Tratto da due novelle di Guy De Maupassant, il film racconta di due giovani amici che utilizzano il loro tempo libero per scoprire il mondo delle donne e per approfondire le loro idee politiche; uno dei due giovani morirà per un incidente, proprio quando sta per diventare padre.
Alla morte del marito, la lucana Rosaria Parondi si trasferisce a Milano, dove abita il primogenito Vincenzo, con gli altri quattro figli maschi: Simone comincia una carriera nella boxe, Rocco fa il garzone in una stireria, Ciro va a lavorare in fabbrica e Luca, il minore, rimane a casa con la madre. L’ossessione di Simone per la prostituta Nadia, della quale si invaghirà anche Rocco, porterà alla tragedia e alla disgregazione della famiglia Parondi. A dodici anni da La terra trema, Luchino Visconti torna ad occuparsi della questione meridionale, questa volta, dal punto di vista di chi è costretto ad emigrare: le difficoltà di adattamento in una nuova realtà sociale, la condizione di chi si sente straniero in una città ostile, tra sogni di ritorno alla terra natia e voglia di integrazione, un certo verismo nelle modalità di racconto fanno di Rocco e i suoi fratelli un seguito ideale del precedente capolavoro ispirato a “I Malavoglia”. Anche qui c’è una fonte letteraria precisa, la raccolta “Il ponte della Ghisolfa” di Giovanni Testori, cui si aggiungono suggestioni da altre opere quali “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann, “L’idiota” di Dostoevskij e “Uno sguardo dal ponte” di Arthur Miller, che il regista portò in teatro solo due anni prima. Ma al di là della sua dimensione di saga famigliare, evidentissimi gli echi verghiani, di maestoso romanzo popolare, questo capolavoro del cinema anni Sessanta è soprattutto un grande melodramma, un miscuglio sapientissimo di sentimenti forti, pulsioni ancestrali e arcaiche, uno dei risultati più alti di Visconti, che mette in scena la sua Milano attraverso gli occhi di chi ne è respinto, allontanato, fagocitato. Compatta da un punto di vista drammaturgico, poderosa da quello descrittivo, è il caso di un’opera in grado di superare l’evidente carica ideologica grazie a virtù riferibili ad una mano registica che ha pochi eguali: «I valori assai alti di Rocco e i suoi fratelli […] vanno, come al solito, individuati, più che nelle intenzioni ideologiche, nella concentrata densità drammatica del racconto, nella sua grandiosità epico-melodrammatica e drammaturgico-romanzesca, nei livelli altissimi della scrittura filmica e dell’orchestrazione polifonica, nella potenza con cui vengono delineati i sentimenti e fatte esplodere le passioni» (Lino Micciché, Luchino Visconti, Marsilio). Fu osteggiato dalla censura che impose un insensato “annerimento” nella sequenza dello stupro di Nadia, tra le scene madri più forti e sconvolgenti di tutto Visconti. Il titolo è un duplice omaggio che mescola insieme “Giuseppe e i suoi fratelli” di Mann e il nome di Rocco Scotellaro, scrittore e poeta interessato alla cultura e alla società contadina, di cui il regista era un appassionato lettore.
In quattro racconti, quattro registi di scuole e di esperienze diverse, riflettono sui condizionamenti dell’uomo nella società contemporanea e sull’angoscia di oggi e di domani. “Il mondo nuovo”, l’episodio firmato da Godard (per l’interpretazione di Jean-Marc Bory e Alexandra Stewart, e con musiche di Beethoven) prospetta un mondo scampato alle radiazioni di un’atomica nel quale gli uomini, svuotati di ogni qualità, esprimono in un linguaggio allusivo la loro disperazione esistenziale. L’olocausto immaginato dal regista francese non reca tracce visibili sulla pelle dell’uomo, ma ne rivela il vuoto interiore e l’impossibilità del sentimento: la società immaginata da Godard è, in definitiva, il ritratto esasperato di quella moderna e la città nella quale si svolge la breve vicenda è Parigi, assunta (come sarà anche in Alphaville) a simbolo di metropoli del futuro. L’episodio è girato in puro stile “nouvelle vague”, con voce fuori campo e inquadrature dal taglio documentaristico. Il titolo con il quale la pellicola è più conosciuta è composto dalle prime sillabe dei cognomi dei registi. Gli altri episodi sono: “Illibatezza” (di Rossellini), “Il pollo ruspante” (di Gregoretti), “La ricotta” (di Pasolini).
Giappone, 1960. In un complesso residenziale, un giovane studente introverso osserva i suoi vicini attraverso un telescopio. Il voyeurismo di un giovane isolato e cupo, provocherà un’esplosione di follia.
In un’isoletta del Sud degli Stati Uniti vivono il guardacaccia Miller (Scott) e l’orfana quattordicenne Ewie (Meersman). Sbarca sull’isola il nero fuggiasco Travers (Hamilton), accusato di avere violentato una bianca. Miller gli danneggia l’imbarcazione e, durante la convivenza a tre, approfitta di Ewie. Arrivano un pastore (Brook) e un bianco razzista (Denton)… Tratto dal racconto Travellin’ Man di Peter Matthiessen, sceneggiato con H.B. Addis, è un film che spiazza lo spettatore (quando uscì spiazzò anche molti critici) per la sua assenza di manicheismo, il modo insolito di rappresentare il tema razzista e di proporre un superamento dei pregiudizi e dei tabù. Persino l’abuso di minore assomiglia molto a una seduzione consensuale: il ritratto di Ewie è quello di una ninfetta consapevole della propria attrazione erotica. Aveva ragione Truffaut a dire che Buñuel aveva saputo “con grande abilità mescolare la nozione di personaggi simpatici e antipatici, e mescolare le carte del gioco psicologico tenendo un discorso perfettamente chiaro e logico”. Uno dei 4 film di Buñuel con la fotografia di Gabriel Figueroa. Premio speciale della giuria a Cannes 1960.
Corinne e Roland, coppia di borghesi, partono in auto per il weekend. Incappano in lunghe code, sanguinosi incidenti, strani incontri (Emily Brontë, Cagliostro, Alice, Saint-Just) prima di essere catturati dal Fronte di Liberazione di Seine-et-Oise. Da una barbarie all’altra, il 15° film di Godard comincia come un pamphlet satirico sulla borghesia neocapitalistica e la civiltà del tempo libero e diventa una favola visionaria, profetica e apocalittica (annuncio del ’68?). Famosa la lenta carrellata di quasi 10 minuti senza stacchi sulla strada intasata di auto in coda.
Nanà (Karina), giovane commessa, diventa una professionista del marciapiede. Ha anche un protettore, Raoul (Rebbot) che, oltre a darle istruzioni e porle divieti, la vende. Non essendo l’acquirente d’accordo sul prezzo, ne nasce un alterco, seguito da una sparatoria… 4° lungometraggio di J.-L. Godard (e il 3° con la danese Karina, nome d’arte di Ann Karin Bayer), è considerato da alcuni l’opera meno invecchiata e più adulta del suo primo periodo, quella in cui le invenzioni appaiono più congeniali e integrate a un progetto che non è soltanto cinematografico. I 12 quadri _ nei quali Nanà vive la sua vita, rivelandone casuali frammenti _ hanno registri diversi (sociologico, documentario, letterario, cinematografico: quello in cui al cinema Nanà piange vedendo la morte della Giovanna d’Arco di Dreyer) con linguaggi diversi, non uniti da una logica narrativa, ma giustapposti, forse ricombinabili: “vivere la propria vita”, accettarla com’è, mostrarla nella sua mescolanza di realtà e di finzione (rappresentazione), ma anche aiutarne una comprensione, aprire a un possibile giudizio. Affrontato altrove in modi obliqui, allusivi, episodici, qui il tema della prostituzione diventa centrale. Lo spunto è quello di un’inchiesta giornalistica (Où en est avec la prostitution? di Marcel Sacotte), ma “le domande e le risposte vere vengono da ben più lontano, come rivela la citazione da Montaigne che apre il film: ‘Bisogna prestarsi agli altri e donarsi a sé stessi’” (A. Farassino). Premio speciale della giuria a Venezia.
Francesca è una liceale diciassettenne di buona famiglia. Assistiamo a una sua giornata in cui non entra in orario a scuola per andare a far visita a Enrico, un architetto che ha vent’anni più di lei e l’ha conosciuta bambina. Rientrata in classe assisterà a un conflitto sull’amore tra studentesse e poi trascorrerà il resto del tempo in parte con l’amico Renato nel lussuoso palazzo di una affascinante quanto algida principessa e poi in un antico edificio alla cui ristrutturazione sta lavorando Enrico. Le cronache di un tempo avrebbero iniziato così: “Correva l’anno…”. È un incipit appropriato per questo film perché ‘correva l’anno 1960’ e Alberto Lattuada si mostrava nettamente in anticipo sui tempi dell’evoluzione della morale sessuale senza per questo rinunciare a una lettura problematica di quanto stava per verificarsi nel tessuto sociale. Lo sguardo in macchina finale di Francesca rimanda a un altro ‘storico’ sguardo in macchina: quello dell’Antoine Doinel de I quattrocento colpi di Truffaut che lo precede di un anno sugli schermi. Certo il contesto socio-culturale dei due film si colloca a distanze siderali ma in entrambi gli sguardi c’è il bisogno di risposte che gli adulti non hanno saputo dare, c’è l’incertezza di un futuro pieno di incognite.
È questo che i censori dell’epoca non compresero fermandosi solo alla superficie di una scena iniziale (il risveglio dopo un sogno erotico) brutalmente mutilata nonché sull’epilogo. Ricorda Lattuada: “La censura fece un massacro perché la ragazza non si pentiva di aver perduto la verginità e non piangeva, non andava dal prete, non andava dalla madre e neanche da un’amica. Si guardava in uno specchio e nasceva sul suo volto un sorriso leggerissimo, pieno d’innocenza, con la coscienza che da quel momento cominciava per lei l’altra problematica, quella dell’amore: ora la partita diventava molto più grossa, era quella dei sentimenti.” La debuttante Catherine Spaak offriva il suo giovane corpo, nascosto da un babydoll e con un solo nudo a mezzo busto di schiena, a una riflessione che, strutturandosi narrativamente nell’arco di un giorno, mostrava un microcosmo vuoto come la casa in cui Francesca abita con la famiglia. Se le figure femminili brillano per la loro vuota apparenza (protagonista esclusa) sono i maschi a risultare psicologicamente irrisolti. Enrico passa dal sottile piacere della seduzione di una vergine all’innamoramento che non sarà corrisposto mentre Renato ha la bellezza del Jean Sorel giovane e una sfrontatezza dietro cui resta ben poco da scoprire. Rimane il fratello Eddy, testimone frastornato della fondamentale fase di passaggio attraversata dalla sorella. Entrambi sono cresciuti in un mondo apparentemente protetto da sommovimenti che però stanno cominciando a presentarsi e Francesca mostra la consapevolezza necessaria per affrontarli da donna libera.
Una giornalista francese indaga negli Stati Uniti sulla morte di un amico comunista. I suoi avversari la sorvegliano e cercano di impedirle di scoprire la verità.
Film politico collettivo diviso in 11 sequenze con introduzione ed epilogo: 1) “Bomb Hanoi!”; 2) “A parade is a parade”; 3) “Johnson piange”; 4) “Claude Ridder”; 5) “Flashback”; 6) “Camera Eye”; 7) “Victor Charlie”; 8) “Why We Fight”; 9) “Fidel Castro”; 10) “Ann Uyen”; 11) “Vertigo”. 6 registi e 150 tecnici per un film militante _ girato in 16 e 35 mm, prodotto e supervisionato da Chris Marker _ che sposa esplicitamente una tesi, quella contro gli Stati Uniti e a favore del popolo vietnamita. Fu il preludio agli Stati generali del cinema, creati in Francia durante il maggio ’68, e aprì la strada ad altre esperienze collettive di cinema militante che furono fatte in Francia e in altri Paesi d’Europa dopo il ’68 e negli anni ’70. Le sequenze documentaristiche in senso stretto (portaerei americana, Saigon, la giungla, manifestazioni pro e contro la guerra) sono dovute a Ivens, Lelouch, Klein o ad anonimi operatori di cinegiornali. L’episodio più citato (“Camera Eye”) è la confessione di Godard che _ tra paradossi, sincerità, dubbi, incertezze, esibizionismi _ ricalca la tesi guevarista dei molti Vietnam; il più problematico (“Claude Ridder”) è di Resnais-Sternberg che tenta il ritratto di un intellettuale parigino “di cattiva coscienza e dunque di mala fede”. Come organizzatore e impaginatore, il vero autore del film è Marker con la sua visione terzomondista e la sua appassionata utopistica volontà che il Vietnam parli all’Europa.
La fiction racconta le commoventi avventure di un medico di provincia, il dottor Andrew Manson, interpretato da Alberto Lupo, impegnato a lavorare in un piccolo villaggio minerario del Galles. Molte delle scene sono state però girate nelle miniere di Gavorrano.
Le strade di una metropoli moderna (Milano) sono sparse dei cadaveri di una rivolta giovanile; la gente, indifferente e frettolosa, cammina tra loro evitando di toccarli; la legge dello Stato lo proibisce, pena la morte. La giovane Antigone decide di dar sepoltura al fratello, contro il parere dei familiari e del fidanzato Emone, figlio del primo ministro. La aiuta Tiresia, giovane straniero che parla in una lingua sconosciuta e disegna sui muri un paese. Ispirato all’Antigone (441 a.C. ca) di Sofocle. Mitico più che politico, onirico più che realistico, qua e là ridondante nel macinio dei suoi simboli, impregnato di un raro sentimento di pietà e di dolore misti a rabbia civile, ha forse il torto di aver contrapposto alla fiera ostinazione di Antigone non l’empietà dello Stato moderno in generale, “bensì una specie di orwelliano 1984 capitalista.” (Alberto Moravia). Fotografia (Techniscope): Giulio Albonico; musiche: Ennio Morricone. Gianni Amelio aiutoregista.
Nel 1928 in una cittadina del Kansas nasce l’amore tra due liceali, contrastato dai rispettivi genitori e dalla loro repressione sessuale. In preda a una forte depressione.
Nel segreto di un laboratorio celato all’interno della sua clinica psichiatrica, il dottor Vance si dedica a trapianti di organi per restituire bellezza alla cognata (e amante) Laura rimasta sfigurata in seguito ad un incidente del quale egli si sente responsabile. Giselle, una ragazza ricercata dalla polizia, intuisce parte della verità quando, nel suo vagabondare, si rifugia nella casa di cura: insospettita dalla sparizione di alcune giovani ricoverate, commette lo sbaglio di ricattare il dottore (il vero assassino) credendo che Laura, la misteriosa reclusa che si aggira nel laboratorio, sia l’artefice dei delitti. Elio Scardamaglia rielabora senza molta convinzione la fantamedicina di Occhi senza volto e di Seddok, l’erede di Satana inquadrandola negli stereotipi del greve horror all’italiana. William Berger, nel ruolo del folle dottor Vance, si salva a stento dalla mediocrità dell’insieme.In alcune filmografie la regia è attribuita a Lionello De Felice.La pellicola è conosciuta anche con i seguenti titoli alternativi: Les nuits de l’épouvante, The Blade in the Body, The Murder Clinic, The Murder Society, Night of Terrors, Revenge of the Living Dead.
Negli anni ’20 Cornelius, vanaglorioso critico musicale, fa visita a Felix, violoncellista di fama mondiale, per completare la sua biografia. Nella grande villa neoclassica, mentre Felix rimane invisibile, ne incontra la moglie e sei donne, tutte innamorate di lui. 26° film di I. Bergman, il 1° a colori (preziosa fotografia di Sven Nykvist), 4ª e ultima delle sue commedie con risvolti di farsa grottesca (l’irresistibile sequenza dei fuochi artificiali). Più che nelle altre, è evidente la contaminazione col teatro: tolti 5 minimi movimenti, la cinepresa è ferma. Nel suo libro Immagini (1990-92) I. Bergman lo sbriga in tre righe, definendolo “completamente artefatto”. Quasi tutti i critici lo maltrattarono, accusandolo persino di cattivo gusto, nonostante l’ineccepibile eleganza stilistica. È sicuramente la sua commedia più acida e sbeffeggiante, un divertito tiro al bersaglio contro i critici, ma non sono risparmiati censori, impresari, artisti. E donne. Da affissione una battuta attribuita a Goethe: “Il genio è colui che riesce a far cambiare idea a un critico”.
Tornando dalla villeggiatura Anna ed Ester, due sorelle, e il figlioletto di una delle due sono costretti a fermarsi in un paese sconosciuto a causa di una grave crisi del male che sta uccidendo Ester. Il rapporto conflittuale tra le due donne esplode. Con qualche punta di esibizionismo, radiografia del sesso come violenza, malattia, presagio di morte è un film che ha dato scandalo, suscitato discussioni, provocato gli interventi della censura, subito manomissioni nel doppiaggio. “Quando oggi rivedo Il silenzio , devo ammettere che in qualche parte risente di una certa letterarietà … Per il resto non ho alcuna recriminazione da fare” (I. Bergman).
Tre attori d’avanguardia – un uomo, la moglie, il suo amante – finiscono davanti a un giudice-censore per uno spettacolo accusato di oscenità. Il giudice fa replicare la scena incriminata, si eccita, muore d’infarto. In un linguaggio estremamente coinvolgente, da psicodramma, è una tesa e angosciosa interrogazione sull’arte e sulla morale comune con qualche passaggio enigmatico. È un esempio estremo di cinema a porte chiuse, un esercizio per cinepresa e 4 attori. Straordinari. Realizzato per la TV svedese fu messo in onda nel 1969.
Filmato in bianco e nero con una durata di circa 50 minuti, The War Game rappresenta il preludio e le settimane che seguono un attacco nucleare sul Regno Unito da parte dell’Unione Sovietica.
Nato come Vangelo ’70, privato dell’episodio ipertrofico di V. Zurlini che diventò Seduto alla sua destra. Con “L’indifferenza” Lizzani rilegge la parabola del buon samaritano in chiave di neorealismo stradale. In “L’agonia”, con J. Beck e la compagnia del Living Theatre, Bertolucci ribalta la parabola del fico sterile in un originale esercizio stilistico tra cinema, mimo e teatro d’avanguardia. Con “La sequenza del fiore di carta” Pasolini si serve di N. Davoli on the road per una metafora sull’impossibilità dell’innocenza. In “L’amore” di Godard, parafrasi politica alla Brecht della parabola del figliol prodigo, Castelnuovo impersona la Rivoluzione e la Guého la Democrazia: i due si amano, ma non possono convivere. In “Discutiamo, discutiamo…” Bellocchio e un gruppo di studenti dell’Università di Roma dissertano in toni grotteschi sulla scuola di classe e la contestazione studentesca. Finanziata dall’Italnoleggio, è una curiosa operazione di sperimentazione linguistica.
Lemmy Caution ha una missione da compiere ad Alphaville, città del futuro di un’altra galassia, dove tutto è diretto da Alpha 60, computer che ha messo al bando i sentimenti. Rivisitazione ironica di 2 generi popolari (spionaggio e fantascienza) in un cocktail gradevole. Ma Godard ne fa una ricerca sugli elementi di base del cinema: la luce e il suono. Alphaville è Parigi, capitale del dolore.
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