A Sagliena, paesino dell’Italia centrale, il nuovo maresciallo dei CC mette gli occhi su Maria – orfana e povera, detta la Bersagliera, innamorata di un carabiniere veneto – e fa la corte alla levatrice Anna. Campione d’incassi della stagione 1953-54, Orso d’argento a Berlino 1954, rilanciò De Sica caratterista, sanzionò la Lollobrigida, che ebbe il Nastro d’argento; fu il 1° successo di Comencini. È, insieme, il trionfo dell’Arcadia e della commedia dell’arte con le sue maschere, la versione spuria e furba di Due soldi di speranza (1951) di Castellani con cui ha in comune lo sceneggiatore Ettore M. Margadonna.
Trasferito a Sorrento, il Maresciallo sottaniere scarta svedesina e vedovella per una pia benestante in vena di accasarsi. 3° della serie, sceneggiato da Ettore G. Margadonna, a colori e in cinemascope. I superstiti sono De Sica e Tina Pica. Risi cerca di ricominciare da zero e in parte ci riesce.
Per sposare la levatrice, che è una ragazza madre, maresciallo deve dare le dimissioni. Si rifà vivo, però, il seduttore. Intanto la Bersagliera ha un amore contrastato con carabiniere. Seguito, altrettanto fortunato per successo di pubblico, della commedia strapaesana, con risvolti di amarezza e satira sociale, inventata da Margadonna che qui ha l’aiuto di Eduardo De Filippo. 2° campione d’incasso della stagione dopo Ulisse di Camerini.
Divisa tra la passione erotica per Walter e l’attrazione sentimentale per Andrea, Anna, ballerina in un night-club di Milano, si fa suora in un ospedale quando il 1° è ucciso dal 2°. Film su commissione, prodotto da Ponti/De Laurentiis per la Lux italo-francese, scritto in 6 (G. Berto, F. Brusati, L. Malerba, I. Perilli, D. Risi, R. Sonego), apre _ preceduto da Catene (1949) e I figli di nessuno (1951) di Matarazzo _ il genere del melodramma contemporaneo nel cinema italiano col retroterra del tema cattolico colpa-redenzione, sebbene l’impegno di Anna non sia la ricerca di Dio, ma l’impegno verso il prossimo come infermiera. L’adesione di Lattuada al progetto è stilistica e figurativa (fotografia: Otello Martelli) nel netto contrasto tra bianchi e neri e nella rinuncia quasi totale agli esterni. 1° film italiano a incassare un miliardo sul mercato interno e a essere distribuito doppiato in USA. Brevi apparizioni di Lamberto Maggiorani e Sophia Loren. Tutti i 6 attori del nostro cast sono doppiati. Musiche: Nino Rota. La canzone “El negro zumbòn” di Trovaioli-Giordano fu venduta in single negli USA in un milione di copie.
Da un racconto di Mauricio de la Serna. Due giovani tranvieri di Città del Messico, ubriachi dopo una festa, rubano il vecchio tram n. 133, condannato alla rottamazione, e percorrono le vie cittadine provocando situazioni insolite o grottesche. “Quella che… si apre come un’opera realistica diventa… attraverso una costante negazione della normalità, lo specchio di quella realtà seconda (o surrealtà) che svela l’autentica natura delle cose e degli uomini” (A. Bernardi). Pur penalizzato, come il solito, dal modesto brio degli interpreti, la commedia punge con il suo garbo capriccioso e anarchico.
Un film di Ingmar Bergman. Con Eva Dahlbeck, Gunnar Björnstrand, Yvonne Lombard, Harriet Andersson, Ake Gronberg. Titolo originale En Lektion i kärlek. Commedia, Ratings: Kids+16, b/n durata 96′ min. – Svezia 1954. MYMONETRO Una lezione d’amore valutazione media: 3,00 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Una coppia di coniugi _ ciascuno con insoddisfacenti relazioni extraconiugali _ è sull’orlo del divorzio. La figlia adolescente (Andersson) segue il conflitto con l’ansietà di chi sta avvicinandosi per la prima volta all’amore, e ne trae un’amara lezione: l’abitudine, i ricordi in comune, l’egoismo sentimentale sono più tenaci dell’amore e di ogni velleitario tentativo di ribellione. Papà e mamma si riconciliano. 1ª commedia di Bergman: leggera, sorridente, caustica, con punte salaci, dialoghi briosi e 2 protagonisti in gran forma. Nemmeno quando lavora sul registro leggero rinuncia alle sue domande sulla condizione umana. Il vaudeville francese rivisitato con l’ottica del teatro svedese. Girato nel 1953.
Quarantenne ricchissimo cattolico benpensante vergine feticista impotente, Francisco seduce con le parole Gloria, la sposa sull’altare, la tormenta con la sua paranoica gelosia sino a progettare di ricucirle il sesso. Anni dopo lo troviamo in convento. Sant’uomo? Film-cardine nell’opera di Buñuel. Attraverso il ritratto di un paranoico il tema è ancora il desiderio e le sue alterazioni. Si racconta un’ossessione, e i comportamenti che ne derivano, e se ne cercano gli agganci nell’esasperazione del possesso, tipica della borghesia. Non contano le psicologie, ma i comportamenti, i luoghi dove si esplicano, i riti che li sostengono. Tutte le cifre buñueliane si ritrovano, con una particolare insistenza per il feticismo dei piedi. Il finale è una memorabile invenzione ironica. Dal racconto omonimo di Mercedes Pinto.
Nel Bengala, sulle rive del Gange, due ragazze inglesi s’innamorano di un ufficiale americano, mutilato di guerra, che, piuttosto di scegliere, se ne va. La vita continua. 1° film a colori (fotografia del fratello Claude) di Renoir e opera di transizione dal realismo sociale alla ricerca di narrazione “classica”. Ingiustamente rimproverato di essere un documentario lirico mancato e di mancata critica al colonialismo, è una favola esotica (il romanzo della scrittrice Rumer Godden da cui è tratto risulta poco più di un pretesto) sul rapporto tra uomo e natura nel quadro di un panteismo pagano intinto di misticismo orientale. Ampio e solenne, chiede allo spettatore adesione contemplativa più che coinvolgimento emotivo. Vi lavorò come assistente il futuro grande regista Satyajit Ray.
Due squinternati investigatori cercano un ladro di gioielli nel mondo del teatro della rivista: pretesto per riproporre una collana di scenette comiche degli anni ’50. Girato nel 1954 alla ICET di Milano e distribuito soltanto 5 anni dopo, è, come film, inesistente: soltanto pellicola impressionata. Sfilano Raimondo Vianello, Tino Scotti, le sorelle Nava, Bruno Dossena, The Rocky Mountains All Time Stompers.
Girato da Buñuel in un momento di transizione, questo film è uno dei meno noti e riusciti del grande regista. Valerio, medico condotto in Corsica, deve difendere un amico, Renzo. Costui, cacciato dal fondo che lavorava, ha perso la moglie stroncata della fatica e si è vendicato uccidendo il ricco padrone.
L’audio nella versione italiano non è granché purtroppo.
Dal romanzo Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe. Un marinaio sopravvissuto a un naufragio approda a un’isola deserta alle foci dell’Orinoco e si organizza la vita prima da solo, poi con un selvaggio che battezza Venerdì. Nel suo 1° film a colori, che usa anche in funzione onirica, Buñuel fa un film sul silenzio (anche di Dio), la solitudine, la fraternità (ribaltando la funzione ideologica dei 2 personaggi), iniettandovi un tocco di sensualità.
Nel Messico dominato dal dittatore Porfirio Diaz, Emiliano Zapata alla testa dei peones conduce, insieme a Pancho Villa, la lotta contro gli oppressori .
Una ragazza da un giorno all’altro si trova senza lavoro e ha un’idea: affittare un gigantesco spazio pubblicitario e scriverci il suo nome. Scritta da Ruth Gordon e Garson Kanin, è una commedia che con artigli vellutati graffia amabilmente usi e costumi della società americana, ma che mantiene soltanto in parte il brio satirico della 1ª mezz’ora. J. Holliday è bravissima. 1° film di J. Lemmon (1925-2001)
Un gruppo di persone assolutamente eterogeneo (una ragazza sordomuta, una prostituta, un prete) devono fuggire da una cittadina nella quale è scoppiata una rivoluzione dopo la confisca da parte dello stato di una miniera d’oro. Scappando nella giungla incontreranno ogni sorta di creatura.
Il lido di Ostia, in una domenica qualsiasi del mese di agosto. Persone di diverse estrazioni sociali si dirigono verso la spiaggia per sfuggire alla calura cittadina. Nell’arco della giornata si compiono i destini di tutti: un disoccupato diventa rapinatore e viene arrestato, una ragazza e il suo corteggiatore, dopo essersi ingannati vicendevolmente, si scoprono poveracci e non milionari come avevano tentato di darsi ad intendere, una ricca signora scopre che il suo appartamento è andato a fuoco. È il primo film del genere “spiaggia”, poi ripreso (anche troppo) negli anni Sessanta. Ma qui c’è molto di più: i toni del neorealismo sono ancora vigorosi e attendibili, i ritmi del racconto straordinariamente equilibrati. Da ricordare l’interpretazione di Emilio Cigoli, il grande doppiatore, nella parte del papà affettuoso.
Un poliziotto, resosi inviso ai suoi capi per i metodi brutali d’indagine da lui usati, viene trasferito in un paese di montagna. Gli capita di dare la caccia a un giovane accusato di omicidio.
In una clinica ginecologica tre donne di diversa età e condizione sociale sono in attesa di partorire. Chi aspetta con gioia, chi con rabbia e rancore. I mariti che si avvicendano nella stanza sono ridicoli manichini. Realizzato con l’appoggio del governo svedese che aveva in corso una campagna per il contenimento delle pratiche abortive, è un momento dell’interrogazione di Bergman sul senso della vita e i rapporti di coppia. Da 3 racconti, da lei sceneggiati, di Ulla Isaksson.
Scritto e sceneggiato da Tennessee Williams e presentato in Italia con il sottotitolo La bambola viva, questo film, che racconta la storia di un matrimonio fra un quarantenne e una sedicenne, è ambientato in una cittadina di uno Stato del profondo sud americano. Il marito della giovane ragazza dirige un’azienda sull’orlo del fallimento. Egli entra in conflitto con il proprietario di un’altra azienda che gli insidia la moglie. Tenterà di vendicarsi ma verrà imprigionato.
Durante la seconda guerra mondiale in Svezia, una profuga (Signe Hasso) cerca di sottrarsi allo spire dello spionaggio sovietico. Lotterà per la libertà e alla fine riuscirà a sottrarsi ai comunisti: in Svezia per loro non ‘è posto. Si tratta di un film sui generis nella filmografia di Ingmar Bergman: angoscia condita di matrice politica ed ideologica, così estranea alla poetica del grande maestro svedese. In alcune scene il film sembra una vera e propria pellicola di propaganda tipica del periodo macccartista. Una vera perla per gli appassionati di Bergman.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Da Parigi, François torna nel villaggio della sua infanzia per curare i postumi della tubercolosi. Appena arrivato, incontra un vecchio amico diventato panettiere e intravede Serge, minato dall’alcolismo forse per via dell’infelice matrimonio con Yvonne, che gli ha dato un figlio nato morto, ed è di nuovo incinta. Mentre stringe una relazione con la diciassettenne Marie, François cercherà di prendersi cura di Serge, mettendolo davanti alle sue responsabilità. Considerato il primo film della Nouvelle Vague, La beau Serge coniuga una sceneggiatura improntata al dramma sociale con i ricordi personali di Claude Chabrol che, dopo la militanza critica nei Cahiers du cinéma, poté esordire grazie ad un’eredità inaspettata avuta dalla moglie. È lo stesso regista a tornare, così come vediamo fare al protagonista, nel paese di Sardent (Creuse) in cui aveva trascorso l’infanzia durante i quattro anni dell’Occupazione, imparando a conoscere una realtà fatta di giovani amori e alcolismo sociale. L’attaccamento squisitamente affettivo, eppure svegliato dalla distanza critica di chi ha conosciuto anche la vita in città, è uno dei motivi di maggior interesse di un lavoro capace di dare veridicità ai luoghi mostrati, licenziando una topografia filmica del tutto affidabile in cui lo spettatore è, da subito, immerso. Nulla sembra essere cambiato nel villaggio, non il dottore incapace, non l’affittacamere impicciona, non i giochi in piazza dei bambini, eppure la mancanza di realizzazione ha segnato la vita dell’amico Serge, uno che “soffre più di tutti gli altri”, e una diffusa assenza di speranza non porta più fedeli a partecipare alle messe di un sacerdote comprensivo e disilluso: François, interno ed esterno al luogo, tenta nel miglior modo di rendersi utile, di attivarsi in favore del bene anche a rischio di minare la propria integrità emotiva e fisica, si pensi soltanto a quella sequenza finale che riecheggia Bresson. Vagamente ispirato all’amico Paul Gégauff, il personaggio di Serge rappresenta per Chabrol il simbolo del tempo perduto, in un’impressionante continuità tra diario personale e riscrittura drammatica che è cuore pulsante di un’opera imperfetta, ma sempre coinvolgente, illuminata da momenti magici, la nevicata, e argute notazioni antropologiche, la festa da ballo. Con un budget iniziale irrisorio, poi rimpolpato da un salvifico premio di qualità, La beau Serge venne presentato al Festival di Cannes fuori concorso, riscuotendo consenso di pubblico anche nella successiva distribuzione in sala: il successo inaspettato, spinse Chabrol a lanciarsi in fretta nella produzione di I cugini con la stessa troupe. Interpreti di entrambe le pellicole, Jean-Claude Brialy e Gérard Blain diventano, in breve, il volto del nuovo movimento, prima di Jean-Pierre Léaud e Jean-Paul Belmondo. Un esordio dolente e sincero.
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