Mentre Sandberg si esercita con Dickens, il cinema scandinavo è daccapo a una svolta: Dreyer dirige per la Nordisk Blade af Satans Bog (1921), Christensen per la Svenska Häxan (1922; titolo danese Heksen) … Satana nei millenni, la stregoneria attraverso i secoli. Pur sopravvalutato, il film di Christensen segna, chi lo veda la prima volta, un incontro goloso e sconcertante. Ubriachezza lussuria sporcizia superstizione vi si fan beffe di un’umanità degradata e deforme; l’angolazione scientifica è appena il pretesto per un divertissement, godibilmente sordido, laido e sbracato: la cattura della strega mangiona, il sabba dei diavoli tra il fumo e i rami contorti, il volo delle megere, l’unzione della fanciulla, gli amori satireschi, le donne sui pitali, il ballo delle suore tentate. Cenci e tonache, filtri e amuleti: l’atto di accusa ai tribunali ecclesiastici passa in seconda linea di fronte al losco puntiglio di un inventario crudo e minuzioso, vittorughiano. In sostanza, Dreyer si muove già verso approdi spiritualistici; Christensen fa una natura morta. Entrambi contribuiscono a mettere il cinema scandinavo sulla strada del simbolismo. (Francesco Savio, Visione privata, Roma, Bulzoni, 1972).
Dal romanzo McTeague (1899) di Frank Norris: nel 1908 McTeague (Rowland), ex minatore diventato abusivo a San Francisco, uccide la moglie (Pitts), patologicamente avara, fugge con 5000 dollari, da lei vinti a una lotteria nel deserto della Death Valley; il suo ex amico Marcus (Hersholt) lo raggiunge, ma ne è ucciso dopo averlo ammanettato; McTeague muore accanto al suo cadavere e alla borsa dell’oro. Massimo esempio di film “maledetto” e uno dei capolavori mutilati del muto. Spinto dal suo impeto visionario (sei mesi di riprese, quasi tutte in esterni), von Stroheim fece di questo suo primo film di ambiente americano una prima edizione di 3 ore e 40 (da proiettare in 2 parti) che, attraverso successivi montaggi, ridusse a 3. Affidato alla sceneggiatrice June Mathis il film fu compresso, con la supervisione di I. Thalberg, a 135 minuti e poi a 108′. “Credo di aver fatto un solo film nella mia vita e nessuno l’ha visto. I suoi poveri resti, mutilati, furono proiettati col titolo di Greed”. Il regista vi portò alle estreme conseguenze la sua esigenza di verità totale: visionario della realtà, arriva a trasfigurarla attraverso il suo accanimento naturalistico. Personaggi dominati da una triplice fatalità (ereditaria, sociale ed esistenziale) che li trascina alla distruzione. Nessuno sullo schermo ha mai espresso l’avarizia come ZaSu Pitts. Si sono fatti i nomi di Zola e Dickens; bisogna aggiungere quello di Sade di cui Stroheim traduce in immagini l’imperativo etico di vedere chiaro e sino in fondo in sé e negli altri, scoprendovi le più segrete pulsioni di vita e di morte. Nel 1999 entrò in comercio una ricostruzione di Greed della durata di 4 ore e 3 miuti (presentata alla 56ª Mostra di Venezia e poi alle Giornate del Cinema Muto in versione video) con l’aggiunta di 589 foto di scena delle sequenze tagliate, circa 600 didascalie originali e citazioni del romanzo di Norris, effetti di colore che Stroheim aveva previsto, facendo ricorso al Processo Handshiel. Musiche di Robert Israel. Frutto di un’operazione discutibile ha il merito di avvicinarci a quella che rimane una delle vette del muto e dell’itinerario registico di Stroheim.
Stanco della movimentata vita cittadina, Buster Keaton si trasferisce in una grossa fattoria dove viene assunto come guardiano di mandrie. Un giorno, mentre una di queste viaggia su un treno per essere venduta, alcuni banditi tentano di impossessarsene. Ma il nostro eroe riesce a impedire il furto coll’unico aiuto di una mucca! Capolavoro comico.
Xbin e Shuichi sono due studenti. Sospesi fra la paura degli esami e il desiderio di vacanze sulla neve, i due finiscono per corteggiare – senza saperlo – la stessa ragazza.
Un film di Vsevolod Pudovkin. Con Aleksandr Cistjakov, Vera Baranowskaja, Sergej Komarov, Vsevolod Pudovkin Titolo originale Konec Sankt-Peterburga. Drammatico, durata 91′ min. – URSS 1927. MYMONETRO La fine di San Pietroburgo valutazione media: 2,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Nel 1914 a San Pietroburgo un giovane contadino sprovveduto, assunto in fabbrica, denuncia gli organizzatori di uno sciopero, si pente, si rivolta, finisce in carcere da dove lo spediscono al fronte. Nell’ottobre del 1917 partecipa all’assalto del Palazzo d’Inverno. I due temi centrali _ la presa di coscienza rivoluzionaria del protagonista, la trasformazione di Pietroburgo in Leningrado _ non sono bene amalgamati: il primo è sacrificato al secondo. Resta efficace, comunque, grazie alla forza del montaggio, la dialettica tra i motivi collettivi: i movimenti della Borsa, l’attività delle fabbriche di munizioni, la guerra al fronte, la volontà rivoluzionaria. Pur con qualche schematismo nelle trovate simboliche è innegabile l’afflato epico-lirico che gli storici del cinema hanno collocato al centro di una trilogia sulla presa di coscienza del proletariato russo, tra La madre (1926) e Il discendente di Gengis Khan (1928).
La qualità video, vista anche l’età della pellicola, non è granchè purtroppo.
Le losche trame di tre sedicenti aristocratici russi in esilio dopo la prima guerra mondiale: il conte Sergius Karamzin (Erich von Stroheim), insieme a due cugine, Olga (Maude George) e Vera (Mae Bush), affitta una villa a Montecarlo – la Villa Amorosa – e stringe amicizia con il diplomatico americano Andrew J. Hughes. Il conte, approfittando degli impegni di Hughes, ne corteggia la moglie e contemporaneamente seduce anche la figlia minorata del falsario Ventucci. La polizia finisce però per scoprire i tre truffatori: le due principesse vengono arrestate, mentre il conte viene ucciso dal falsario che in seguito ne getta il cadavere in una fogna. ontuoso melodramma costato all’epoca un milione di dollari, considerato il capolavoro di von Stroheim, Femmine folli è uno dei grandi ‘film maledetti’ nella storia di Hollywood, soprattutto per le sue immagini spietate che rappresentano con crudele realismo le ipocrisie della società europea postbellica. Il film, pesantemente e ripetutamente tagliato, è stato faticosamente ricostruito solo negli ultimi anni.
Mefistofele tenta il vecchio mago Faust prima con la possibilità per un giorno di compiere miracoli, poi con i piaceri della giovinezza. Faust seduce Margherita che, quando il suo bambino muore, è condannata al rogo per infanticidio. Maledetta la giovinezza e ritrasformato in vecchio, Faust sale sul rogo. Nell’epilogo in cielo l’arcangelo Gabriele annuncia che l’amore ha reso nullo il patto e ha salvato l’anima di Faust. Prodotto dall’UFA con grandi mezzi, le scenografie di Robert Herlth e Walter Röhrig e i testi di Gerhart Hauptmann (che poi Murnau non utilizzò), il film è – anche grazie alla fotografia di Carl Hoffman, l’operatore di I Nibelunghi – un grande risultato plastico anche se il suo coté medievale non è da prendere molto sul serio. L’interprete di Valentino è il futuro regista William Dieterle. “La segreta autenticità del Faust va cercata a livello figurativo, là dove Murnau rilancia – e trascende – le tensioni retoriche di Lang” (F. Savio). VEDI FAUST – Scheda monografica
Nella traccia audio ci sono diverse colonne sonore da abbinare al video.
Parigi, anni ’20. Prendendoci per mano con la sua macchina da presa, André Sauvage ci fa conoscere la poesia di Parigi attraverso monumenti, insegne, pubblicità, vetrine di negozi, persone, dettagli di volti, corpi ed emozioni. Un poeta che, attraverso il suo sguardo visionario, ci fa dono del ritratto della sua città e della possibilità di saggiarne ed immaginarne il fermento negli anni folli che ne hanno suggellato la bellezza.
Desiderio del cuore (Michael o Mikaël) è un film muto del 1924 diretto da Carl Theodor Dreyer. Il titolo originale tedesco, Michael, lo si deve al titolo Mikaël (in danese) del romanzo di Herman Bang (1904) dal quale è tratto. Il romanzo era già stato adattato per lo schermo nel 1916 con il film Vingarne, diretto da Mauritz Stiller e interpretato da Nils Asther, un attore che, in seguito, avrebbe fatto una folgorante carriera hollywoodiana.
Il titolo originale tedesco, Michael, lo si deve al titolo Mikaël (in danese) del romanzo di Herman Bang (1904) dal quale è tratto. Il romanzo era già stato adattato per lo schermo nel 1916 con il film Vingarne, diretto da Mauritz Stiller e interpretato da Nils Asther, un attore che, in seguito, avrebbe fatto una folgorante carriera hollywoodiana.
Uno dei capolavori assoluti del cinema. Emil Jannings vinse l’Oscar come migliore attore protagonista durante la prima assegnazione del premio. Tra gli autori del soggetto il grande Ernst Lubitsch; Josef von Sternberg realizza il suo film migliore, pari solo a L’angelo azzurro. Un generale, parente dello zar, riesce a salvarsi per mezzo di una rivoluzionaria che lo ama. Arrivato a Hollywood farà la comparsa, morendo sul set.
Nel 2028, i sopravvissuti all’ultima devastante guerra non sono più capaci di esprimersi in un linguaggio comprensibile. Uno scienziato proveniente da un altro pianeta scende sulla Terra ed incontra una donna. Fallito qualsiasi tentativo di comunicare, l’uomo scopre che può farsi intendere da lei mediante la danza. Si tratta del quarto lavoro firmato da Jean Renoir, che faceva forse parte del progetto per un film di più ampio respiro. Ad interpretarlo sono la moglie stessa del regista e Johnny Higgins, un ballerino americano che stava riscuotendo sui palcoscenici di Parigi un buon successo. Fantasia, semplicità e gestualità si integrano armoniosamente in questo interessante cortometraggio. Pochi minuti di cinema per proporre un discorso compiuto ed intelligente che vale il messaggio di pace e speranza proposto da tanti film (del passato e recenti) con maggiore dispiego di mezzi e trame più o meno cervellotiche.
Way Down East si situa nella duplice linea di tendenza delle opere griffithiane dei tardi anni Dieci. Come True Heart Susie e A Romance of Happy Valley, è una nostalgica storia di vita rurale pre-conflitto mondiale, “una storia semplice di gente comune”. Anche Tol’able David ha pressappoco la stessa matrice; Griffith comprò i diritti della storia di Joseph Hergesheimer durante le riprese di Way Down East, rivendendoli in seguito al protagonista di Way Down East, Richard Barthelmess, per un film che verrà realizzato da Henry King nel 1921. Way Down East è il primo dei due estremamente popolari, e pertanto molto costosi, lavori teatrali di cui Griffith si assicurò i diritti cinematografici nel 1920. Romance, un dramma dell’americano Edward Sheldon, era andato in scena per la prima volta nel 1913, ma aveva riscosso un grande successo solo in Inghilterra, con Doris Keane e Basil Sydney nei ruoli principali. Il contratto Griffith/Keane, che Richard Schickel ha definito “senza precedenti per l’epoca”, stabiliva un pagamento anticipato di 150.000 dollari più una partecipazione agli utili. Way Down East si rivelò perfino più costoso, giacché Griffith dovette sborsare 175.000 dollari al produttore William Brady, oltre a dover pagare i diritti d’autore della storia originale alla scrittrice Lottie Blair Parker e a Joseph Grismer, il quale aveva riadattato per Brady il copione di Parker e scritto un romanzo ispirato alla stessa pièce. Il film tratto da Romance, e diretto dall’assistente di Griffith Chet Withey, si rivelò un fiasco, mentre Way Down East ebbe un successo enorme, tanto da ispirare a Griffith un terzo adattamento da un testo teatrale nel 1921, ovvero Orphans of the Storm, basato sul dramma The Two Orphans di Adolphe d’Ennery e Eugène Cormon (1874).
All’epoca della realizzazione di Way Down East Griffith era pesantemente indebitato, sia per la costruzione del nuovo studio di Mamaroneck, situato in una tenuta di campagna affacciata sul Long Island Sound, sia per i soldi che gli erano stati anticipati dalla United Artists per acquistare i diritti di Romance e per coprirne i costi di produzione. In aggiunta, Way Down East, che pure non prevedeva set molto elaborati o folle di comparse, si rivelò molto più costoso del previsto. Richard Schickel sostiene che l’équipe e lo studio di Griffith rimasero impegnati nella lavorazione per sei mesi, un tempo molto più lungo rispetto ai suoi standard abituali, con la troupe ferma ad aspettare le condizioni atmosferiche indispensabili per poter girare la tempesta di neve e le scene sul ghiaccio. I grandi debiti contratti da Griffith crearono una notevole tensione con la United Artists al momento della distribuzione di Way Down East. Griffith voleva garantirsi la parte del leone sui proventi del film distribuendolo per proprio conto, in sale selezionate e a prezzo maggiorato, prima di farlo uscire nei normali circuiti sotto l’egida della United Artists. Ma la nuova società, che aveva anch’essa un enorme bisogno di denaro liquido e di nuovo prodotto (Chaplin non aveva ancora distribuito un solo film) fece pressione su Griffith per avere il film, e a un dato momento della discussione sui diritti di distribuzione, Griffith, Pickford, Fairbanks e Chaplin sembrarono molto vicini a una rottura. La frattura venne ricomposta, anche se, come fa osservare Richard Schenkel, né la società di produzione di Griffith, la D.W. Griffith Corporation, né la United Artists risolsero mai in modo definitivo il problema del finanziamento dei suoi film. Griffith era costretto a ipotecare gran parte dei potenziali introiti di un film semplicemente per poterlo realizzare, pertanto non era mai nelle condizioni di usare i proventi di una produzione per finanziarne un’altra. I favolosi incassi di Way Down East lo sollevarono temporaneamente dai debiti, ma i modesti incassi dei film successivi, a partire da Orphans of the Storm, per non parlare delle imprese ancor meno fortunate, misero in seria crisi la sua società già a partire dal 1924. Way Down East ottenne un enorme successo popolare e raccolse quasi dappertutto una inusuale messe di critiche lusinghiere, ma, dalla stampa metropolitana in particolare, venne accolto con una certa condiscendenza per via del suo materiale originale. Questa attitudine è esemplificata nella lettera di congratulazioni scritta a Griffith dal commediografo e regista Winchell Smith (5 settembre 1920; nei Griffith Papers): “Uno di questi giorni la gente di teatro aprirà gli occhi su ciò che lei è riuscito a fare: trarre un grande spettacolo cinematografico dalla consunta trama di Way Down East – presentarlo in una normale sala teatrale – e uscirne vittorioso! Non è assolutamente fantastico?!”. Quasi tutti i principali giornali newyorchesi seguirono la stessa falsariga, ma forse, ancor prima di questi, è interessante citare l’editoriale apparso su un giornale dell’hinterland rurale, l’Evening World-Herald di Omaha, Nebraska (9 febbraio 1921; nei Griffith-Papers) che, senza tergiversare, arriva subito al punto: “David Wark Griffith non è semplicemente un abile uomo d’affari col pallino del cinema. È anche un raffinato uomo di cultura dagli alti ideali – un vero grande artista… E in questa “storia semplice di gente comune”, grazie al suo elevato magistero d’arte, ci ha mostrato come il cinema possa essere usato non solo per divertire ma anche ponendosi al servizio del pubblico. Griffith ha saputo combinare verità e bellezza, restituendo all’arte il suo positivo e nobile ruolo di ancella della semplice bontà”. Al contrario, la stampa di categoria newyorchese sembrava quasi dispiaciuta di non poter separare il film dal testo teatrale d’origine, che spesso definiva un puro e semplice “melodramma”. Variety (10 settembre 1920) sommamente entusiasta del film (“sarebbe un sacrilegio tagliarne un solo fotogramma”), riconobbe a Griffith il merito di aver saputo trasformare un vecchio cavallo di battaglia: “‘D.W.’ ha preso un semplice, elementare, antiquato melodramma bucolico “distillandone” 12 rulli di avvincente spettacolo”. Wid’s Daily (12 settembre 1920), che definì il film “il più grande successo di cassetta di tutti i tempi”, fu più rispettoso nei confronti del dramma originale, ritenuto un ottimo prodotto commerciale e un probabile richiamo per il pubblico, ma non poté esimersi dal notare che l’originale “non aveva mai raggiunto la forma possente e compiutamente artistica del film di Griffith”. Frederik James Smith (“The Celluloid Critic”, in Motion Picture Classic, novembre 1920) prediceva anche lui un buon successo commerciale al film, definendolo “il più grande di Griffith dai tempi dell’epico The Birh of a Nation”. Ma, pur approvando la morale del testo originale, aggiungeva: “Naturalmente, ciò non implica che ‘Way Down East’ sia da ritenere un’opera di pregevole valore letterario o drammaturgico. Era infatti un melodramma dai dialoghi terribili e di ancor più malaccorta costruzione. Però il messaggio e l’ambientazione erano validi”. I critici accademici, pur riservando lodi pressoché unanimi alla sua versione cinematografica, furono perfino più veementi nel ricusare il dramma originale. Nel 1918, George Jean Nathan aveva compilato una lista di drammi popolari che considerava “spregevoli banalità”. La lista di Nathan, oltre a Tosca, East Lynne, Camille e The Old Homestead, includeva anche The Two Orphans e Way Down East.Per molti critici, la storia che Griffith aveva scelto di raccontare inficiava tout-court anche il suo adattamento per il cinema. Riconoscevano al film un certo fascino, in particolare alla scena del salvataggio in extremis sul ghiaccio, ma non riuscivano comunque a prenderlo sul serio. In un articolo apparso senza firma sul New York Times (“The Screen”, 4 settembre 1920), Alexander Woolcott motteggiava: “Anna Moore, la maltrattata eroina di ‘Way Down East’, è stata nuovamente gettata in balia della bufera di neve la notte scorsa, anche se la poverina non era mai stata scaraventata in una tempesta simile a partire da quel primo fatidico giorno di quasi 25 anni fa in cui Lottie Blair Parker aveva decretato la sua maledizione. Si trattava infatti della versione cinematografica del vecchio dramma romantico ambientato nel New England, e gli spettatori che sedevano rapiti nella sala del Forty-fourth Street Theater seguendone i primi sviluppi finalmente capivano perché D.W. Griffith l’aveva scelto per un film. Non per la sua notorietà, né per la sua eroina. E neanche per i maltrattamenti che questa subisce. Solo per la tempesta di neve”. – Lea Jacobs [D.W. Griffith Project # 598]
Un film di Yakov Protazanov. Con Yuliya Solntseva, Igor Ilyinsky, Nikolai Tsereteli, Nikolai Batalov, Vera Orlova, Vera Kuindzhi, Pavel Pol, Konstantin Eggert, Yuri Zavadsky, Yulia Solntseva, Valentina Kuinzhi, Nikolai Tserectelli, Ygor Ilinski, Yuri Zavadski Avventura, b/n durata 120 min. – URSS 1924. Durante la guerra civile in URSS, un ingegnere sovietico effettua un volo su Marte. La sovrana del pianeta s’innamora dell’esploratore spaziale che prende parte a una rivoluzione tesa a sollevare i proletari marziani, soggetti a un sistema di bestiale sfruttamento. Il protagonista si risveglia e si rende conto che il suo è stato il sogno di un uomo dai nervi logori. Realizzato con notevole dispendio di mezzi, e accolto con molte riserve dalla critica e dalle autorità, è considerato uno fra i primi film sovietici di anticipazione, fra l’altro interpretato da attrici bellissime. Pregevole soprattutto per l’estrosità della messa in scena, che vanta l’impiego di scenografie costruttiviste contrapposte a scorci realistici della Mosca negli anni della NEP.
Stella Dallas è una giovane ragazza di provincia che subisce un forte colpo alla morte del padre. Per risollevarsi dalla sua disperazione sposa, forse troppo in fretta, l’altolocato Stephen, con il quale non ha nulla in comune. Dopo la nascita della figlia, Laurel, i due coniugi si separano e prendono strade diverse. Stephen fa ritorno a New York ma presto Stella si rende conto che sua figlia non avrà mai buone possibilità di crescere in maniera sana se resterà con una madre sola e incapace a badare a lei.
Sally of the Sawdust è un film curioso per molti motivi. Infatti, pur non mancando di spettacolarità, non possiede la grandeur dei precedenti film epici di D.W. Griffith. Inoltre è una commedia, un genere che, fin dai tempi della Biograph, Griffith aveva sempre preferito lasciare nelle mani di registi quali Mack Sennett o Billy Quirk. Senza considerare che, oltre alla sua supposta mancanza di talento per la commedia, Griffith affidava le sorti di Sally of the Sawdust a una inedita coppia di protagonisti formata da W.C. Fields, un clown appena arrivato dalle Ziegfeld Follies, e da Carol Dempster, unanimemente ritenuta una delle luci meno brillanti nel grande firmamento di stelle che Griffith ha lasciato al cinema. L’artista aveva debutto come comparsa in una scena danzata di Intolerance (1916) e poi Griffith le aveva affidato parti di comprimaria o di protagonista in suoi film a partire da The Girl Who Stayed at Home (1919). Nondimeno, riferendosi alla prima attrice di Sally of the Sawdust, Frederick James Smith di Motion Picture Classic ammetteva che solo con Isn’t Life Wonderful aveva pensato che “Miss Dempster fosse in grado di recitare”.Ma, cosa ben peggiore, anche il grande lustro personale del regista cominciava ad appannarsi. Se da un lato il successo di pubblico di The Birth of a Nation (1915) aveva ampiamente contribuito a diffondere in pari misura la fama e l’infamia di Griffith, non gli aveva tuttavia assicurato l’indipendenza produttiva cui egli massimamente aspirava. Il fallimento dello studio Fine Arts era stato foriero di ulteriori difficoltà.
Nel 1919, Griffith si lamentava con Frederick James Smith del Motion Picture Classic lamentando perché, a causa delle ingerenze da parte della Paramount-Artcraft, “alcune delicate scene … erano state tagliate senza pietà [da A Romance of Happy Valley (1919) e da The Girl Who Stayed at Home] per velocizzare il programma”. A tutto ciò era seguito un periodo di alterne fortune; ma quali che fossero le ragioni addotte da Griffith per spiegare i propri “fallimenti”, a partire dal dicembre 1924 il giudizio critico si era inasprito a tal punto che James Quirk, il critico di Photoplay, si prese la libertà di esortare il grande maestro di un tempo dichiarando: “È venuto il momento … in cui lei deve dimostrarsi responsabile delle sue azioni.” Così lo scetticismo connotò da subito il nuovo sodalizio tra Griffith e la Paramount. Infatti, Sally of the Sawdust ottenne l’approvazione – sia pure incerta – della critica. Nella stessa recensione del Motion Picture Classic in cui sottolineava i progressi nella recitazione della Dempster, Smith lodava il film per i suoi pregi “in un genere in cui Griffith è sempre stato debole – la commedia”. Nel numero di novembre di Motion Picture Magazine del 1925, Laurence Reid ribatteva che il film aveva “una trama molto avvincente … nella migliore tradizione del regista, satura di frizzante comicità, sempre sapientemente bilanciata con una giusta dose di pathos”.Pertanto, dalle valutazioni critiche dell’epoca, Sally of the Sawdust emergeva da un lato come un tipico prodotto griffithiano e, contemporaneamente, come una presa di distanza dai suoi temi e stilemi abituali. Indubiamente, nonostante le sue evidenti anomalie, Sally of the Sawdust reca il marchio inconfondibile della progettualità griffithiana. Consapevole della necessità di puntare sicuro per il suo primo film Paramount, Griffith ricorse a un collaudato successo teatrale. La pièce Poppy (1923) di Dorothy Donnelly forniva le stesse garanzie che nel 1920 erano state assicurate da Way Down East di Lottie Blair Parker. Entrambi i lavori erano stati due grossi successi teatrali, ma, cosa ancor più importante, la trama di Poppy permetteva lo sfruttamento di tutti i contrasti drammatici che maggiormente interessavano a Griffith: la contrapposizione tra innocenza rurale e esperienza cittadina, tra libertà e oppressione, rispettabilità e discredito, intolleranza e larghezza di vedute, probità e amore. Il fulcro narrativo di Sally of the Sawdust è un tema che aveva già costituito la base drammatica di molti Biograph, ma anche di The Birth of a Nation, Intolerance, e perfino a Broken Blossoms (1919), ovvero la morte o l’assenza della madre che comporta l’instaurarsi di un legame tra una giovane donna con il padre vedovo, o comunque con un tutore, che ne segue la crescita fino al momento del risveglio sessuale.La relazione emotiva tra Sally e il suo “Pop” è il punto focale su cui verte la costruzione delle principali gag del film. Le scene comiche di minore complessità – il viaggio clandestino sul treno, il caos nel panificio – sono dominate da W.C. Fields, il quale riesce a sfruttare tutte le situazioni con piccoli gesti, spiazzamenti comici che si amplificano a valanga. Con il proprio corpo sempre in azione, Fields assume le posizioni più improbabili in qualsiasi circostanza, anche la più insignificante. Ad esempio, quando con Sally viaggia abusivamente sul treno, tiene piedi e gambe buffamente intrecciati a difesa del bagaglio pur essendo raggomitolato con lei sulla piattaforma scoperta del convoglio. In ogni situazione, Fields si confronta sempre con una serie di oggetti inanimati – un cappello, un bastone da passeggio, una valigia – che assurgono al ruolo di cospiratori contro ogni sua velleità di assicurarsi una posizione comoda nel mondo. E le sue invenzioni si integrano talmente bene con la sua performance d’attore da diventare espressioni “naturali” dell’eccentricità del suo personaggio.La comicità della Dempster è di grana meno fine, più esplicita, più enfatica. “Spalla” di Fields nelle situazioni comiche minori, l’attrice diventa una partner di pari vigore nelle sequenze d’azione più spettacolari quali la grande mischia circense che chiude il primo tempo o l’inseguimento e salvataggio che risolvono l’intero film. Nella prima mischia, Sally si fionda nella sporcizia sotto un vagone del circo gridando “Ehi, babbeo!” con tale forza che pare quasi di udirne la voce. Nella prima mischia, Sally si fionda in un cumulo di immondizia sotto un vagone del circo gridando “Hey, babbeo!” con tale forza che pare quasi di udirne la voce. Colpendo gli assalitori del suo “Pop” con un’asse di legno, lei provvede a vivacizzare la zuffa mentre Fields si fa carico di palesare le assurdità comiche della lotta. Verso la fine del tafferuglio, per esempio, Pop elude i suoi assalitori con quella che ormai è diventata una parodia classica del pugilato: tenere un avversario a distanza, in questo caso afferrandolo alla gola con la mano, e costringerlo così a menare cazzotti al vento. La mischia si placherà infine del tutto con l’apparizione di Sally e dell’elefantessa Lucy. La dinamica interna dell’intera sequenza nel circo è tutta giocata sulla diversità di registro tra la verve combattiva della Dempster e le sottili invenzioni comiche disegnate da Fields. Il risveglio sessuale di una giovane donna è il tema secondario di Sally of the Sawdust. E il rapporto clownesco che si instaura tra Dempster e Fields, oltre a creare una coppia di caratteri funzionale alla narrazione, sancisce al contempo l’innocenza del rapporto tra una donna giovane e un uomo più anziano che molto spesso si trovano l’una con le braccia intorno al collo dell’altro o con i loro corpi strettamente allacciati.In ultima analisi, tuttavia, né l’apprezzamento della critica (quando il film uscì) né il successo al botteghino hanno contribuito a collocare Sally of the Sawdust nel pantheon delle opere griffithiane più importanti. Il film risente di una evidente discontinuità d’interesse e, sotto certi aspetti, di una vera e propria mancanza d’impegno da parte di Griffith. Nondimeno, Sally of the Sawdust dimostra in modo incontrovertibile che il suo talento per la commedia era molto più sviluppato di quanto comunemente si sarebbe indotti a credere. Inoltre, la maturità delle scene d’amore del film, l’inventiva comica della sua improbabile coppia di protagonisti e la brillante sequenza dell’inseguimento finale suggeriscono a chiare lettere che Griffith era ancora pienamente “responsabile delle sue azioni”, con capacità tutt’altro che esaurite.
Sedotto da un’affascinante donna venuta dalla città, il giovane contadino Ansass tenta di uccidere la moglie Indre, simulando un incidente, per poter fuggire con l’altra. Tuttavia, durante una gita in barca, l’uomo, pur avendone l’occasione, non trova il coraggio di eliminare la moglie, finendo anzi con il rinsaldare il suo legame matrimoniale. A sera però, mentre ritornano in barca verso la loro fattoria, un temporale fa cadere Indre in acqua. Dopo aver chiesto aiuto, le ricerche portano solo al recupero dei resti dell’imbarcazione: è allora che Ansass decide di ritrovare e uccidere la donna di città, che lo aveva istigato all’omicidio, ma proprio mentre sta per strangolarla, l’uomo apprende che la moglie è stata salvata da un vecchio pescatore. Con il sopraggiungere dell’aurora, sul lago finalmente ritornerà la quiete. Tratto da un racconto di Hermann Sudermann, mutato nel finale, il primo dei 4 film americani del regista tedesco Murnau, che riscosse all’epoca un modesto riscontro di pubblico, costituisce uno dei vertici del suo cinema: Aurora è un’opera che sembra a tratti più tedesca che americana (a riprova della grande autonomia che, insieme a mezzi ingenti, la produzione concesse all’autore), potendo contare su un geniale impiego della luce (con la vittoria dell’Oscar per la migliore fotografia), del ritmo, dell’atmosfera quasi espressionistica, della profondità di campo, della mobilità della cinepresa. Nel 1939 in Germania ne venne realizzato un remake, Verso l’amore, di Veit Harlan.
Riprendendo in parte il meccanismo già sperimentato ne “I Parenti di mia moglie”,Keaton crea il divertimento basandosi quasi esclusivamente sul rigore insensato che domina la dimora dei Canfield. Ogni oggetto assume valore diverso rispetto a quello solito o non è ciò che sembra.Molto divertente anche la lunga sequenza del viaggio d’andata.Ma la scena indimenticabile è quella del cavallo mascherato.Irresistibile l’impassibilità del protagonista anche nelle situazioni più impensabili.E notevoli le sue capacità acrobatiche,che si faranno più strabilianti nei film successivi.La Talmadge era realmente moglie di Keaton,e Will McKay da piccolo è interpretato dal figlio della coppia Joseph.
Siamo nel 1922, il cinema allora, oltre ad un’ancor immatura consacrazione, possedeva quel merito di cui gode ciò che per primo riesce ad esplorare, e talvolta superare, gli argini e i limiti della sperimentazione. Il compito più difficile e apprezzato di alcuni registi del periodo, è stato indubbiamente quello di aver rapprersentato visioni e idee prima d’allora presenti solo in letteratura. In un asssurdo antropomorfismo cinematografico, potremmo affermare che in quegli anni la settima arte, attraversava pressappoco il periodo dell’infanzia, fase che, come per l’uomo, segna e caratterizza notevolmente la propria personalità e l’intera vita futura. Allo stesso modo, questo film segnerà e caratterizzerà molte produzioni successive, e non di meno, saprà imprimersi nella mente d’ogni spettatore. Ispirato al romanzo “Dracula” di Bram Stoker, il regista attraversò non pochi problemi legali. Variò infatti nomi, titolo e luoghi, tuttavia fu egualmente costretto a distruggere ogni copia. Per fortuna, clandestinamente Murnau ne conservò una copia, permettendo alla pellicola di sopravvivere fino ai nostri giorni. La storia racconta di Hutter, giovane impiegato immobiliare, inviato presso il conte Orlok, affinchè permetta l’acquisto di una casa da parte di questi. Lungo il viaggio, Hutter, apprende dalla popolazione locale l’esistenza del famoso vampiro Nosferatu.
Raggiunto il suo cliente, già dai primi giorni l’impiegato realizza una terrificante verità: dietro la figura del conte si cela in realtà quella del famigerato vampiro. Fuggito dal castello, Hutter ritorna dala moglie Ellen, turbata durante la sua assenza da continui presagi notturni. La maledizione di Nosferatu tutttavia si abbatte sullo stesso Hutter e sulla popolazione . Il conte, spostatosi anch’esso dal castello, prende possesso della sua nuova dimora, e silenziosamente ogni notte scruta e spia la moglie dell’impiegato, reso ormai debole e malato. Sarà Ellen ,sacrificando se stessa, a salvare il paese dalla pestilenza e dalla presenza malefica del conte Orlok. Di carattere profondamente psicanalitico, la pellicola si discosta da tutte le altre opere di natura espressionista. Simbolica la scelta del regista di rappresentare spazi aperti e luoghi che, seppur vasti, appaiono comunque immersi in un’atmosfera cupa e visionaria. Peculiare scelta di Murnau, è l’utilizzo di effetti speciali, ombrosi e spettrali sensazionalismi che riescono ad aumentare la dimensione occulta della pellicola. Celebri alcune scene, come l’immagine spettrale della foresta “in negativo” attraversata dal giovane Hutter, o il movimento della carrozza che procede a balzi. Il film, complesso ed elaborato, è ricco di simboli e metafore, diverse inoltre possono essere le diverse interpretazioni e chiavi di lettura. Indubbiamente, la pellicola rappresenta una profonda immersione nel mondo dell’occultismo, trascendendo e spaziando su figure, immagini e temi che rappresentano l’uomo e la sua esistenza. Sequenze e fotografie anacronistiche, forse a qualcuno potranno risultare attempate e ridicolmente minimaliste, ma meritano osservazione e acuta analisi.Sinteticamente una sola parola: Storia.
Il miglior film del regista svedese in terra statunitense. Nonostante il finale voluto dalla produzione, questo rimane uno dei capolavori del muto con la grande interpretazione di Lillian Gish. Una giovane donna della Virginia arriva in Texas. Rimane intrappolata in una casetta di legno, durante una grande bufera. La insidia uno sconosciuto. Grande fotografia.
Una delle opere minori del grande Chaplin ma comunque un grande esercizio nel melodramma. Charlot viene assunto per fare il clown in un circo dove è capitato per caso, fuggendo, innocente, dopo che è stato commesso un furto. L’amore per una cavallerizza lo porta a gareggiare con lo spasimante della ragazza ma alla fine rimarrà solo.