-budget (semmai è un ritorno alle origini). Per la prima volta Scorsese lavora con il direttore della fotografia tedesco Micheal Ballhaus (da sempre collaboratore di Fassbinder e quindi abituato alle produzioni indipendenti). Scorsese collaborerà con lui altre sei volte dal Colore dei soldi a The Departed. In seguito alle esplorazioni notturne della New York di Taxi driver (1976), il regista trasforma SoHo (noto quartiere degli artisti della Grande Mela) in un lurido, claustrofobico paesaggio capace di scatenare nel protagonista le più intime ansie e paure. La città non è quindi un semplice ambiente fisico naturale, bensì la proiezione dei fantasmi e delle angosce di un solo individuo.
Bella moglie di diplomatico britannico a Parigi passa due ore al giorno in un appartamento subaffittato. Il marito geloso le fa visita e la trova in compagnia di uno scimpanzé. Sarebbe più semplice se vivessero insieme. In bilico tra commedia borghese e favola enigmatica sui temi della tolleranza e del conformismo, scritto da Jean-Claude Carriére, già collaboratore di Buñuel, è un film casto, freddo, di controllata tenerezza che rispetta i personaggi.
Siamo a Berlino, dopo la fine della prima guerra mondiale. Qui Else, una poetessa ebrea, conosce Tania, una sionista venuta dalla Russia. Tania spiega ad Else il suo proposito di andare in Palestina per partecipare alla nascita di un collettivo agricolo. Arriva il nazismo e dopo essere scappata in Svizzera Else raggiungerà l’amica a Gerusalemme ma vi troverà rovina e distruzione. Un film poetico, in alcuni momenti criptico, ma di forte suggestione. La musica è di Markus Stockhausen.
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