In una città dell’Italia centrale, i figli dei ricchi tirano avanti nella mediocrità, mediocri anche come peccatori. Malriuscito affresco di vita provinciale, appesantito da moralismo schematico. Bel bianconero di G. Di Venanzo e suggestive musiche di G. Fusco. C. Cardinale ha la voce di Adriana Asti.
Dal romanzo di Alberto Moravia. Protagonisti sono Carla e Michele, i giovani figli di una signora romana dell’alta società (siamo alla fine degli anni Venti). Il patrimonio della famiglia si sta prosciugando per le ruberie di Merumeci, l’amante della madre. Carla e Michele però non riescono, per abulia, a riprendere in pugno la situazione. Carla diverrà l’amante di Merumeci e Michele, dopo un goffo tentativo di uccidere lo speculatore, accetterà di vivere nella sua ombra e di diventare l’amante di un’amica della madre.
Un film di Folco Quilici. Con Denis Puhira, Al KauweDocumentario, durata 95 min. – Italia 1962. MYMONETRO Ti-Koyo e il suo pescecane valutazione media: 3,67 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un bambino trascorre le sue ore in compagnia di un piccolo pescecane. Dopo alcuni anni, diventati ambedue grandi, si ritrovano e si dedicano al recupero di ostriche nella laguna. Dovranno smettere per colpa di alcuni avidi pescatori.
Paolo Casaroli, “cervello” di numerose rapine effettuale nel 1950, uccide il poliziotto presentatosi a casa sua in base a precise informazioni. Spaventato, il bandito e il suo luogotenente iniziano una fuga
Gravemente ferito ma sopravvissuto ad uno spaventoso incidente aereo, il pianista Stephen Orlac è sottoposto con successo alla delicatissima operazione chirurgica del trapianto di entrambe le mani. Quando scopre che il donatore era stato condannato a morte con l’accusa di omicidio, Orlac cade nella suggestione di essere predestinato a seguire la via del delitto e il sinistro Néron, illusionista di music-hall, ne approfitta per renderlo complice e strumento dei suoi crimini. Nuovo adattamento del romanzo di Maurice Renard, interpretato da Mel Ferrer nel ruolo di Orlac e da Christopher Lee in quello di Néron. Ferrer si esibisce al pianoforte suonando Beethoven e ad un tratto smette di sorridere credendo di vedere sulle sue mani i guanti dello strangolatore.La vicenda segue i modelli del mystery o dell’horror poliziesco, ma lo spunto delle mani sostituite e, apparentemente, dotate di propria volontà si richiama ad una scienza dei trapianti anatomici ancora fantastica e di “frankensteiniana” memoria. Il film venne girato simultaneamente in due versioni, secondo una prassi commerciale ormai in disuso, l’una destinata al mercato internazionale e l’altra alla distribuzione francese.
Primi anni del Novecento. In un cimitero di campagna si sta seppellendo una bara quando un uomo, dopo averla benedetta, la perfora provocando un grido e una fuoriuscita di sangue. Successivamente una coppia di neosposi inglesi si trova con l’auto in panne proprio da quelle parti. Trovata ospitalità in una locanda desolatamente priva di clienti i due vengono invitati a cena dal proprietario del castello che domina la zona. Non sanno che si tratta del capo di una setta di vampiri.
Martin Delambre sposa una giovane dall’oscuro passato. I due si sono incontrati in circostanze quanto meno insolite: lei è fuggita da una casa di cura e lui l’ha incontrata per strada, l’ha accolta in casa, finché è nata una travolgente passione. La donna potrebbe, adesso, vivere un’esistenza serena, ma il destino dei Delambre è in agguato. Henry, padre dello sposo, non ha infatti rinunciato agli esperimenti con il teletrasportatore – la macchina che scompone la materia per ricomporla in un altro luogo – provandola su cavie umane con risultati disastrosi. Il film ha poco in comune con i due precedenti ispirati al romanzo di George Langelaan. La sceneggiatura piega volentieri sul versante dell’horror ed il regista Don Sharp la asseconda senza grande ispirazione. Protagonista è Brian Donlevy, già interprete di due film del dottor Quatermass. Nel cast figura l’attore Burt Kwouk più noto per avere impersonato Chato, il domestico dell’ispettore Closeau nella serie della Pantera Rosa.
Scampato più volte alla morte, il dottor Fu Manchu riorganizza una diabolica setta di dissidenti cinesi (i “Fazzoletti Rossi” di cui al fuorviante titolo italiano) e progetta una nuova strategia di terrorismo internazionale scegliendo le coste africane del Mediterraneo come zona di operazione. Dopo avere rapito le figlie di alcuni eminenti scienziati egli li costringe a collaborare con lui nel perfezionamento di una super-arma che sprigiona potenti scariche di energia distruttiva attraverso le onde radio. Ma l’ispettore Nayland Smith, suo indomabile avversario, comprende che il sequestro degli scienziati nasconde una terribile minaccia per la pace nel mondo e, deciso ad annientare il mandarino cinese, ottiene la collaborazione della Legione Straniera e di Franz Baumer, il coraggioso fidanzato di Marie Lentz, una delle ragazze scomparse. Baumer riesce ad individuare l’avveniristico laboratorio segreto di Fu Manchu e, sfuggito alla prigionia, allerta Smith appena in tempo per evitare un terrificante attentato. Il film è più vicino agli intrecci fantaspionistici di James Bond che non allo spirito delle pagine di Sax Rohmer. La storia si distacca notevolmente dall’omonimo romanzo, anche ne conserva il ritratto dello spietato protagonista, uomo dalla mente geniale e perversa che adopera i ritrovati della scienza con la stessa disinvoltura con la quale si applica all’ipnotismo e alle più sadiche torture. Christopher Lee, per la seconda volta nel ruolo di Fu Manchu, offre un’interpretazione convincente e il racconto, arricchito da belle scenografie e da una suggerita atmosfera erotica, procede senza tempi morti – e senza pretese – all’insegna dell’avventura pura. Nel cast figura anche Burt Kwouk (il servitore Cato dell’ispettore Clouseau della saga della Pantera Rosa) nei panni di un seguace di Fu Manchu.
Sceriffo dell’Arizona è inviato a New York per ottenere l’estradizione di un assassino. Lo preleva, se lo fa portar via dai suoi complici, è esonerato dal servizio, lo riacchiappa. 1° film del sodalizio Siegel-Eastwood, è il tentativo di mescolare il western col poliziesco o, meglio, di verificare l’etica del primo nel contesto metropolitano del secondo. Su una sceneggiatura riscritta 8 volte e destinata ad altro regista, Siegel fa un film violento e teso che manca di un preciso punto di vista sul protagonista. Eroe o antieroe?
Giovane che ha una forte repulsione per i gatti (ailurofobia) si trova coinvolto in una losca storia di eredità e omicidi. Saranno i gatti a salvarlo. Thriller intrigante, scritto da Joseph Stefano, sceneggiatore di Psycho, che cala lo spettatore in una suspense allarmante anche se la logica della storia va a farsi benedire. Terrificante la scena in cui E. Parker, sulla sedia a rotelle barcollante, sta per precipitare dalla collina di San Francisco.
Il film ha per protagonista un giovane di borgata che durante una rissa ferisce a coltellate un uomo e finisce in carcere. Uscito di prigione, si ammala di tisi e viene ricoverato in sanatorio, dove un sindacalista comunista lo convince a mettere la testa a posto. Il giovane, infatti, decide di sposarsi e di sistemarsi, ma un giorno, per salvare una donna, si getta in un fiume e muore.
Da I racconti fiamminghi di Pieter Van Veigen. In Olanda giovane studioso scopre uno strano gigantesco carillon del Settecento, ricavato dal meccanismo di un vecchio mulino, di proprietà di un vecchio pazzo che trasforma le donne in statue. Gabel bruna e brava in un horror fantastico all’italiana che fa perno su una bella trovata meccanica. Splendida fotografia di P.L. Pavoni, suggestiva scenografia.
Uno studente in viaggio su un treno trova un cadavere e, nonostante l’assassino elimini i testimoni del suo misfatto, riesce a smascherare lui e i suoi complici.
Harry sta per accomiatarsi dalla vita, che ritiene un fallimento, gettandosi nell’Hudson, a New York, ma viene salvato dal vecchio amico Milt che lo fa innamorare di sua moglie Ellen della quale vuole sbarazzarsi per sposare Linda. Il piano riesce, ma le nuove coppie non sono felici; alla fine Milt torna con Ellen, Harry finisce con Linda.
Nota vicenda della libertina e parvenue, amica di Napoleone, interpretata da una straripante e incontenibile Sofia Loren. Ricostruzione accurate e regia di un grande maestro del film storico completano il quadro di questa imponente produzione, alla fine, però, eccessivamente prolissa e vacua.
Nella Francia prerivoluzionaria, un nobile vive una doppia identità di gentiluomo e brigante. La polizia gli dà la caccia, ma senza poterlo mai catturare: un fratello gemello permette infatti al “Tulipano Nero” di avere sempre ottimi alibi.
Uno psicanalista muore e la polizia crede che si sia suicidato, ma uno dei suoi pazienti, riconoscente perché il medico l’aveva salvato dalla follia, non ne è convinto: con l’aiuto della figlia dello scomparso, indaga tra gli altri clienti del medico e individua l’assassino.
Quattro malviventi si travestono da frati e si fanno ospitare in un convento. Tempo dopo, con la scusa di proteggere i religiosi, pretendono tangenti dai negozianti e dalle persone più in vista. I loro crimini si fanno tanto audaci da spedirli in prigione. Qui si scopre la loro vera identità.
Prigionieri inglesi in un campo di concentramento giapponese vivono di stenti. Tra loro un prigioniero americano, che traffica con i guardiani, conducendo una vita più sopportabile dei suoi più sfortunati compagni, molti dei quali muoiono a causa del clima e delle malattie. Il comportamento dell’americano attira l’odio dei suoi compagni. Quando giungono le truppe inglesi e traggono in salvo i superstiti, alcuni di loro vorrebbero uccidere l’americano. Un ufficiale inglese giustifica il suo ruolo, ricordando ai suoi commilitoni che in qualche modo sono debitori del prigioniero americano: l’odio per lui li ha tenuti in vita. Niente a che fare con il cinico umorismo di Stalag 17, né con l’epica testardaggine del protagonista de Il ponte sul fiume Kwai. È una intelligente variante tratta da un romanzo di James Clavell e diretta da Bryan Forbes, un regista inglese che prometteva più di quanto abbia mantenuto. Questo è probabilmente il suo miglior film. Girato in un crudo bianco e nero, il film si raccomanda per la partecipazione corale di un gruppo di attori straordinari, dominati dal miglior George Segal che lo schermo abbia mostrato.
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