La figlia di un riccone, viziata e legata da morboso affetto al padre, fa innamorare un giovane infermiere strappandolo alla dolce fidanzata. Un giorno il padre e la matrigna della fanciulla muoiono in un incidente e il giovane sospetta che sia stata la ragazza a provocarlo. Difatti è così. E la pestifera ereditiera ci riprova: dopo aver ammazzato anche il suo innamorato, si suicida.
Durante la guerra in una fabbrica nel sud degli Stati Uniti l’operaia Carmen Jones s’innamora di un caporale dell’esercito e lo porta alla rovina. Basato sull’adattamento dell’opera di Georges Bizet, fatta da Oscar Hammerstein II nel 1943 a Broadway, questo scattante all black musical si mantiene fedele allo spirito del racconto originario di Prosper Merimée, nonostante l’attualizzazione della vicenda e la negritudine dei personaggi. Chiamato in sostituzione di Rouben Mamoulian, O. Preminger riesce solo in parte a dare uno stile unitario alla materia. D. Dandridge ebbe una meritata nomination all’Oscar. Esordio di Saul Bass (1920) come autore dei titoli di testa, inizio di una collaborazione con Preminger che durò 25 anni. Sceneggiato da H. Kleiner. Fotografia (Cinemascope): Sam Leavitt. Canzoni: O. Hammerstein II, Marilyn Horne canta per D. Dandridge, LeVern Hutcherson per H. Belafonte, Marvin Hayes per J. Adams.AUTORE LETTERARIO: Prosper Merimée
Un pilota sposa una ragazza e l’abbandona la prima notte di nozze dopo averla derubata. Un errore di persona lo dà per morto e sua moglie, che nel frattempo ha avuto un figlio, sposa un altro. Quando il pilota viene trovato assassinato entrambi si autoaccusano.
Non ho trovato versione in italiano. I sottotitoli in italiano sono tradotti da google, potrebbero esserci degli errori
Un armatore navale, Jim, si reca nel West per sposare la bella figlia di un ranchero. Ma il futuro suocero è impegolato in una guerra privata con il suo vicino. L’armatore, uomo pacifico, rifiuta di schierarsi da una parte o dall’altra. Il fidanzamento viene rotto. Poco male: l’armatore, a guerra privata finita, si sposerà una simpatica maestrina. Western di ampio respiro che appaga molto gli occhi, ma riesce meno significativo del previsto. Heston è relegato in secondo piano, ma accettò la parte perché Wyler gli promise il ruolo principale in Ben Hur. Il film è comunque ritenuto un classico.
Un cinegiornale annuncia la visita della giovane principessa Anna nelle principali capitali europee. L’ultima tappa è Roma, dove, dopo un ricevimento in ambasciata di fronte a tutte le cariche istituzionali e gli esponenti della nobiltà internazionale, la principessa esausta e frustrata dai suoi impegni diplomatici ha una crisi nervosa. Il dottore di corte le somministra un sonnifero, ma prima che faccia effetto, Anna riesce a fuggire da palazzo nascondendosi nell’autocarro delle vivande. Viene trovata poco dopo sdraiata nei pressi dei Fori Imperiali dal reporter americano Joe Bradley, che, senza averla riconosciuta, cerca invano di metterla su un taxi che la riporti a casa, per poi decidere di ospitarla nel proprio studio. Il giorno dopo, Joe si reca alla redazione del suo giornale e solo là, dopo aver visto una foto sul quotidiano del giorno, comprende chi sia realmente la ragazza che sta dormendo a casa sua. Joe scommette allora col suo capo che per il giorno seguente gli farà avere un articolo esclusivo sulla principessa e mette in allerta un suo amico fotografo. Dopo aver accompagnato i pedinamenti e il vago errare dei maestri del neorealismo, Roma aveva bisogno di riscoprire la sua dimensione mitica, fiabesca e aprire quella dimensione gioiosa che sarebbe poi diventata caratteristica della Dolce Vita. “Città aperta” da ormai un decennio, popolata da “ladri di biciclette” quanto da fotografi d’assalto (i futuri paparazzi), la capitale italiana viene esplorata da William Wyler in tutta la sua caotica vitalità senza stereotipi né forzature. La Roma del folklore popolare e la Città Eterna dell’incanto romantico convivono in una fiaba dolceamara che rilegge Cenerentola a ruoli invertiti. Illuminato dal sorriso vivace e dalla fresca bellezza di Audrey Hepburn, Wyler sceglie di far interpretare a questa giovane attrice ancora poco conosciuta la principessa inquieta e incuriosita dalla vita al di fuori di palazzi e ambasciate, affiancandole la star più matura e conosciuta di Gregory Peck. L’Oscar come miglior attrice gli darà ragione e consacrerà la Hepburn al ruolo di Cenerentola glamour del grande schermo (Sabrina, Cenerentola a Parigi). Ma i meriti di Wyler vanno ben oltre la semplice operazione di casting: la sceneggiatura delicata e intelligente di John Dighton e Dalton Trumbo (sostituito dal nome di Ian McLellan Hunter nei titoli a causa dei suoi problemi col maccartismo) trova nella sobrietà della messa in scena di Wyler la cornice più adatta a contenere l’energia esuberante dell’ambientazione romana. L’efficacia della regia la si riconosce in campo lungo quanto nel piccolo dettaglio, nel giocare a carte scoperte con lo spettatore sia quando si sottolinea la noia dell’ufficialità nobiliare con le continue dissolvenze incrociate della scena del ricevimento e il dettaglio della scarpetta della principessa, sia nella sequenza a Castel Sant’Angelo, che scandisce il tumulto di pugni, chitarre usate come mazze e flash fotografici con la grazia di una coreografia. Alla fine, l’onestà di Wyler rende Vacanze romane più un’avventura romantica che una fiaba alla Frank Capra, un’evasione che conosce il senso della misura e per la quale il valore dell’attimo e di una chiusa efficace risultano più importanti di qualunque happy ending. “E a mezzanotte, me ne tornerò, simile a Cenerentola, là da dove sono evasa.” – dice la Hepburn a Peck. Al che lui le risponde: “E sarà la fine di una bella favola”.
Con l’aiuto di una giornalista spregiudicata Lonesome Rhodes, cantante girovago dell’Arkansas, diventa un folk-singer di successo, un idolo delle folle televisive, un demagogo megalomane. Sarà la giornalista a determinare la sua fine. Scritto, come Fronte del porto, da Budd Schulberg (dal suo racconto Your Arkansas Traveller), è uno dei più critici film americani sull’industria culturale e i mass media, sostenuto da un ritmo sincopato e da un’energia forsennata. “Il più americano dei miei film”, lo definì Kazan: troppo in anticipo sui tempi per avere successo. La difficile commistione di satira e tragedia è quasi perfetta. Come sempre in Kazan, la recitazione è ammirevole. 1° film per Griffith e Remick.
Dal racconto Šinel’ (1842) di Nikolaj Gogol’: a Pavia negli anni ’30 Carmine de Carmine è un umile scrivano comunale che spera in un avanzamento nella scala sociale. L’acquisto di un bel cappotto è il primo passo, ma gli viene rubato. Uno dei primi film italiani d’autore a svincolarsi dal nodo neorealista. Scritto da Lattuada con altri 6 sceneggiatori tra cui Luigi Malerba e Cesare Zavattini, il film raffredda la dimensione patetica e melodrammatica del racconto gogoliano e ne accentua razionalmente quella ironica e satirica in equilibrata coesistenza tra realistico e fantastico. Suggestiva ambientazione a Pavia e ottima prova di R. Rascel nel suo 1° ruolo drammatico. Fotografia di M. Montuori, musiche di F. Lattuada. Dallo stesso racconto 2 film sovietici nel 1926 (regia: G. Kozincev, L. Trauberg) e 1961 (A. Batalov) e Le manteau (1951, Fr.-RDT), pantomima di Marcel Marceau, filmata con la sua collaborazione.
Un film di David Lean. Con William Holden, Jack Hawkins, Alec Guinness, Sessue Hayakawa, James Donald. Titolo originale The Bridge on the River Kwai. Guerra, Ratings: Kids+13, durata 161′ min. – USA 1957. MYMONETRO Il ponte sul fiume Kwai valutazione media: 4,02 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari. In Birmania durante la 2ª Guerra Mondiale prigionieri di guerra britannici sono impiegati dai giapponesi nella costruzione di un ponte d’importanza strategica, mentre una squadra di guastatori loro compatrioti si prepara a distruggerlo. Da un romanzo (1952) del francese Pierre Boulle, prodotto da Sam Spiegel/Columbia. Si prese 7 Oscar: film, regia, sceneggiatura (dato a Boulle, ma scritta da Carl Formen e Michael Wilson, entrambi nella lista nera come comunisti), A. Guinness, fotografia (Jack Hildyard, Scope), musica (Malcolm Arnold), montaggio (Peter Taylor). Megafilm che è insieme tragedia (nel finale) e commedia, denuncia contro la guerra e omaggio a quelli che la fanno, concilia l’avventura con l’ironia, le ambizioni artistiche con lo spettacolo: un’ambivalenza che si presta a diverse interpretazioni sulla sua coerenza tematica. È l’ultimo film di Lean come regista-autore, il 1° degli importanti film britannici finanziati da Hollywood. Memorabile Guinness, ma anche il motivo fischiettato di “The Colonel Bogey March”.
Africa all’inizio della prima guerra mondiale. In una piccola missione metodista condotta dal pastore Samuel Sayer e da sua sorella Rose la notizia dello scoppio delle ostilità viene portata da Charlie, un canadese semialcolizzato che trasporta merci su un’imbarcazione denominata African Queen. Di lì a poco i tedeschi, che presidiano la zona, incendieranno il villaggio e feriranno a morte il pastore. Charlie propone a Rose di allontanarsi con lui ma la donna ha un progetto ben più ambizioso. Venuta a conoscenza della presenza della “Luisa” (una nave della Marina tedesca) in un lago raggiungibile percorrendo il fiume su cui la Regina d’Africa sta navigando, vuole farla affondare utilizzando l’esplosivo che Charlie trasporta. La missione non sarà facile ma cementerà l’inizialmente difficile rapporto tra i due trasformandolo in amore. “Una storia in cui due persone vanno su e giù su un fiume africano… A chi può interessare? Farete fallimento”. (Il produttore inglese Alexander Korda a Sam Spiegel nel momento in cui quest’ultimo decide di produrre La Regina d’Africa). Non sono pochi i film entrati nella leggenda del cinema per il loro valore e per le vicende produttive che li accompagnarono ma questa opera di John Huston è sicuramente uno dei più esemplari. Perché sin dall’inizio si trattava di un progetto a rischio a causa del soggetto (finì invece per costare 1,3 milioni di dollari incassandone subito 4,3 e offrendo ad Humphrey Bogart l’Oscar quale migliore attore). Il rischio ulteriore era poi costituito dalle riprese in esterno realizzate nel continente africano (tra Uganda e Zaire) con un protagonista (Bogart) troppo abituato agli studios per apprezzare la stravaganza. Che invece interessava molto a Huston, all’epoca maniaco della caccia grossa all’elefante. Peter Viertel (chiamato a sostituire nella stesura della sceneggiatura Patrick Agee che la stava completando direttamente in loco) documenta questa passione nel romanzo che diventerà nel 1990 un film con lo stesso titolo Cacciatore bianco, cuore nero, diretto e interpretato da Clint Eastwood. Se a questo si aggiunge il piacere leggermente sadico che il regista provava nel mettere in difficoltà gli attori il quadro è completo. Basti citare la scena in cui Charlie/Bogart è assalito dalle sanguisughe per capire come “il Mostro” (come lo chiamavano sul set) si divertisse. In studio fece portare un secchio pieno di veri anellidi salvo poi usarne di finti. Solo per mettere in tensione fino all’ultimo l’attore. Sul piano linguistico affascina ancora oggi la sfida colta da Huston nel realizzare un film che va oltre i generi consolidati. Infatti commedia, romanticismo, avventura e dramma si alternano e si fondono in un’opera sostanzialmente teatrale. Perché, sequenze iniziali e finali a parte, La Regina d’Africa è una pièce teatrale a due il cui palcoscenico è costituito dalle assi della scatarrante imbarcazione. La morte incombe e segna il percorso nonostante l’imposizione produttiva di modificare il finale del romanzo di C.S. Forester che si concludeva con il fallimento dell’impresa e la scomparsa di Rose nei flutti. Huston, nonostante l’happy end, scava nei corpi dei suoi protagonisti spingendoli allo stremo per compiere un’impresa non ‘eroica’ (non ne hanno le caratteristiche) ma ‘necessaria’. In questo va tenuto conto del fatto che il romanzo era stato pubblicato nel 1935, che c’erano stati due tentativi abortiti di tradurlo per lo schermo con le coppie Laughton/Lanchester e Davis/Niven ma che ora sulla pelle di molte famiglia americane bruciavano ancora i segni di una guerra vinta contro i tedeschi che era però costata le vite di molti soldati Ryan.
Per la sceneggiatura di questo film, basato sul romanzo di Patricia Highsmith, Hitchcock ingaggiò un giallista di fama come Raymond Chandler. La vicenda riguarda uno strano incontro tra Guy, che vuol divorziare dalla moglie per risposarsi, e Bruno, che odia suo padre. Bruno si offre come killer a Guy, perché costui gli ricambi la cortesia. Memorabile la scena finale sulla giostra.
Dalla commedia Sabrina Fair (1953) di Samuel A. Taylor, riscritta da Wilder con S.A. Taylor e Ernest Lehman per Paramount. Per dimenticare il figlio del padrone di cui è innamorata fin da ragazzina, la figlia dell’autista di una ricca famiglia americana va a studiare a Parigi. Trasformata in una donna di gran classe, torna due anni dopo e fa innamorare tutti e due i padroni, lo scapestrato e il serio. Una delle commedie meno “cattive” di B. Wilder, tra le più deboli e sicuramente la più zuccherata e convenzionale che, comunque, inietta sagacemente i suoi veleni in un contesto di squisita piacevolezza e di frivola intelligenza. Uno dei 2 protagonisti maschili è fuori parte (Bogart), l’altro (Holden) fuori tono. Consacrò A. Hepburn come star. Oscar ai costumi di Edith Head e 4 nomination: regista/sceneggiatore (Wilder), fotografia (C. Lang Jr.), scenografia (H. Pereira, W. Tyler) e la Hepburn.
Un procuratore distrettuale è deciso a mandare sulla sedia elettrica il capo dell’anonima assassini, ma il suo testimone chiave muore. Il procuratore sta per rilasciare il gangster quando viene a sapere che è stata trovata una ragazza che ha assistito a un delitto commesso personalmente dal temuto boss. Gara di velocità con sicari dell’anonima che hanno individuato anche loro la fanciulla. Un capolavoro del genere noir attribuito al regista Raoul Walsh.
La storia di un grande circo, in un film rimasto famoso nel suo genere, si intreccia ai drammi personali degli attori e dei dipendenti che vi lavorano. I guai delle persone sono di scarso rilievo di fronte all’esigenza dello spettacolo che deve andare avanti a tutti i costi (e fare cassetta).
Consuelo prende il posto di Isabella che ha commesso un infanticidio e viene condannata alla deportazione con altre donne nelle colonie americane. Sulla nave delle disgraziate si imbarca un avvocato che si propone di scoprire la verità; intanto le deportate si ammutinano.
Nel 1880, un colonnello della cavalleria americano è fustrato perché non può inseguire i predoni apache oltre il confine messicano. L’ufficiale è sposato e ha un figlio, ma da quindici anni non vede la famiglia perché durante la guerra civile è stato costretto a bruciare la piantagione della moglie, simpatizzante sudista, e questa non l’ha più perdonato. Ora, però, scopre che suo figlio si è arruolato nel reggimento e ben presto giungerà la moglie per riaverlo indietro. Il colonnello riuscirà infine a sconfiggere gli indiani, a riappacificarsi con la moglie e a scoprire che il suo ragazzo è diventato un uomo, mentre la banda suona Dixie, l’inno del Sud. Terzo film della Triologia della cavalleria di Ford. Nonostante alcuni lo ritengano il meno riuscito, costituisce un’indimenticabile rassegna di personaggi e un’ottima ricreazione dell’atmosfera militare come era stata dipinta dal pittore Frederic Remington. La pellicola è una specie di seguito de Il massacro di Fort Apache: il colonnello interpretato da Wayne si chiama infatti Kirby Yorke, come il personaggio da lui interpretato nell’altro film.
Nel 1845 la compagnia dell’illusionista Vogler (von Sydow), seguace delle teorie sul magnetismo del medico e mistico austriaco Franz Anton Mesmer, è costretta a esibirsi in casa del console Egerman (Josephson) in presenza del prefetto di polizia (Pawlo) e del medico positivista Vergerus (Björnstrand). Tra Vogler e Vergerus s’ingaggia una sfida che è anche una scommessa. Straordinaria pochade metafisica, è un film enigmatico e affascinante che pone molte domande senza dare risposte sul senso della vita, l’arte, la magia, l’illusione, la fede, la ragione, con qualche disposizione verbosa verso l’allegoria. Il giuoco dei simboli e delle analogie, delle metafore e delle ellissi è così fitto che si presta alle più diverse interpretazioni. Nella sua dimensione fantastica, comunque, tenuta su un registro espressionista, rimane memorabile. Premio speciale della giuria alla Mostra di Venezia.
Storia di due fratelli, Elisabeth e Paul, che negli anni ’20 a Parigi vivono isolati dal mondo e in un latente rapporto incestuoso. 2° film di J.-P. Melville, anche produttore e scenografo. Pur indebolito dalla scelta sbagliata di E. Dhermitte (imposta a Melville da Cocteau), anche fisicamente inadatto a Paul, e sbilanciato dalla matrice letteraria (accentuata nell’edizione originale dalla voce off del poeta), rimane un film melvilliano nella tematica dell’universo chiuso, nelle cadenze un po’ sonnamboliche di tragedia esistenziale, in alcune delle invenzioni registiche. Musiche di Vivaldi e J.S. Bach, fotografia di H. Decaë. Molto amato dai registi della Nouvelle Vague (soprattutto da Truffaut e Chabrol) che videro in Melville un loro precursore.
Un giorno il treno si ferma alla stazioncina di Black Rock, inaspettatamente: scende un anziano con un braccio anchilosato che la popolazione accoglie con diffidenza. Che cosa cerca? Questo film è una macchina narrativa eccellente (con un’azione chiusa in 24 ore), un elastico teso sino allo spasimo, in attesa di uno strappo sempre rinviato. Il tema è analogo a Mezzogiorno di fuoco, ma la trama è più articolata. Grande Tracy. Dal racconto Bad Day at Hondo di Howard Breslin, sceneggiato da Millard Kaufman. Funzionale uso del Cinemascope (fotografia di William C. Mellor).
Dal romanzo di José María Sanchez Silva: nella Spagna dopo l’invasione napoleonica un bambinello, abbandonato in fasce, cresce in un convento, amorevolmente accudito dai frati, ma sente la mancanza di una vera famiglia; scopre in soffitta un crocifisso al quale parla, porta giornalmente da mangiare e chiede di poter vedere finalmente la mamma: il Cristo l’accontenta, portandolo con sé in cielo. Un classico del genere strappalacrime-cattolico-edificante ad alto tasso di zuccheri sentimentali. Ancor oggi rimane il film spagnolo di maggior successo nel mondo; in Italia fu visto da undici milioni di spettatori. E il piccolo Calvo divenne una star, anzi una meteora.
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