Una ragazza desidera che il suo fidanzato torni in vita e fa un patto con la morte. Deve cercare di salvare la vita a un altro essere umano. Verrà inviata in tre diversi periodi storici e in tre luoghi: la Cina, Bagdad e Venezia. Gli effetti si sprecano e la visionarietà di Lang è effervescente. Uno dei primi film di Lang, nel periodo del muto. Molte delle caratteristiche delle successive opere sono già racchiuse in questa inquietante pellicola.
CAPOLAVORO ASSOLUTO. Basterebbero queste 2 parole per descrivere uno dei film più influenti del secolo scorso. METASTORICO per come ha saputo superare indenne il tempo e dannatamente moderno nonchè profetico sull’evolversi del tessuto sociale sviluppato per “piani” urbani, al cui apice trovano posto i “nobili”. Tralasciando gli aspetti scenografici di indicibile qualità già per il tempo che proiettano il film nell’olimpo dei must del genere, è l’aspetto “umano” che avvolge i protagonisti che lascia stupefatti_l’eterogeneità delle emozioni che permea la pellicola si fanno ESPRESSIONE di ira, odio, rancore, vendetta e voglia di ravalsa…spesso mescolandosi insieme; Come non provare un senso di riconoscenza verso questa pellicola dopo aver visto Blade Runner, AI, Io robot, Equilibrium o aver visionato altre forme d’arte inevitabilmente contaminate e a tutte le latitudini (nathan never, katsuhiro otomo,…) Storia. Storia del cinema e non solo. Un film moderno, un sopravissuto del nostro tempo alla cui potenza visiva poco hanno potuto pure le cesoie naziste. Dopo averci stupito con il DOTTOR MABUSE,e il capolavoro indiscusso dei NIBELUNGHI,Fritz Lang ci porta nel mondo futuristico di metropolis.Metropolis e’ una citta’ dove le macchine hanno il predominio,e l’uomo lavorando con esse in un certo senso ne diventa una parte(magistrale la scena in cui gli operai si muovono come macchine usando appunto le medesime),ma quando freder ,figlio del monopolista joh fredersen,assiste all’apparizione di una donna che porta il concetto di fratellanza cambiera’ radicalmente ,e non esitera’ ad allontanarsi dalla politica assolutista a cui mira il padre, e sottomettendosi a questa donna aiutera’ il popolo a far trionfare la sua umanita’ sulle macchine,anche se uno scenziato progettando una creatura artificiale che prendera’ le sembianze della donna ,ostacolera’ questa necessaria rivoluzione.Lang sicuramente non sbaglia una scena ,crea sequenze stilisticamente eccellenti(la citta’ di metropolis dall’alto e’ rappresentata in maniera decisamente sublime),e mette un tema delle macchine e dell’uomo,e dunque in uncerto senso del corpo e dell’anima che si fondono generando quel senso di smarrimento,dove una retta via giunge solo con il traguardo della liberta’,una vera liberta’ che liberera’ l’uomo -macchina da uno schema oramai troppo austero nei confronti di un animo che ha bisogno di vivere la spiritualita’ con la fratellanza ,sentendo ancora una volta la gioia di ricreare una sua vita ,che tagliera’ ogni cordone con le macchine-ingannatrici.
La storia della seconda moglie di Enrico VIII, madre di Elisabetta I. Sposa infelice che finisce decapitata. Questo film appartiene al periodo tedesco di Lubitsch, quello in cui realizzava storie in stile melodramma.
Tra le sue commedie più efficaci, Matrimonio in quattro (1924) è un esempio classico della produzione del regista berlinese, approdato negli Stati Uniti. Il famoso tocco alla Lubitsch, ciò che Billy Wilder descrisse come la singolare capacità di dare anche ai particolari minimi la brillantezza e la leggerezza dell’arguzia, avvolge tutta la pellicola, interpretata da attori del calibro di Monte Blue, Florence Vidor, Marie Prevost e Adolphe Menjou. Ambientata nella Vienna degli anni Venti, la vicenda ruota attorno a due coppie, il dottor Braun e la neo mogliettina Charlotte, la migliore amica di Charlotte, Mizzi, sposata con il professor Stock. Tra i quattro si scatenano ambigui rapporti incrociati, con Mizzi che cerca di portare via all’amica il marito mentre Stock assolda un detective per coglierla in flagrante e poter così divorziare…
Un film di Ernst Lubitsch. Con Pola Negri, Victor Janson, Paul Heidemann, Wilhelm Diegelmann, Hermann Thimig, Edith Meller, Marga Köhler, Paul Graetz, Max Gronert, Erwin Kopp, Paul Biensfeldt Titolo originale Die Bergkatze. Commedia, durata 81 min. – Germania 1921. MYMONETRO Lo scoiattolo valutazione media: 4,00 su 1 recensione.
Lo Scoiattolo” (“Die Bergkatze”, letteralmente ‘il gatto delle montagne’) è stato il primo grande flop commerciale di Ernst Lubitsch, che invece amava moltissimo il film. Il primo conflitto mondiale è finito da poco, e il regista realizza un’opera modernissima e grottesca, una spassosa farsa sulla guerra dove si susseguono a gran ritmo battaglie (a palle di neve), inseguimenti e seduzioni, mentre tutto il paesaggio concorre a creare l’atmosfera surreale e fantastica in cui il film è immerso – per la messinscena Lubitsch incaricò il pittore e scenografo Ernst Stern, che aveva lavorato per lunghi anni con Max Reinhardt.
Misteriosa signora rischia di provocare due scandali nel bel mondo di Londra: è la madre di Lady Windermere, da lei abbandonata bambina per fuggire con il suo amante. Dalla commedia (1892) di Oscar Wilde, sceneggiata da Julien Josephson. Per molti il miglior film muto di Lubitsch che genialmente traspone in termini visivi lo spirito di Wilde, il suo stile epigrammatico. Una delizia di ricostruzione psicologica e ambientale.
Pietra miliare della storia del cinema grazie all’eccellente virtuosismo e alla potenza sociale di King Vidor. New York, durante gli anni Venti. John è un provinciale che arriva in città per trovare la sua strada. Diventa impiegato ma ne sente il peso della routine, prende moglie ma l’unione è inficiata dalle ristrettezze economiche. Tutto sembra tornare tranquillo alla nascita di un bambino. Purtroppo la secondogenita, a distanza di tre anni, rimane uccisa tragicamente in un incidente. L’uomo è disperato e vuole uccidersi, la moglie vuole abbandonarlo ma alla fine la forza di volontà sarà più grande. È l’ultimo dei grandi capolavori del muto, girato un anno dopo l’avvento del sonoro. Mostra con grande efficacia e realismo la stagione americana “inopportunamente” felice, prima della grande depressione. Alcune sequenze sul quotidiano, le strade, gli uffici, sono enormemente all’avanguardia rispetto al cinema dell’epoca.
Le musiche originali di Hugo Riesenfeld rimangono indissociabili dal capolavoro di Murnau; e speriamo che nessuno pensi di “riammodernarle”. Delle infinite ricerche espressive — e espressioniste -, senza precedenti per Hollywood, effettuate lungo le riprese nei nuovi, immensi studio di William Fox — che così intendeva rilanciarsi a livello mondiale — rimangono tracce nell’unica bobina di out-takes: varianti e movimenti di macchina poi ridotti al montaggio. Nell’ultima, fuggevole inquadratura possiamo scorgere Murnau stesso, immortalato sul set il 17 gennaio 1927. Il cinegiornale sonoro Fox Movietone su Mussolini e la parata dei reggimenti fascisti che accompagnò la première del film al nuovo cinematografo Fox di Times Square, a New York, fu “una scusa per invitare i rappresentanti ufficiali italiani” (Donald Crafton, The Talkies, Scribners, 1997).
Racconto, parzialmente inventato, dell’ammutinamento dei marinai dell’incrociatore corazzato Kniaz Potëmkin Tavričevskil, scoppiato a Odessa il 27 giugno, uno degli episodi che si svolsero in Russia durante i movimenti rivoluzionari del 1905. Commissionato dal governo sovietico per il ventennale, il film è costruito come un dramma in cinque atti che lo stesso S.M. Ejzenštejn titolò: 1) Uomini e vermi; 2) Dramma sul ponte; 3) Il sangue grida vendetta; 4) La scalinata di Odessa; 5) Il passaggio attraverso la squadra. Ognuna delle cinque parti _ paragonabili ai movimenti di una sinfonia _ è imperniata su un elemento che ne costituisce l’unità visiva. Questo breve poema epico _ che è anche uno straordinario esempio di cinema di propaganda _ rappresenta, nel tormentato itinerario di Ejzenštejn, il momento di equilibrio e armonia tra ideologia e formalismo, ricerche d’avanguardia e tradizione, teoria e pratica. Il film fu proiettato per la prima volta il 21 dicembre 1925 al Teatro Bol’šoj di Mosca, e dal gennaio 1926 distribuito con tiepido successo di pubblico che aumentò dopo che fu proiettato nello stesso anno al Kamera Theater di Berlino, alla presenza del regista, con un’accoglienza entusiastica. Per un quarto di secolo in Occidente, comunque, con poche eccezioni, fu visto soltanto nei cineclub. Nel 1950 ne fu curata un’edizione sonora con musiche di Nikolaj Kriukov, leggermente più corta di quella muta del 1926 (inquadrature perdute o censurate), con un commento un po’ enfatico. Fu distribuita in Italia nel 1960 (con la voce di Arnoldo Foà). Nel 1976 ne fu fatta un’altra edizione con musiche di Dimitrij Šostakovič.
Verso la fine della sua vita Buster Keaton disse che era più orgoglioso di The General (edito in Italia con il titolo di Come vinsi la guerra) “che di qualunque altro film io abbia mai fatto, perché ho portato sullo schermo, pescato dritto dal libro di storia, un fatto vero della Guerra Civile.”La narrazione si basa su eventi realmente accaduti, rievocati con dovizia nel libro di William Pittenger Daring and Suffering: A History of the Great Railway Adventure, uscito nel 1863 e ristampato nel 1893 con il titolo The Great Locomotive Chase, con cui è tuttora in catalogo.
Nel 1927 Jack Warner, tycoon dell’omonima major, ebbe un’intuizione semplice e geniale: la parola. La Warner, precedendo le altre grandi case hollywoodiane, aveva messo a punto la tecnica per le registrazioni audio. Mise dunque in produzione un film parlato, anzi, cantato. La sceneggiatura prevedeva per il dialogo i soliti cartelli, ma per le canzoni, una presa diretta. Warner assunse Al Jolson, cantante e divo del musical, quarantaseienne, grandissimo. Jolson aveva rivoluzionato lo spettacolo leggero americano, adattando certe novità (il palcoscenico in verticale, per essere in mezzo al pubblico) a certe regole intoccabili. Per esempio, riprendendo la secolare pratica dei menestrelli, si era dipinto la faccia di scuro. Guanti e polsini candidi, abito e faccia scura: ecco il personaggio leggendario che Jolson portò nel primo film “sonoro” della storia del cinema. Era figlio di un rabbino che lo avrebbe voluto cantore nella sinagoga. Era attaccatissimo a sua madre. Il plot del film era semplicemente la storia di Jolson. Dopo aver registrato la celeberrima canzone Mamy, alla presenza di sua madre, Jolson domandò: “Allora, mamma, ti è piaciuta?”. La macchina registrò e al visionamento la frase di Jolson fece impressione. Il cinema poteva parlare. E parlò. Il cantante di jazz è un film, oggi, quasi intollerabile: sentimentale, melenso, zuccheroso e didascalico. Vale per le canzoni di Jolson. Un ragazzo ebreo destinato dal padre alla sinagoga fugge per cantare in un teatro. Cresce, passa attraverso varie forme di spettacolo, sfonda. Trova anche l’amore, ma la carriera ha la precedenza su tutto e il successo, si sa, è foriero di sacrifici e dolore. Solo la “mamma” è un valore inamovibile. La mamma sempre pronta a piangere durante gli spettacoli del figlio. Al Jolson fu dunque, involontariamente, il fautore della rivoluzione del cinema. Dall’oggi al domani, attori che vivevano di sola presenza, che non sapevano recitare, ebbero la carriera stroncata; John Gilbert, per esempio. Lo stesso Chaplin fu il più accanito oppositore del “parlato” e continuò a fare film muti ancora per una quindicina di anni. In Viale del tramonto Gloria Swanson, nei panni della diva del muto Norma Desmond, dice: “Noi eravamo grandi, è il cinema che è diventato piccolo… ci bastavano gli occhi”. Al Jolson, col suo Il cantante di jazz,soprattutto con la “parola”, entra dunque a buon diritto nella storia. Per finire, una reminiscenza di Jolson perfettamente nel nostro tempo: lo spot pubblicitario della “Tabù”.
Operatore di cabina, assiduo lettore di gialli, si addormenta durante la proiezione. Entra nello schermo e, nei panni di Sherlock Holmes Jr., si mescola ai personaggi, risolvendo un complicato caso di furto. È per il cinema quel che Sei personaggi in cerca di autore fu per il teatro e anticipa di 60 anni La rosa purpurea del Cairo . Cinema e sogno coincidono nel più geniale e surrealistico film di B. Keaton, massima espressione del cinema come macchina sognante. “Tutto il film è giocato sui grandi spazi cari al cinema di Keaton e attorno al tema sogno ricorrono il gusto della parodia di un genere (il giallo) e la demistificazione del lieto fine” (R. Vaccino). Eccezionale.
Un film di Carl Theodor Dreyer. Con Michel Simon, Renée Falconetti, Eugène Silvain, Maurice Stutz Titolo originale La passion de Jeanne d’Arc. Storico, Ratings: Kids+16, b/n durata 110′ min. – Francia 1928. MYMONETRO La passione di Giovanna d’Arco valutazione media: 4,61 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari
Processo e morte sul rogo di Jeanne d’Arc (1412-31), giovane contadina lorenese, concentrati in un sola giornata (14 febbraio 1431): la Pulzella d’Orléans raccontata come vittima e martire, donna che soffre, opponendo intelligenza, umiltà e la sua solitudine ai giudici di Rouen. Uno dei capolavori del muto, e un vertice nella carriera del danese Dreyer che si serve del primo piano (quasi metà del film) per risolvere l’arduo problema del film storico: col primo piano compensa il tempo con lo spazio e riporta al presente lontani fatti storici: il volto umano come specchio dell’anima e del suo destino. Fondato sulla plasticità dell’inquadratura e sui valori ritmici del montaggio, è in un certo senso il capolavoro dell’espressionismo e, forse, l’unico film espressionista non contaminato da elementi letterari e teatrali. Splendido bianconero di Rudolf Maté. La 1ª edizione durava 110 minuti circa (2210 m); nel 1952 fu rieditata, senza scrupoli filologici, in 85 minuti da G.M. Lo Duca con l’aggiunta di una colonna sonora e musiche di Albinoni, Vivaldi, Scarlatti, Bach. Nel 1981, in un istituto psichiatrico norvegese, fu ritrovata una copia, proveniente dal negativo originale distrutto in un incendio, che ha dato origine a una 3ª edizione più completa.
Una giovane sedotta e abbandonata affida il figlioletto alla pietà altrui. Lo raccoglie Charlot, il vagabondo dal gran cuore che, fra mille sacrifici e astuzie, riesce ad allevare il bambino sottraendolo all’orfanotrofio. Intanto la madre del piccolo, che ha fatto carriera come cantante, è alla ricerca del figlio e promette un grosso premio a chi glielo riporterà. Il padrone dell’ospizio sottrae il bimbo a Charlot e va a riscuotere la ricompensa lasciando Charlot affranto. Ma il buon vagabondo riuscirà alla fine a ricongiungersi al piccolo e alla madre, che lo hanno fatto ricercare.
Ospite in casa degli amici Douglas Fairbanks e Mary Pickford, Chaplin ebbe modo di assistere alla proiezione di alcune diapositive rimanendo colpito da una in particolare, ritraente un gruppo di cercatori che, nel 1898, all’epoca della corsa all’oro del Klondike (tra il Canada occidentale e l’Alaska), in una lunga fila cercava di scalare la montagna del Chilkoot Pass, porta d’accesso ai giacimenti. Inoltre si entusiasmò alla lettura di un libro sulle vicissitudini di un gruppo di emigranti diretti in California che nel 1845 rimase bloccato tra i ghiacci della Sierra Nevada e che per sopravvivere, in attesa dei soccorsi, si ridusse a cibarsi dei cani, dei finimenti di cuoio del vestiario nonché dei cadaveri dei compagni deceduti.
L’immaginazione di Chaplin si accese della scintilla del genio e fece di questa materia il soggetto per il suo nuovo film, a due soli mesi dalla prima proiezione del precedente La donna di Parigi. Convinto di quanto labile potesse essere il confine tra tragedia e comicità, collocò il personaggio del vagabondo nel rude universo dei cercatori, facendogli condividere tutti i rischi del freddo, dell’inedia, della solitudine, compresi gli agguati di orsi.
Sedotto da un’affascinante donna venuta dalla città, il giovane contadino Ansass tenta di uccidere la moglie Indre, simulando un incidente, per poter fuggire con l’altra. Tuttavia, durante una gita in barca, l’uomo, pur avendone l’occasione, non trova il coraggio di eliminare la moglie, finendo anzi con il rinsaldare il suo legame matrimoniale. A sera però, mentre ritornano in barca verso la loro fattoria, un temporale fa cadere Indre in acqua. Dopo aver chiesto aiuto, le ricerche portano solo al recupero dei resti dell’imbarcazione: è allora che Ansass decide di ritrovare e uccidere la donna di città, che lo aveva istigato all’omicidio, ma proprio mentre sta per strangolarla, l’uomo apprende che la moglie è stata salvata da un vecchio pescatore. Con il sopraggiungere dell’aurora, sul lago finalmente ritornerà la quiete. Tratto da un racconto di Hermann Sudermann, mutato nel finale, il primo dei 4 film americani del regista tedesco Murnau, che riscosse all’epoca un modesto riscontro di pubblico, costituisce uno dei vertici del suo cinema: Aurora è un’opera che sembra a tratti più tedesca che americana (a riprova della grande autonomia che, insieme a mezzi ingenti, la produzione concesse all’autore), potendo contare su un geniale impiego della luce (con la vittoria dell’Oscar per la migliore fotografia), del ritmo, dell’atmosfera quasi espressionistica, della profondità di campo, della mobilità della cinepresa. Nel 1939 in Germania ne venne realizzato un remake, Verso l’amore, di Veit Harlan.
Mi dite per piacere lingua e sub se sono giusti? nei commenti, grazie
Benché potessero sembrare una strana coppia, Ivan Mosjoukine e Marcel L’Herbier si rivelarono un tandem vincente con il loro eccentrico adattamento del romanzo di Pirandello su un giovanotto che fa credere a famiglia ed amici di essere morto, per iniziare una nuova vita sotto un altro nome. C’erano molte probabilità che la collaborazione di due personalità così diametralmente opposte portasse a un fallimentare conflitto (anche se Mosjoukine, così passionale ed espansivo, spesso indicò il freddo e cerebrale L’Herbier come il regista francese da lui preso a modello insieme con Abel Gance): bastava vedere il film che l’attore aveva interpretato appena prima del Feu Mathias Pascal, l’orrendo Le Lion de Mogols. Il giovane Jean Epstein, appena scritturato dalla Albatros per sostituire Viacheslav Tourjansky (passato alla nuova enclave russa di Billancourt), lottò invano contro la risibile sceneggiatura di Mosjoukine ed al tempo stesso contro la sua volubile star. Nonostante il successo al botteghino, il film segnò il punto più basso nelle carriere di entrambi gli artisti e per Epstein rimase sempre un ricordo doloroso. (Finché visse, la sorella del regista, Marie, a lungo collaboratrice di Henri Langlois, non autorizzò mai la proiezione del film, nemmeno alla Cinémathèque française!)Senza dubbio L’Herbier, che aveva comprato i diritti cinematografici del romanzo con la benedizione dello stesso Pirandello ed aveva personalmente voluto Mosjoukine come protagonista, era un cineasta più flessibile di Epstein, così indifferente agli attori: egli capì come incanalare nel proprio progetto artistico l’ampia gamma emotiva dell’interprete. C’è una stimolante commistione di realismo e fantastico, di gravità e giocosità, sia nella messinscena di L’Herbier sia nella recitazione di Mosjoukine; il film diventa allora ben più di un elegante prodotto costruito in funzione del divo. (Tra i moderni detrattori del Feu Mathias Pascal, si annovera Noel Burch che lo definì retrogrado, pur avendo lui contribuito a rivalutare L’Herbier come uno dei grandi registi del muto.)Fu questo l’ultimo film di Mosjoukine per la Films Albatros di Alexandre Kamenka (che lo coprodusse con la Cinégraphic, la società di L’Herbier). A riprese ultimate l’attore fece le valigie e lasciò Montreuil per trasferirsi dall’altro capo della città, a Billancourt, dove l’ex socio di Kamenka, Noë Bloch, aveva appena fondato la Ciné-France-Film, affiliata francese di un nuovo consorzio di produttori europei, la Westi. Il nuovo studio di Billancourt sarebbe stato la base per l’imminente produzione targata Westi di Abel Gance, Napoléon. Gance prese seriamente in considerazione Mosjoukine per la parte principale del suo kolossal. Alla fine l’attore si tirò indietro facendosi dirigere da Tourjansky in Michel Strogoff. Per molti critici e storici questo passaggio alle produzioni commerciali internazionali ad alto budget segnò l’inizio del declino artistico di Mosjoukine… – Lenny Borger
Buster trasporta un carico di merci e si ferma vicino a dei poliziotti. Una bomba viene lasciata nel suo carro. Quando la bomba esplode la polizia lo scambia per il colpevole: comincia così un grande inseguimento di tantissimi poliziotti che danno la caccia a Buster
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