Da un racconto di Ladislas Bus-Fekete. A Parigi, occupata dai tedeschi, una disegnatrice di moda (J. Crawford) egoista e un po’ snob si rende conto che intorno a lei il mondo è cambiato. Lascia il moroso filonazista (P. Dorn) e aiuta a fuggire un pilota americano (J. Wayne, naturalmente!). Melodramma di propaganda targato M-G-M che tenta invano di essere insieme uno sventolabandiere e un ritratto di donna.
Jack cova un terribile odio contro il padre che l’aveva abbandonato da piccolo. Quando i due si ritrovano, si riconciliano. 1° film a colori per Wayne, in un Technicolor (fotografia di Charles Lang Jr. e W. Howard Greene) che serve assai bene i paesaggi montagnosi degli Ozark. Tratto da un popolare romanzo di Harold Bell Wright, The Shepherd of the Hills fu filmato anche nel 1919, 1928, 1963.
Non è un film, Helzapopping ma un insieme di gags, di trovate esilaranti, di numeri comici divertentissimi. La trama, piuttosto esile, è infatti la storia di un giovane autore che deve convincere un produttore a finanziare il suo spettacolo.
Una ragazza che ha partecipato ad un ballo di militari (durante il quale si è ubriacata) si accorge di aspettare un figlio. Tenta così di sposare l’uomo che ama senza riuscirvi per una serie di disavventure. Divenuta madre di sei pargoli conquista fama in tutti gli Stati Uniti.
Èun’ennesima versione del romanzo di Tolstoj sceneggiato oltre che dallo stesso Duvivier anche dal celebre commediografo Jean Anouilh. L’interpretazione di Vivien Leigh, diversissima da quella della Garbo, è efficacissima.
A Vincent Parry, condannato ingiustamente per uxoricidio, non resta che una possibilità: la fuga, nella speranza di dimostrare la propria innocenza scoprendo da solo l’assassino. La galera lo ha reso duro, ma questo non basta per sopravvivere quando si è braccati dalla polizia. Per sua fortuna Irene Jansen, una donna giovane e ricca che si è interessata al suo caso, lo aiuta a superare i posti di blocco. Anche Sam, un tassista che riconosce Parry dopo averlo preso a bordo, è convinto della sua innocenza e lo conduce da un chirurgo plastico. Dopo l’operazione, trovando assassinato l’unico amico disposto ad aiutarlo, Parry si rifugia in casa di Irene, scoprendo che questa conosce alcune delle persone la cui testimonianza gli è stata fatale al processo. Dopo qualche giorno, Parry riprende le indagini con un volto nuovo. Oltre che dalla polizia, deve guardarsi da un malvivente che ha scoperto il suo segreto e intende ricattarlo. È proprio quest’ultimo a fornirgli l’indizio decisivo per risolvere il mistero. Ma il suicidio del colpevole impedisce a Vincent di provare la propria innocenza, costringendolo a rifugiarsi in Perù, dove con Irene potrà cominciare una nuova vita. Piuttosto elementare per quanto riguarda il “chi è stato”, dato l’esiguo numero dei personaggi sospettabili, il film punta invece sulla tensione della caccia all’uomo, vissuta dal punto di vista di Parry con un impiego rimasto celebre della ripresa in soggettiva. Il volto di Parry resta in ombra o nascosto dietro le bende, visibile soltanto nelle fotografie sui giornali, fino a quando non assume definitivamente le fattezze di Bogart. Insolita per l’epoca, e per i vincoli del codice Hays, anche la luce in cui vengono presentati i poliziotti: più persecutori che tutori della legge. Una visione kafkiana consona alla personalità del “giallista maledetto” David Goodis, dal cui romanzo Giungla umana ( Dark Passage) è tratto il film. Un pessimismo temperato tuttavia dalla presenza di singoli coraggiosi cittadini pronti ad aiutare il protagonista e, naturalmente, da un opportuno lieto fine.
Giappone, 1944: durante un’operazione chirurgica, il dottor Kyoji Fujisaki si procura un taglio ad un dito e viene infettato dalle spirochete di Susumu Nakada, il paziente che stava operando. Dopo aver eseguito le analisi del sangue, il medico si rende conto di aver contratto la sifilide e di non avere medicinali a sufficienza per debellare la malattia.
Kurosawa realizza un’altra opera, dopo Non rimpiango la mia giovinezza, L’angelo ubriaco e Cane randagio, sulla realtà giapponese durante e dopo la guerra; come già era accaduto per L’angelo ubriaco, il film passò al vaglio della censura americana ed al regista venne ordinato di modificare il finale, in cui originariamente Fujisaki impazziva per il peggioramento della malattia, troppo lugubre e soprattutto poco rispettoso verso i reali malati di sifilide.[1]
Primo film del regista a non essere finanziato dalla Toho, Il duello silenzioso fu la prima ed unica collaborazione artistica tra Kurosawa ed il prolifico compositore Akira Ifukube (autore tra l’altro delle musiche di Godzilla); i due ebbero diversi diverbi durante le riprese e decisero alla fine del film di intraprendere strade diverse
Non ho trovato versione in italiano. I subita sono tradotti da google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Un film di Otto Preminger. Con Henry Fonda, Dana Andrews, Joan Crawford Titolo originale Daisy Kenyon. Commedia, b/n durata 99 min. – USA 1947. Daisy tronca la lunga relazione con Dan, avvocato e coniugato, e si sposa con Peter. Dan tuttavia non si dà per vinto e, dopo il divorzio, ha il coraggio di chiedere a Peter di divorziare dalla moglie. Daisy, chiamata a scegliere tra i due, resta con il marito.
La moglie di uno psicanalista è affetta da cleptomania. L’ipnotizzatore Korvo (J. Ferrer) promette di guarirla, ma ne approfitta per commettere un delitto, addossandone a lei la colpa. Dal romanzo di Guy Endore. Torbida vicenda da incubo, imperniata sul tema dell’ipnotismo e su quello dell’impossibilità di modellare completamente un altro essere. G. Tierney è brava, ma nella parte del dottor Korvo Ferrer è superbo.
Un agente della polizia deve debellare un’organizzazione di contrabbando, guidata da un avido affarista e da un vecchio aviatore americano alcolizzato. Innamoratosi della moglie di quest’ultimo, viene fatto oggetto di tentativi di corruzione da parte dei contrabbandieri, ai quali però resiste, riuscendo a portare a termine vittoriosamente la sua missione. Intanto l’ex aviatore è rimasto ucciso dal capobanda: vedova e poliziotto possono così andarsene insieme
Philip Marlowe, ex poliziotto e investigatore privato di Los Angeles, viene convocato dal vecchio milionario Sternwood per indagare sul ricatto subito dalla figlia minore Carmen. La sorella maggiore, Vivian, è invece più interessata a sapere che fine abbia fatto Sean Regan, ex membro dell’Ira ed ex contrabbandiere, assunto da Sternwood per risolvere i problemi creati dalle due figlie. Nel giro di poche ore, Marlowe trova Carmen in compagnia del cadavere del ricattatore, mentre qualcuno elimina l’autista degli Sternwood. L’investigatore comincia le indagini da una libreria che funge da paravento per attività illecite e si trova a scoperchiare una storia di gangster, gioco d’azzardo e omicidi. Tutti pensano che Marlowe sappia più di quello che sa e il detective sta al gioco, anche se il metodo può rivelarsi molto rischioso. E, sbrogliando le diverse trame intrecciate tra loro, riesce a scoprire la verità, per quanto amara. Non è la prima volta che Marlowe viene portato sullo schermo e non sarà l’ultima: le opere di Raymond Chandler forniranno materiale al cinema e alla televisione per decenni.
Un ex detenuto incarica un investigatore privato di rintracciare la sua amichetta scomparsa, ma c’è un’inchiesta parallela su gioielli rubati. È il 2° adattamento del romanzo di Raymond Chandler Addio, mia amata (1940) dopo quello mediocre del ’42 con G. Sanders e prima di quello buono del ’75 con R. Mitchum nella parte di Philip Marlowe. Il migliore dei 3. Quintessenza del film nero, un piccolo capolavoro di cinema espressionista (fotografia di Harry J. Wild) con una qualità visiva che influenzò molti film dell’epoca.
Cresciuto nel desiderio di vendicare la morte del padre, ingiustamente accusato di complicità nel furto di denaro perpetrato dal socio Stockwell, il giovane americano Raymond Gorman (Buster Crabbe) giunge in uno sperduto villaggio africano nei pressi del quale sa che, molti anni prima, il malvivente ha concluso la sua disperata fuga dalla giustizia precipitando con un piccolo aereo privato. Una superstizione locale che favoleggia di una “strega bianca nata da un uccello caduto dal cielo” potrebbe essere l’indizio giusto per rintracciare la carcassa del velivolo e recuperare il bottino e Raymond al termine di una difficile spedizione – resa più rischiosa dalle trame di una coppia di avventurieri che vogliono impadronirsi dei soldi -, scopre di aver fatto bene a credere alla leggenda. Ma la sorpresa maggiore è la rivelazione che la “strega bianca” è la graziosa Doreen (Julie London), la figlia che Stockwell aveva portato con sè, diventata ragazza nella giungla e protetta fin dall’infanzia da un gigantesco gorilla che, adesso, non ha nessuna intenzione di restituirla alla civiltà…. Tipica produzione della “Poverty Row” – gli studios specializzati in pellicole a basso costo, spesso piacevoli e piene di ritmo – che rielabora la favola della bella e la bestia calandola nel contesto delle avventure esotiche alla Tarzan, con qualche elemento fanta-orrorifico. Il film segna il debutto sullo schermo di una attrice diciottenne, Julie London, destinata in seguito ad una brillante carriera artistica. Buster Crabbe replica il prevedibile ritratto dell’esploratore bianco senza macchia e senza paura; e Ray Corrigan aggiunge al suo repertorio l’ennesimo gorilla, Nabonga, un gigante buono ma pronto a scatenarsi come una furia, sbiadito discendente dell’illustre King Kong. Nabonga è conosciuto anche con i titoli Die Rache des Gorilla in Germania e The Jungle Woman in Gran Bretagna.
Il piccolo Felipe _ o Philip _ figlio di un ambasciatore, a Londra idealizza il maggiordomo di casa, ma poi, scoperta una sua relazione extraconiugale, rischia di metterlo nei guai, denunciandolo di aver ucciso la moglie, morta accidentalmente. Tratto dal racconto The Basement Room (Lo scantinato, 1935) di Graham Greene, da lui stesso sceneggiato e poi riscritto come romanzo, pubblicato nel 1950, è un piccolo capolavoro di psicologia infantile, ricco di annotazioni sottili e sostenuto da una regia inventiva, un tour de force visivo (1040 inquadrature), dal punto di vista del bambino, per il quale il mondo degli adulti è contorto, labirintico, incomprensibile. Come in tutti i film di Reed di quel periodo, la scelta e la direzione degli interpreti è eccellente. Esiste anche in edizione colorizzata con il computer. Fotografia Georges Périnal
Fusako Owada è una donna della notte del Giappone del dopoguerra. Prostituta e amante di un pericoloso trafficante di droga, vive la sua quotidianità fra le viuzze di una città in rovina, devastata dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, e il sollievo di alcuni piccoli vezzi che il suo uomo le offre. Ma a risvegliarla da questo torpore esistenziale, facendole perdere tutta la solidità e riscoprendola fragile e labile, è la scoperta che un’altra donna è nel cuore del suo amante… E questa altri non è che la sorella Kumiko. Terribilmente contemporaneo, con una precisione antropologica e una feroce poetica, Kenji Mizoguchi firma questo piccolo gioiellino cinematografico, lontano dai suoi territori prediletti. Si parla di gagnster, violenza, donne e uomini sanguinosi, riti barocchi e miti torbidi e spietati… ma dove aleggia sempiternamente la speranza di cambiar vita. I personaggi di questa storia sembrano portare dentro di loro un inferno personale: «Donne come me», dice Fusako alla sorella «non devono più esistere». Dannati e dannate da un’esistenza vissuta nel Male. Bravissima (e meritatamente premiata in patria) l’attrice Kinuyo Tanaka, nel ruolo della protagonista, che ben disegna le iperboliche emozioni che la scuotono, facendo sciogliere quel gelo e quella metallicità che facevano parte del suo ruolo nella prima parte della pellicola. Altrettanto valente anche Tomie Tsunoda nel ruolo della sorella nervosa, pericolosa e fragile. Ottime la scenografia e la fotografia che rendono veramente mefistofelico il microcosmo in cui si sviluppa la trama (che evoca un po’ la tragedia greca), direttamente creata da un romanzo di Eijiro Hisaita e sceneggiata da Yoshikata Yoda. Lontano da preoccupazioni politiche e formali, Mizoguchi fa un film che non è dei migliori, ma senza alcun dubbio, è uno dei più fluidi della sua filmografia.
Regista del cinema muto, gran dongiovanni impenitente al tramonto, dà spregiudicate lezioni di seduzione a un giovane allievo che s’innamora di una coetanea che il maestro _ in contraddizione con sé stesso _ vorrebbe sposare. In chiave autobiografica non priva di amarezza, è una dichiarazione d’amore al cinema muto delle origini e una divertita, ma anche commossa, ricostruzione della Belle Époque. L’intrigo sentimentale _ paragonato dall’autore, un po’ abusivamente, a quello della Scuola delle mogli di Molière _ non è originale, ma serve da tramite per il resto. Tenero, divertente, qua e là caustico. È il 1° film che R. Clair girò in Francia dopo il suo soggiorno americano, e il migliore tra quelli fatti dopo la guerra. Nella parte di Chevalier doveva esserci Raimu che morì poco prima delle riprese.
Hollywood, che ne aveva costruito il personaggio con molta attenzione, nel 1940 attribuì a Gary Cooper (su precisa disposizione di Washington) un ruolo decisamente importante, quello del leggendario sergente Alvyn York, che era stato il massimo eroe americano della prima guerra mondiale. Il fatto non era solo cinematografico, l’America era sul punto di entrare in guerra, ma una gran parte del governo premeva per il non intervento, la stessa opinione pubblica era confusa. La storia di York era straordinariamente esemplare: era un contadino del Tennessee che non voleva combattere per motivi religiosi. Lo fece soltanto quando capì che combattere avrebbe contribuito a salvare altre vite, e la libertà. Diretto da Hawks, un grande autore, oltre che narratore, Cooper fu magnifico. Le sequenze, col suo lungo fucile, in cui cattura un’intera compagnia, il suo dolore consapevole, il ritorno a casa, il matrimonio con la fidanzata che l’ha aspettato paziente contribuirono a convincere gli americani più di tutti i proclami e le propagande. La missione era dunque compiuta. Certo, il film aveva grandi qualità, con un’attenzione quasi europea al realismo e al rigore e diede modo a Cooper di vincere il suo primo Oscar. Un attore, dunque, può contribuire a vincere la guerra. Se è Gary Cooper.
Classico del terrore anni Quaranta, ispirato alla lontana a Jane Eyre. Una signorina viene assunta come infermiera nella casa di un ricco signore ad Haiti. La moglie di quest’ultimo mostra segni di progressiva follia.
Un film di Robert Wise. Con Robert Ryan, Audrey Totter, George Tobias, Wallace Ford. Titolo originale The Set-Up. Drammatico, Ratings: Kids+13, b/n durata 72 min. – USA 1949. MYMONETRO Stasera ho vinto anch’io valutazione media: 4,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Raggirato dal suo stesso manager che speculava con le scommesse sulle sue sconfitte, un pugile ormai al termine della carriera decide di far di testa sua e riesce a vincere per KO il suo ultimo match. Il disonesto manager perde una grossa somma e, al termine del combattimento, lo fa punire in modo tale da non consentirgli più di boxare.
Film d’atmosfera, imperniato sulla figura di un patriota irlandese che lotta per la causa del proprio paese: viene ferito e si trascina fino a una drammatica morte, in fuga, confortato solo dall’amore di una fanciulla.
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