Holly è una provinciale – ma molto sofisticata – che vive a New York. Ha frequentazioni di gente di ogni tipo: artisti, ricchi, malviventi. Paul è un giovane scrittore protetto… da un’amante più anziana di lui. Holly e Paul abitano nello stesso palazzo. Si conoscono, diventano amici. La ragazza, che mira a sposare un miliardario, passa da una festa all’altra, rincorre il tempo, è fragile, passa da depressioni profonde a esaltazioni sfrenate. Ma non manca mai, la mattina, rientrando da una festa, di far colazione davanti alle vetrine di Tiffany, la leggendaria gioielleria. Emergono, dal passato di Holly, scheletri e fantasmi, ma sono solo frutto della sua ingenuità. E comunque, sposare un ricchissimo messicano cancellerà tutto. Ma il magnate si tira indietro. A Holly rimane Paul, che l’ama davvero, e forse anche lei contraccambia.
Rimasto vedovo, console britannico a Firenze si trova impreparato ad avere un buon rapporto con i due figlioletti. Il più piccolo ha tutte le sue attenzioni, l’altro ne soffre. Dopo Vittorio De Sica, Comencini è in Italia il regista che meglio sa capire (e far recitare) i bambini e per far questo occorre conoscerli bene. Lo dimostra anche questo melodramma, tratto da un mediocre romanzo strappalacrime (1869) di Florence Montgomery che, in virtù di stile e di una lucida strutturazione dei fatti e delle emozioni, Comencini trasforma in un grave affresco dei sentimenti, delicato e coinvolgente. Incompreso in Italia, ebbe un grande seppur ritardato successo all’estero.
Durante la guerra 1914-18 il tenente Thomas Edward Lawrence (1888-1935), agente del servizio segreto britannico, trasforma in guerriglia la rivolta degli arabi contro i turchi, guida i beduini alla conquista di Damasco e poi si ritira nell’anonimato. In questo sontuoso megafilm epico su uno dei più affascinanti avventurieri del primo Novecento il vero protagonista è il deserto. Solida sceneggiatura di Robert Bolt, splendida fotografia, musica sovrabbondante, 7 premi Oscar (miglior film, regia, fotografia, colonna sonora, scenografia, montaggio e suono). All’epoca O’Toole fu una rivelazione.
Giovane commissario di polizia compromette la sua carriera indagando sulla morte violenta di noto uomo politico. Scopre il colpevole, ma è costretto a ritrattare tutto al processo. Scritto da Age & Scarpelli, principi della commedia italiana, è sostenuto da uno scattante brio satirico con graffianti spunti di critica di costume. Un buon Sordi tenuto a briglia corta.
Il ventenne Marc lavora come assistente parrucchiere in un grande salone frequentato da facoltose signore, nutrendo il sogno di diventare pilota da corsa. Per essere ammesso all’imminente competizione deve, tuttavia, procurarsi una Porsche 911 S: tenterà di ottenerla con ogni mezzo a sua disposizione, anche impegnando i capelli di una ragazza, forse, innamorata di lui. Nello stesso anno di Mani in alto!, il suo quarto lungometraggio bloccato dalla censura polacca, Jerzy Skolimowski gira in Belgio Il vergine, attirando su su di sé l’attenzione della critica internazionale. In breve, si tratta di un nuovo debutto, di una rinascita benedetta dal sole abbagliante della Nouvelle Vague, non soltanto per la presenza fisica di Jean-Pierre Léaud, perfettamente capace di comunicare insicurezza e determinazione, timidezza e una vena di sana follia.
Nella concitazione, nelle stranezze, nei bronci e nei sorrisi dell’attore prediletto da Truffaut, infatti, si specchia l’ombra lunga delle tecniche e delle teorie di “cinema diretto” del movimento francese, la volontà di rottura verso i metodi tradizionali, la rivoluzione del Godard più anarchico, con i suoi giochi da cinema muto, l’esuberanza e l’assurdità di una libertà ripetuta 24 volte al secondo. L’ansia di espressione del cineasta polacco, di fatto impossibilitato a continuare il proprio percorso in patria, pervade ogni sequenza, insegue i corpi e esplode nelle gag con il fine di raccontare l’apprendistato alla maturità, la “partenza” (come indica il titolo originale) verso l’età adulta di un ragazzo che non sa, o non vuole sapere, di essere già uomo: il sogno di Marc, così fortemente desiderato e ad un passo dall’essere realizzato, si rivelerà in tutta la sua inconsistenza in un dolce-amaro risveglio che ha il sapore dell’inevitabile cambiamento. Vitale e articolato impasto di profondità psicologiche e vezzi d’auteur con un velo di calibrata malinconia, Il vergine vale anche come documento di un’epoca, costituendo la punta di diamante della reazione diretta della Nouvelle Vague sulle cinematografie di Stato dei Paesi dell’Est da cui proviene il regista. Anche attraverso il corpo-icona di Léaud, dopotutto, Skolimowski continua – e forse qui conclude – quella strada di autobiografismo generazionale affrontata nei precedenti Segni particolari: nessuno, Walkower e Barriera. Vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino.
Quattro apologhi sulla degradazione del matrimonio: “Prime nozze”, “Il dovere coniugale”, “Igiene coniugale”, “La famiglia felice”. Si parte da uno scherzo per arrivare a una beffarda anticipazione avveniristica. Quasi un compendio del primo Ferreri, sceneggiato con Diego Fabbri e Rafael Azcona, intento a descrivere con feroce precisione le aberrazioni causate dall’uso rituale e strumentale di un istituto, come il matrimonio, di cui non si sanno più perseguire i fini. Ridotto alla durata attuale dalla censura che impose 8 minuti di tagli.
Uno scapolo impenitente affitta per le scappatelle di tre amici sposati un appartamento nel quale s’installa una bella sociologa che si fa passare per donnina di facili costumi e, tenendoli a bada, li studia. Commedia che vorrebbe essere pepata e cerca in affanno di diventare maliziosa senza riuscirci per colpa di un’inerte e prolissa sceneggiatura contro la quale gli interpreti lottano invano.
Un film di Barbet Schroeder. Con Mimsy Farmer, Klaus Grunberg, Heinz Engelmann Titolo originale More. Drammatico, durata 114′ min. – Gran Bretagna 1969. MYMONETRO Di più, ancora di più valutazione media: 3,00 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Studente tedesco s’innamora a Parigi di Estelle. La raggiunge a Ibiza e, per amore, diventa tossicodipendente come lei, precipitando nell’autodistruzione. Scritto con l’acido Paul Gégauff, il 1° film di Schroeder divenne un piccolo cult per la rappresentazione esplicita, senza moralismo del mondo della droga, visto come veicolo di un rapporto sadomasochistico. Splendida fotografia di Nestor Almendros, musiche dei Pink Floyd.
Da un dramma (1960) di Giuseppe Patroni Griffi. Adriano, cinico in crisi, debole, sbruffone e sentimentale, cerca di cambiar vita sposando una brava ragazza. Diretto senza convinzione, non abbastanza riscattato da una scrittura disadorna e da un bianconero sporco da cinegiornale. “Credo che sia orribile… – dichiarò anni dopo Rossellini – Fu allora che abbandonai definitivamente il cinema.”
Vera storia di Robert Stroud, condannato nel 1909 all’ergastolo per omicidio, che in carcere, per molti anni chiuso in isolamento, divenne un esperto di fama mondiale sulla vita degli uccelli. Ottenne il permesso di sposare la sua assistente. Tratto da un libro di Thomas E. Gaddis (qui interpretato da O’Brien) e sceneggiato da Guy Trosper, è un solido efficiente, monocorde film con il piombo nelle ali. Vola basso, senza cadute ma nemmeno impennate, trattenuto da un rigido moralismo che esalta la dignità dell’uomo e denuncia, con massiccia oratoria, il sistema carcerario americano. Memorabile interpretazione, un vero tour de force, di Lancaster, anche produttore, che all’inizio delle riprese aveva protestato il regista inglese C. Crichton.
Terrore di notte sul metrò. Due teppisti imperversano in un vagone della subway. Di buona intensità drammatica, nonostante la convenzionalità dei personaggi.
Amore mio è un film del 1964, l’ultimo diretto da Raffaello Matarazzo, morto due anni dopo a causa di una malattia.
Dopo aver diretto tre commedie, Matarazzo torna al melodramma sentimentale, con cui aveva ottenuto tanto successo nel decennio precedente, ma a causa di alcune traversie sorte durante la produzione, la pellicola fu distribuita dalla Titanus soltanto nei circuiti minori di provincia, mentre non arrivò mai nelle grandi città come Roma e Milano e dunque registrò uno scarso successo economico.
La storia è quella di due fuorilegge reduci da un colpo (dove hanno indossato, a bella posta, divise da ufficiali nordisti). Durante la fuga s’imbattono in una carovana, i cui componenti li scambiano per autentici militari e affidano loro il comando. Uno dei fuorilegge s’immedesima nel ruolo e porta in salvo un convoglio a Forte Alamo. L’altro invece non si ravvede: il suo compare buono dovrà ammazzarlo.
La solita banda di Formula 1 (i piloti e le loro donne, i tecnici, i dirigenti delle squadre) attraverso 6 gran premi: Montecarlo, Clermont Ferrand, Belgio, Olanda, Inghilterra fino a Monza. Ciascuno è filmato in modo diverso. 1° film sulle corse d’auto (fotografia in 70 mm SuperPanavision di Lionel Lindon) girato senza trasporto e con il ricorso allo split-screen (montaggio nel quadro frazionato in caselle, cercando la contemporaneità o il contrasto). Frankenheimer è un appassionato delle quattro ruote, e si vede, ma il copione di Robert Alan Arthur è una prolissa passerella di stereotipi senza sugo e di situazioni già viste. Il personaggio di Bedford è ispirato a Stirling Moss. 3 Oscar: montaggio, suono, effetti visivi. L’alta qualità tecnica accentua quella bassa del resto. 2 film in uno e stanno male insieme.
Dal romanzo (1966) di Bernard Malamud sceneggiato da Dalton Trumbo. Nella Russia del 1911, un giovane artigiano ebreo è ingiustamente accusato di stupro dalla figlia del suo padrone che lui aveva respinto. Il giudice istruttore a lui favorevole viene assassinato. Interviene un onesto funzionario. Un ottimo Bates rende ancora più efficace la denuncia contro l’antisemitismo e il razzismo del romanzo, tradotta da Frankenheimer in immagini e atmosfere con grande efficacia. La M-G-M ridusse il film da 150 a 132 minuti.
Nella Francia occupata dai nazisti, viaggia un treno che trasporta un tesoro in opere d’arte trafugato ai musei di Parigi. Il comandante tedesco è un raffinato esteta. Ma il macchinista è uno dei capi della Resistenza. Prima ostacola in ogni modo il viaggio, poi dirotta il treno fuori dal percorso prefissato. Finisce in un massacro: il comandante germanico fa una strage dei civili, ma il macchinista uccide lui a colpi di mitra.
Un uomo, traumatizzato dall’eccessivo affetto materno, è l’insospettabile autore di numerosi delitti. A mettere la polizia sulle sue tracce sono alcune rivelazioni della ragazza che egli segretamente ama; l’assassino viene eliminato in extremis, proprio quando sta per fare di lei – che ha rifiutato di sposarlo – l’ennesima vittima
Un film di Orson Welles. Con Jeanne Moreau, Roger Coggio, Orson Welles Titolo originale Une histoire immortelle. Drammatico, b/n durata 58′ min. – Francia 1968. MYMONETRO Storia immortale valutazione media: 3,45 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
A Macao il vecchio mercante Clay decide di dar corpo a una antica leggenda cara ai marinai, quella di un marinaio affittato da un ricco signore per venti ghinee per passare una notte con la sua giovane moglie e dargli un erede. Dal racconto di Karen Blixen (nel volume Capricci del destino, 1956) un piccolo, finissimo film (girato in Spagna nel 1966 per la TV francese) che ha l’incanto di una favola romantica raccontata a bassa voce in una sera d’inverno. 1° film a colori di Welles che ne fa una parabola sul cinema e sulle sue menzogne, sugli ambigui rapporti tra arte e realtà, sulla vanità di ogni azione umana. Vi si trovano tristezza cupa, sottigliezza intellettuale e una grande pietà.
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