L’eroica resistenza del fortino di Giarabub, in un’oasi della Cirenaica (Libia) al confine con l’Egitto, che fu conquistato dalle truppe britanniche nel gennaio del 1941. “Colonnello, non voglio encomi…” diceva la canzone. Il futuro regista Beppe De Santis che nel ’42 faceva il critico divideva il giudizio in due parti: consenso per la parte di azione, dissenso per il dramma e i suoi personaggi, falsi, retorici e propagandistici.
Brandon O’Malley (Douglas) passa in Messico, inseguito dallo sceriffo Dana Stribling (Hudson) che gli addebita l’uccisione di suo cognato e il suicidio della sorella. S’incontrano nel ranch di John Breckenridge (Cotten) la cui moglie Belle (Malone), a sedici anni, aveva avuto una relazione con O’Malley. I due accettano l’offerta di Breckenridge di scortare una grossa mandria nel Texas. Durante il viaggio l’allevatore viene ucciso, la sedicenne Missy (Lynley), figlia di Belle, s’innamora di O’Malley che salva la vita a Stribling. Al Rio Grande, confine tra Messico e Texas, O’Malley decide di partire con Missy, dopo aver regolato i conti con Stribling, ma apprende da Belle che la ragazza è sua figlia… Intitolato anche The Day of the Gun, il film fu un insuccesso di pubblico e di critica (con poche eccezioni). Lo stesso Aldrich lo considerava poco riuscito, rimproverando allo sceneggiatore Dalton Trumbo di aver trascurato il lavoro per dedicarsi a Exodus, e a Douglas, produttore per conto della Universal, di aver usurpato le sue funzioni di regista. Nonostante le ambizioni pseudoculturali da tragedia greca della storia (tratta dal romanzo Sundown at Crazy Horse di Howard Rigsby) e l’enfasi liricheggiante dei dialoghi, il 3° dei 5 western di Aldrich è tutt’altro che trascurabile. Il conflitto tra l’outsider O’Malley e il campione della legge Stribling è congeniale al regista che conferma il suo talento in diverse sequenze d’azione o di introspezione (l’apparizione della Lynley di giallo vestita alla festa di bivacco) e nella sapiente organizzazione dello spazio (la bufera di sabbia, il duello finale).
Nel ’44, 35.000 paracadutisti alleati scendono in Olanda con lo scopo di impadronirsi di una serie di ponti che favoriranno l’avanzata delle forze alleate. L’impresa non riesce per un ponte di troppo.
A Timphea, tra i monti dell’Epiro, con la complicità dell’amante (Totsikas), una contadina (Stathopulu) uccide il marito (Photopulos) e ne sotterra il cadavere nell’orto. La ricostruzione del delitto si svolge a 3 livelli che s’intersecano dialetticamente in una struttura circolare: l’inchiesta giudiziaria, quella di un gruppetto di giornalisti e il punto di vista del regista-narratore cui non interessa l’itinerario psicologico, ma quello pubblico: il contesto di violenza sociale che fa da retroterra e innesco di una esplosione di violenza individuale. Film severo e scabro sullo sfondo di un paesaggio piovoso, di una regione la cui unica fonte di ricchezza è l’emigrazione, di un paese abitato da donne, vecchi e bambini in cui la comunicazione è ridotta a rare parole, a gemiti, mugolii, gesti silenziosi, spia di una condizione umana degradata a desolazione ferina e di una cupa rassegnazione al dolore e alla miseria. 1° film di T. Anghelopulos. Distribuito in Italia nel 1977.
Un film di Theo Angelopulous. Con Michaelis Zeke, Tania Palaiologou, Stratos Tzortologlou Titolo originale Topio stin omichli. Drammatico, durata 127′ min. – Grecia 1988. MYMONETRO Paesaggio nella nebbia valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
L’undicenne Voula e il fratellino Alexandros intraprendono un viaggio attraverso la Grecia per raggiungere in Germania il padre che non hanno mai conosciuto e che esiste soltanto come una pietosa bugia della madre. Malinconica favola di taglio realistico, scritta con Tonino Guerra, che chiude la trilogia del viaggio (Viaggio a Citèra, 1984; Il volo, 1986) del maggior regista greco. Ha un’alta tenuta espressiva, qua e là estenuata in indugi compiaciuti. I momenti struggenti e gli scatti inventivi non mancano, ma si ha l’impressione di una poesia più cercata che trovata. Musiche tenere e avvolgenti di Eleni Karaindrou, funzionale fotografia di Giorgos Arvanitis.
Le dolorose peripezie di Heleni (Aidini), ragazzina greca che ha messo al mondo due gemelli dopo uno stupro, e dell’amato Alexis (Poursanidis), suonatore di fisarmonica che emigra negli USA, s’innestano in una vicenda corale. Iniziata nel 1919 a Odessa con un gruppo di greci che rimpatriano dopo l’arrivo dell’Armata Rossa, l’azione si sposta a Salonicco e altrove in Grecia, attraversa l’occupazione tedesca durante il conflitto 1939-45 e la successiva guerra civile dove i due figli di Heleni combattono su fronti opposti. 1ª parte di una trilogia scritta dal regista con Petros Markaris (e Tonino Guerra). Ha al centro una donna, una madre. Fedele alla sua idea di cinema e alle sue idee sul mondo, Anghelopulos ha fatto, come talvolta in passato, un film a blocchi con ellittici e impervi passaggi temporali. È un film dominato dall’acqua – fermi o in movimento, vi scorrono milioni di metri cubi d’acqua – che, con la liturgica lentezza di un’azione ora lineare e ora labirintica, costringe lo spettatore a riflettere e a integrare qualora sia capace di seguirne, nel suo calmo ritmo fluviale, corsi e ricorsi, flussi e riflussi. Pur in bilico sul manierismo, è un film di molte bellezze in cui si trapassa dal lirico al tragico, dalla storia al mito, dal politico al contemplativo. Fotografia: Andreas Sinanos. Musica: Eleni Karaindrou. Scene: Giorgos Patsas. Edizione italiana curata da Carlo Di Carlo. Distribuito dall’Istituto Luce.
È il film più sottovalutato del 2011, ma vale la pena di vederlo anche soltanto per il duetto Ganz/Piccoli nella 2ª parte. È un lungo viaggio nel tempo: dal 1949-1953 al 31 dicembre 1999. Altrettanto lungo il viaggio nello spazio: Mosca, Siberia, Austria, Berlino, Roma, Parigi, Toronto. Si passa da un evento storico all’altro: arrivo di immigrati greci di sinistra, morte di Stalin, destalinizzazione (parziale), persecuzione degli ebrei all’Est. È la 2ª parte di una trilogia, scritta dal vecchio Anghelopulos con Petros Markaris e Tonino Guerra, aperta con La sorgente del fiume (2004). Come l’altro, è un film di molte bellezze e dai toni svarianti, qua e là inaridito non tanto dal manierismo, ma dai passaggi temporali (flashback) troppo ellittici o troppo compiaciuti sul tema del titolo, le paure, gli smarrimenti, le insicurezze. Nello scavo e nei contrasti dei sentimenti è forse il film più melodrammatico di Anghelopulos, ma non sembra un demerito. Non a caso la fotografia di Andrea Sinasos indugia sulla nebbia, sul buio, e le musiche di Eleni Karaindrou (pianoforte, organo, canzoni) hanno un’importante funzione narrativa. Ammirevole prova degli attori, compresa la Jacob nella difficile parte di madre e nonna. Finale liberatorio finalmente aperto sul futuro.
A. (Keitel), regista greco, torna in patria per la prima di un suo film e per cercare tre bobine di un negativo ( Le tessitrici ) impressionato nel 1905 dai fratelli Maniakas, pionieri del cinema, girovaghi nei Balcani. Il suo viaggio di ricerca attraversa Albania, Macedonia, Bulgaria, Romania e approda alla straziata Sarajevo dove l’attende un anziano cinetecario (Josephson). (La parte era destinata a Gian Maria Volonté, morto dopo pochi giorni di riprese.) Capolavoro imperfetto? Nella malinconica liturgia solenne del suo cinema di riflessione sulla Storia le pagine opache non mancano, ma le pagine riuscite sono di alto livello, e più numerose. Scritto con Tonino Guerra e Petros Markartis, il 10° film di T. Anghelopulos conferma che questo regista isolato, peculiare e inimitabile è uno dei pochi cui si può attribuire la qualifica di “europeo”: il suo è “un invito alla ragione (non alla ragion di Stato), di cui abbiamo bisogno perché il relativo sonno non generi altri goyeschi mostri” (L. Pellizzari). Non c’è ritorno a Itaca per il suo Ulisse: l’epica sfocia in tragedia. Lo sguardo innocente dei pionieri del cinema è perduto per sempre. Gran Premio della Giuria a Cannes 1995 quando la Palma d’oro toccò a Underground di Kusturica, come dire l’Odissea e l’Iliade di questa fine di secolo.
Ambientata all’inizio del 1936 – anno di nascita del regista – nei giorni precedenti alle elezioni che portarono al governo il generale Joannis Metaxas e, subito dopo, alla dittatura militare, è la storia di un ex collaboratore della polizia che in carcere prende in ostaggio un deputato della destra e minaccia di ucciderlo se non sarà liberato. 2° film di Anghelopulos con un linguaggio antinaturalistico di straniamento brechtiano, fondato sull’attenuazione (litote), l’omissione (ellissi) e i piani-sequenza, che si propone di non coinvolgere emotivamente lo spettatore, ma di metterlo in rapporto critico con quello che vede. Film sull’avvisaglia della dittatura, descrive la nascita del fascismo come il risultato di silenzi, favorita dalla corruzione della classe dirigente e dall’involuzione reazionaria della democrazia borghese. L’antagonismo di classe è messo in immagini e suoni nella potente sequenza del grammofono.
Un seminarista tedesco, che durante la guerra ha ucciso un partigiano francese per non essere ucciso a sua volta, dopo la guerra si consegna alle autorità francesi. In carcere incontra un obiettore di coscienza francese. Si raccontano le loro storie e le loro scelte.
The Strange Thing About the Johnsons è un cortometraggio del 2011 scritto e diretto da Ari Aster, al suo esordio alla regia.
Lo scrittore Sidney Johnson sorprende involontariamente suo figlio di dodici anni, Isaiah, intento a masturbarsi.Imbarazzato, si scusa e lo rassicura dicendogli che è una cosa del tutto normale, ignorando il fatto che il ragazzino si stesse masturbando su una sua foto.
Non aggiungo altro per non fare spoiler (Ipersphera)
Una coppia di americani, Jessie e Roy, aderenti a una Chiesa protestante che si occupa di aiuto ai bambini in Cina, decide di utilizzare per il ritorno la linea ferroviaria transiberiana. I due hanno come compagni di viaggio in cabina lo spagnolo Carlos e la sua compagna Abby i quali dichiarano di pagarsi i viaggi lavorando come insegnanti di lingue e poi di arrotondare con la vendita di oggetti di artigianato esportati illegalmente: In questo viaggio hanno con sé numerose matrioske russe. A una fermata Roy scompare e Jessie finisce con il trovarsi da sola con Carlos per il quale prova attrazione. Sarà lei a baciarlo per prima per poi sfuggire al suo tentativo di rapporto sessuale colpendolo con una trave di legno… L’incubo è solo cominciato. Un thriller ferroviario/turistico (anche se dopo averlo visto non verrà a molti il desiderio di percorrere la Transiberiana) ben riuscito questo film di Brad Anderson noto da noi per l’ossessivo L’uomo senza sonno. La tensione cresce progressivamente e i colpi di scena, tutti logicamente giustificabili, non mancano. Il mistero degli spazi attraversati dal treno nonché l’enigmaticità di una Russia in cui, come afferma il luciferino personaggio interpretato da Ben Kingsley, “Quando c’era il comunismo gran parte della popolazione viveva nell’ombra mentre oggi muore alla luce del sole” aggiungono fascino alla storia. Il treno poi, sin dalle origini del cinema (La grande rapina al treno, 1903) è un mezzo di trasporto del tutto congeniale alla costruzione di atmosfere di tensione. Se poi ci si aggiunge la menzogna grazie alla quale, come ricorda un adagio russo, si può andare avanti nella vita ma poi non si può tornare indietro, il gioco è fatto. Anderson sa condurlo magistralmente grazie anche al faccino innocente di Emily Mortimer. Se qualcuno faticasse a ricordare dove può averla vista di recente, prima di cercare nelle biografie pensi a Woody (non Harrelson ma Allen).
Grace è una vedova di guerra con due figli, Anne e Nicholas. Un giorno arrivano tre domestici e la donna mostra loro la casa ricordando che una porta non va mai aperta prima che sia chiusa l’altra. Ma i domestici conoscono l’abitazione, ci hanno già lavorato tre anni prima. C’è un segreto familiare: Anne e Nicholas dicono che da qualche tempo la mamma è diventata matta. Grace manifesta una personalità molto rigida, mentre Anne afferma che in casa, oltre al fratello, c’è un bambino. Nicole Kidman è ormai un’attrice per tutte le stagioni. Non c’è ruolo, non c’è film che non la vedano protagonista efficace e versatile, capace di reggere sceneggiature d’autore così come film commerciali. È il caso di quest’opera che vuole consolidare il suo status di Grace Kelly degli anni Novanta, tenendo presente il bisogno di non far adagiare troppo a lungo il pubblico in poltrona. Brividi e colpo di scena non mancano.
Woody Allen è del 1935 e la sua formazione, oltre che da libri, musica e generica comunicazione newyorkese, è dovuta in gran parte alla radio. Almeno è ciò che lascia intendere con questo film. Adolescente negli anni del dopoguerra ha vissuto la sindrome della radio, allora del tutto simile a quella della televisione, nel nostro tempo. C’erano le novelas, i quiz, i giornali, proprio come adesso. In più c’era lo sforzo attivo della fantasia che doveva dare forma a ciò che veniva suggerito dall’udito. Davvero bei tempi, e Allen si rivela onesto e nostalgico. Lui non appare nel film, racconta soltanto fuori campo. Ecco dunque i personaggi della sua vita reale, in quella New York, intrecciarsi con quelli suggeriti dalla radio. Ci sono i parenti che concorrono a tutti i quiz radiofonici, quelli che non perdono una puntata, quelli che consumano tutti i prodotti suggeriti dalla pubblicità. Allen, grande ammiratore di Fellini, ha dunque realizzato il suo Amarcord. Il punto d’arrivo è la prima serata al Radio Music Hall, al quale Allen partecipò come scrittore di testi comici. E fu l’inizio… Va detto che in questo caso gran parte del merito va a Oreste Lionello, il doppiatore di Woody, che regge quasi da solo tutto il film come voce narrante.
1886: dopo la resa di Geronimo e dei suoi guerrieri, il giovane Massai continua da solo la lotta finché si rassegna a trasformarsi in contadino e a sposarsi. Il 1° dei 6 western di Aldrich e, forse, il più bello, certamente il più vigoroso, quello in cui il discorso filoindiano è più esplicito. Ricco di invenzioni, con un Lancaster solido come una roccia. Una delle più belle e significative carrellate del cinema hollywoodiano. Finale imposto dalla produzione, cioè da Lancaster: Aldrich lo voleva meno ottimista. Buchinsky è Bronson.
La porta sul buio è una miniserie televisivaantologica formata da quattro episodi gialli di circa un’ora, curati e prodotti da Dario Argento e trasmessi dalla RAI per quattro settimane nel settembre 1973 sul Programma Nazionale (l’odierna Rai 1).Ogni episodio viene presentato da Dario Argento, che firmò la regia del secondo episodio con lo pseudonimo Sirio Bernadotte e subentrò a Roberto Pariante nella regia del quarto. Reduce dai successi dei primi tre film, Dario Argento cura e produce per la RAI una serie di quattro mediometraggi della durata di circa un’ora ciascuno. Oltre a presentare ogni episodio, il regista ne dirige personalmente uno, Il tram, subentrando inoltre a Roberto Pariante nella direzione di Testimone oculare, mentre gli altri due film sono affidati a Luigi Cozzi, collaboratore di Argento, e a Mario Foglietti. Si trattava di un team già collaudato, in quanto in Quattro mosche di velluto grigio Pariante era stato aiuto regista di Argento e Cozzi assistente alla regia e coautore del soggetto con Foglietti ed Argento.Fondamentale apporto alla confezione della serie fu dato dalle musiche, opera di Giorgio Gaslini, pianista e compositore jazz. La serie fu trasmessa dal primo canale in prima serata, ma, non essendo i telespettatori dell’epoca avvezzi a scene “forti” in televisione, Argento e colleghi dovettero contenersi nella rappresentazione di scene cruente e di terrore, come fino ad allora il regista aveva abituato le platee cinematografiche. Non per questo gli autori delle quattro storie rinunciarono ad imbastire delle trame dalle tinte fosche, atmosfere stranianti e con una sufficiente dose di suspense. Argento in particolare cercò di trasferire in queste brevi storie le sue idee, già proposte sul grande schermo, rappresentando la mini serie un’occasione per il regista di sperimentare nuove tecniche di ripresa e di esplorare nuovi linguaggi cinematografici adatti al thriller.
Vi sono sei film sulla serie Resident Evil, scritti da Paul W. S. Anderson, anche se inizialmente il regista di film horror George A. Romero è stato molto vicino a dirigere i film.[53]
A dispetto della critica negativa, i film hanno incassato abbastanza da incoraggiare l’approvazione di una esalogia. Paul W.S. Anderson aveva dichiarato in un’intervista che il quarto film, Resident Evil: Afterlife, sarebbe stato l’inizio di una nuova trilogia e che il film sarebbe stato sviluppato usando cineprese 3D.[54]
La trama dei film rivisita quella del videogioco, risultando dunque non canonica a quella originale.
Nel 2021 iniziano le riprese del reboot della serie. Il film si distingue notevolmente dalla saga cinematografica originale, ha per protagonisti i personaggi principali del franchise e conta su una forte componente horror. Il film è ambientato a Raccoon City e prende spunto dai primi due capitoli della saga videoludica
Nina è una ballerina del New York City Ballet che sogna il ruolo della vita e un amore che spezzi l’incantesimo di un’adolescenza mai finita. Incalzata da una madre frustrata, si sottopone a un allenamento estenuante sotto lo sguardo esigente di Thomas Leroy. Coreografo appassionato e deciso a farne una fulgida stella, Leroy le assegna la parte della protagonista nella sua versione rinnovata del “Lago dei cigni”. Sul palcoscenico Nina sarà Odette, principessa trasformata in cigno dal sortilegio del mago Rothbard, da cui potrà scioglierla soltanto il giuramento di un eterno amore.
Un pistolero entra casualmente in possesso di un’ingente somma di denaro. Un suo rivale vuole portargliela via con l’aiuto di un banchiere disonesto, ma, quando si accorge che l’uomo manovra per eliminare anche lui….
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.