Un piccolo gruppo di Apaches, guidati dal feroce e indomito Ulzana, fugge da una riserva dell’Arizona e semina cadaveri. Scortato dall’anziano e saggio scout McIntosh e da una guida indiana, un drappello di cavalleggeri, comandati da un giovane tenente, li insegue per giorni. In un periodo di vacche magre per il western, è un toro fiero quello di Aldrich che si ricollega a L’ultimo Apache (1954) in toni più disperati e cruenti, non senza rimandi allusivi al Vietnam nella sceneggiatura di Alan Sharp. Ritmo lento, tra sprazzi di violenza, il senso dei larghi orizzonti tra montagne aride, deserti, sassi e polvere. “Se l’inferno e l’Arizona fossero suoi, (Ulzana) vivrebbe all’inferno e si affitterebbe l’Arizona”. Aldrich si tiene a distanza dalla materia narrativa, equiparando le crudeli “ombre rosse” (i Vietcong?) alla natura selvaggia ed enigmatica e condividendo il punto di vista di McIntosh: “Odiare gli indiani sarebbe come odiare il deserto perché non c’è acqua.” Grande Lancaster.
Star, adolescente senza stelle in cielo e un padre abusante in terra, trova in Jack, un ragazzo più grande e (in)sicuro di lei, la spinta per andare, lasciandosi dietro una madre assente e due fratellini innocenti. Reclutata per vendere abbonamenti porta a porta, sale sul furgone di Krystal, ‘titolare’ in costume del business e amante incostante di Jack. Lungo le strade del Midwest, tra una sigaretta, una canna e una canzone di Rihanna cantata a squarciagola, Star e Jack si innamorano. Lei ha un sogno, lui un capitale per comprarlo ma il viaggio è ancora lungo e probabilmente non porta da nessuna parte.
Aka: “AKA Serial Killer”. Ispirati a quattro omicidi avvenuti in Giappone nel 1968, attribuiti a uno studente diciannovenne che venne soprannominato “il killer della pistola”.
A dodici militari condannati a morte per reati gravi viene offerta una possibilità di salvezza: partecipare ad una pericolosa missione nella Francia occupata dai tedeschi al comando del maggiore Reisman. Quest’ultimo riesce a fare di quel gruppo di delinquenti una pattuglia legata da un vero spirito di corpo, e la missione riesce: gli ufficiali tedeschi saltano in aria insieme al castello che li ospitava. Ma della pattuglia di disperati soltanto uno torna a casa.
Amori e disavventure di un giovane parrucchiere per signora, scatenato dongiovanni. All’inizio si giostra un terzetto di belle donne (una attrice, una signora del bel mondo, la moglie di un miliardario) e gli va bene finché il caso (o meglio una combinazione d’affari, il tentativo da parte del parrucchiere di farsi aprire un negozio dal miliardario) non le fa incontrare.
Negli anni Cinquanta, il senatore americano McCarthy dichiarò guerra a chiunque professasse idee antiamericane: la crociata degenerò ben presto in una vera e propria caccia alle streghe. Molti scrittori che non potevano più lavorare perché sospettati di filocomunismo facevano firmare i loro lavori a persone “pulite” politicamente. Howard, il protagonista del film, diventa così ricco e famoso in breve tempo senza alcun merito, ma il contatto quotidiano con persone di grande cultura e livello morale scuote la sua coscienza. Finisce anch’egli sotto inchiesta, ma riesce a non farsi sopraffare dalla paura e dichiara apertamente le sue idee, pur sapendo che queste gli procureranno la prigione. Il personaggio di Howard è reso magistralmente da Woody Allen, una volta tanto diretto da un altro: Martin Ritt, regista che fu sulla lista nera di MacCarthy. Eccellente anche l’interpretazione di Zero Mostel, lui pure all’epoca coinvolto in quegli avvenimenti.
1882. In un avamposto sperduto nel deserto al fondo della Patagonia, il capitano danese Gunnar e la figlia di quindici anni Ingeborg sono di stanza sulla costa, con pochi uomini dell’armata argentina impegnata nella campagna di genocidio degli indigeni. Unica femmina del luogo, adocchiata da un ufficiale, Inge scappa invece nottetempo con un soldato semplice. Gunnar parte, allora, solitario a cavallo, alla sua disperata ricerca. Jauja è il nome di una leggendaria terra di abbondanza e felicità, per cercare la quale tanti esploratori hanno perduto il cammino e non hanno mai fatto ritorno. Dove sono finiti? Dove finiamo tutti, per poi fare ritorno, per vie misteriose? L’ultimo viaggio di Alonso, sceneggiato dal poeta argentino Fabian Casas, recupera la materia primigenia del cinema, la sua magia fotografica, il muto, il mascherino, l’assenza di direttive narrative imposte, che lascia spazio allo spettatore, lo ingloba nel processo creativo. Viggo Mortensen si mette con straordinaria disponibilità al servizio di questo sogno in movimento, splendidamente fotografato da Salminem.
Un film di Adachi Masao del 1968. Drammatico. Giappone.
Ispirato dalla vera storia di una geisha assassinata in una città famosa per le sue terme, Adachi ha forgiato qui il suo stile preferito, una sorta di documentario concettuale che racconta l’incidente in tono monotono. Lo stesso evento che all’inizio di Violated Angels sfuggiva a ogni principio di causalità, viene qui rappresentato come un singolare antispettacolo.
Rocky vive una situazione familiare insopportabile ed è pronta a tutto pur di abbandonare Detroit per il sole della California. Per amore, il fidanzato sbruffone, Money, e il timido Alex la aiutano a svaligiare appartamenti. Money crede di aver individuato il colpo grosso nel villino di un veterano della guerra del Golfo, rimasto cieco in seguito a una ferita, che ha incassato un risarcimento a molti zeri dopo il tragico incidente in cui ha perso l’unica figlia. I dubbi etici su un furto ai danni di una persona così vulnerabile svaniscono di fronte alla somma agognata, ma i tre scopriranno che il solitario abitante della casa è tutt’altro che indifeso di fronte a un’intrusione. Dopo aver girato il remake de La casa, inutile come la gran parte dei remake horror odierni, le quotazioni di Fede Alvarez erano minime, per usare un eufemismo. Ma le basse aspettative sono da sempre un buon viatico nel mondo della paura, che meglio agisce quando la guardia è bassa. Man in the Dark – titolo originale Don’t Breathe, letteralmente “Non respirare” – ha le caratteristiche tipiche del debutto: budget contenuto, soggetto forte sorretto da una sceneggiatura attentamente studiata, effetto sorpresa sfruttato fino allo spasimo. È lo stesso Alvarez a dichiarare di sentirsi come se fosse al suo debutto, e forse è meglio scegliere l’empatia e dimenticare i suoi primi passi (falsi). Man in the Dark non appartiene al sottogenere home invasion né tantomeno è uno slasher movie, ma trae ispirazione da questi come da altri tipi di horror e dosa bene gli ingredienti in un claustrofobico gioco tra il gatto e i topolini. Dove il primo è cieco ma tutt’altro che innocuo, e i secondi squassati da dubbi morali e sensi di colpa che mal si conciliano con lo spirito di sopravvivenza che dovranno mettere in atto. Un thriller di serie B con una rara dose di coraggio, che non ha paura di mettere in scena sferzate di violenza cruda e credibile, come le scene in cui il veterano cieco calpesta con violenza le gambe di Rocky o la picchia sul volto, violando tabù che neanche Jason Voorhees o Freddy Krueger avrebbero osato intaccare (uccidere barbaramente può essere meno disturbante delle percosse inflitte a un membro del gentil sesso). Ma non esistono eroi e non esistono villain nella lotta senza quartiere che ha luogo nel villino del veterano senza nome, dove gli uomini reagiscono da animali feriti con le spalle al muro, senza lasciare nulla di intentato. Alvarez tiene alta la tensione concedendosi il giusto in termini di virtuosismi di regia e sfruttando al massimo le opportunità generae dalla sceneggiatura. A partire dalle scene girate con camera a infrarossi, quando il padrone di casa stacca la luce e recupera una posizione di vantaggio sui fuggiaschi, dando vita a un sensazionale nascondino basato sui sensi più sottovalutati, udito e olfatto. Inutile l’appendice che chiude il film, che in genere comincia a calare man mano che aumentano i dialoghi. Tuttavia, finché conta solo trattenere il respiro per sopravvivere, l’atmosfera è di sincero terrore. Ancora una volta straordinario Stephen Lang nei panni del veterano, uno degli attori più sottovalutati di Hollywood, capace di una prova mirabile per fisicità a 64 anni compiuti.
Ginny ha sposato in seconde nozze Humpty che lavora nel Luna Park di Coney Island e gli ha portato in dote un figlio decenne con una spiccata tendenza per la piromania. Ginny è però insoddisfatta di quel matrimonio e trova nel bagnino Mickey un uomo colto che possa comprendere anche le sue velleità di attrice. Un giorno però arriva a sconvolgere i fragili equilibri Carolina, figlia di Humpty e fuggita dall’entourage del marito mafioso. Quando Mickey ne fa la conoscenza Ginny avverte l’imminenza di un pericolo.
Abe Lucas, professore di filosofia ormai privo di qualsiasi interesse per la vita, si trasferisce nell’Università di una cittadina. Preceduto da una fama di seduttore incontra la collega Rita Richards che cerca di attrarlo a sé per mettersi alle spalle un matrimonio fallito. C’è però anche la migliore studentessa del corso, Jill Pollard, che subisce il suo fascino e progressivamente gli si avvicina. Un giorno i due ascoltano, del tutto casualmente, la disperata lamentela di una madre che si è vista togliere la tutela di un figlio da parte di un giudice totalmente insensibile a qualsiasi esigenza umanitaria. Abe, in quel preciso momento, sente di poter fare qualcosa per quella donna e, con questo, di poter ridare un senso alla propria vita.
Negli anni della Grande Depressione la malinconica Cecilia (Farrow) trova evasione dalla sua vita di privazioni (un lavoro in lavanderia e un marito disoccupato e ubriacone) passando pomeriggi interi in un cinema, dove proiettano senza sosta il feuilletton La rosa purpurea del Cairo. Accade che il bel protagonista del “film nel film” (Daniels), colpito dall’assidua presenza della sognante Cecilia e stanco della monotonia del suo ruolo, abbandoni lo schermo per vivere maldestramente con lei una tenera e ironica storia d’amore. Film intelligente, delizioso, malinconico e divertito che solo Woody Allen poteva rendere con tanta grazia e ironia.
Dopo aver dedicato trent’anni alla sua squadra di provincia che gioca in serie A sempre in bilico sulla retrocessione, un direttore tecnico viene messo da parte da un nuovo padrone rampante. Non s’è mai fatto in Italia un bel film sul calcio; questa dolceamara commedia con la sordina ha il merito di raccontare l’ambiente calcistico e i suoi retroscena con un minimo di realismo critico: mostra quel che la TV non fa mai vedere. U. Tognazzi ci mette l’anima, e l’amarezza. Scritto dai fratelli Pupi e Antonio Avati con Italo Cucci e Michele Plastino, giornalisti sportivi. Nastro d’argento e David di Donatello alle musiche di Riz Ortolani. David anche al suono di Raffaele De Luca.
film di Ken Annakin. Con John Mills, Dorothy McGuire, James MacArthur Titolo originale Swiss Family Robinson. Avventura, durata 128′ min. – USA 1960. MYMONETRO Robinson nell’isola dei corsari valutazione media: 2,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Antesignana dei verdi ecologisti, una famiglia svizzera naufraga sulla rotta per la Nuova Guinea, approda in un’isola e la trasforma in un delizioso e un po’ noioso paradiso elvetico. Dal romanzo The Swiss Family Robinson di J.D. Wyss, filmato nel 1940 e poi per la TV nel 1975. Piacevole, didattico, per ragazzi.
New York, anni ’40. Briggs è un investigatore in costante rotta di collisione con Betty Ann Fitzgerald, amante del capo e assunta al fine di rendere razionale ed efficiente l’attività della compagnia. Entrambi vengono ipnotizzati nel corso di uno spettacolo. Briggs verrà così costretto dall’ipnotista a compiere per suo conto e senza conservarne memoria furti considerevoli nelle abitazioni di clienti della sua compagnia. Ben presto i sospetti convergono su di lui mentre sta a sua volta indagando su Betty Ann. L’intrigo non va rivelato oltre mentre va detto che, dopo quel film risolto solo a metà che è stato Criminali da strapazzo,qui Allen torna alla grande mescolando ammiccamenti al cinema dell’epoca a battute ad alto tasso di comicità intelligente. Woody torna sui temi che gli sono più cari e ci ricorda che sempre, ma forse oggi più che mai, tra uomini e donne il gioco della complessità dei sentimenti passa attraverso la dissimulazione. Che abbiamo bisogno di non essere noi stessi per esserlo autenticamente. Perché accettare la realtà di ciò che proviamo può essere molto più complesso che celarla. L’investigazione più difficile da realizzare è quella su noi stessi.
New York, anni Trenta. Bobby Dorfman lascia la bottega del padre e la East Coast per la California, dove lo zio gestisce un’agenzia artistica e i capricci dei divi hollywoodiani. Seccato dall’irruzione del nipote e convinto della sua inettitudine, dopo averlo a lungo rinviato, lo riceve e lo assume come fattorino. Bobby, perduto a Beverly Hills e con la testa a New York, la ritrova davanti al sorriso di Vonnie, segretaria (e amante) dello zio. Per lui è subito amore, per lei no ma il tempo e il destino danno ragione al sentimento di Bobby che le propone di sposarlo e di traslocare con lui a New York. Ma il vento fa (di nuovo) il suo giro e Vonnie decide altrimenti. Rientrato nella sola città in cui riesce a pensarsi, Bobby dirige con charme il “Café Society”, night club sofisticato che diventa il punto di incontro del mondo che conta. Sposato, padre e uomo di successo, anni dopo riceve a sorpresa la visita di Vonnie. Con lo champagne, Bobby (ri)apre il cuore e si (ri)apre al dolce delirio dell’amore.
Woody e Mia sono marito e moglie apparentemente senza problemi sentimentali. Una sera ricevono i loro due migliori amici Jack e Sally, coppia a prova di bomba. I due, sorridendo, annunciano che stanno per separarsi, ma va tutto bene, lo hanno deciso insieme, non ci saranno drammi, è la scelta migliore per tutti. Ma gli “Allen” precipitano nello sconforto. In realtà la separazione è dolorosissima. Lei, Sally, litiga continuamente con l’ex marito, lo controlla e non riesce a frequentare nessuno decentemente. Lui, Jack, fa quello che fanno tutti i separati di mezza età, si trova una ragazzina. Woody dal canto suo viene coinvolto da una sua allieva diciottenne, un vero demonietto di intelligenza e squisita perversione. “Mia” a sua volta finge di ignorare un intellettuale inglese ma, da brava gattina morta e finta acqua cheta, medita il tradimento.
Presentato alla Mostra di Venezia. David Shayne, un giovane drammaturgo, vuole sfondare a Broadway. Per avere i soldi necessari per la sua commedia deve sottostare a un gangster, che impone l’attrice. Si tratta di una vera incapace e quando Helen Sinclair, star del teatro un po’ appassita, le viene affiancata, si sente profondamente offesa. Un po’ in tono minore, ma è sempre un “Allen”.
In un piccolo appartamento di Chinatown (New York), occupato da un enorme computer, Max Cohen si dedica alla matematica, convinto che sia un linguaggio della natura e che tutto può essere capito attraverso i numeri, dall’andamento della Borsa, al vero nome di Dio, nascosto tra le lettere/numeri dei primi libri della Bibbia (Torah). Agenti di Borsa, rabbini, vecchi matematici si interessano alla sua scoperta. Esordiente nella regia (che gli è valsa un premio al Sundance 1998) come lo è il protagonista S. Gullette con cui ha scritto la sceneggiatura, D. Aronofsky ha fatto un film di fantascienza che tende all’infinito e al trascendente come il simbolo/numero –0 (pi greco = 3,1415926536…) che gli dà il titolo. Esige spettatori non pigri, meglio se conoscono i frattali, e lo (ri)vedono in DVD: “Si avvicina molto, come complesso di elementi visivi, tematici e musicali, a quei sistemi complessi che vengono descritti durante il film. Tutto è connesso, collegato come in un enorme sistema nervoso” (F. Pirovano).
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.