Il diciassettenne Euronymous è determinato a sfuggire all’educazione tradizionale nella Oslo degli anni ottanta. Ossessionato dal voler creare la vera musica norvegese black metal, con la sua band Mayhem, crea un fenomeno utilizzando acrobazie scioccanti che attirano l’attenzione sulla band.
Rocky Balboa (Stallone) vivacchia a Filadelfia, riscuotendo i crediti di un usuraio italoamericano e vincendo qualche piccolo incontro come pugile dilettante. Con l’aiuto di un saggio allenatore (Meredith) accetta – per amore di Adriana (Shire) e per una borsa di 150 000 dollari – la sfida del nero Apollo Creed (Weathers), campione dei pesi massimi. Film a basso costo, fu premiato con 3 Oscar (regia, miglior film e montaggio), 6 altre nomination e un vasto successo internazionale. Segna, sulla scia lontana dell’ottimismo di Frank Capra, il ritorno ai grandi miti istituzionali: chiunque in America abbia abbastanza cuore e buone ragioni, può fare l’impossibile. Conta per alcune sequenze notevoli tra cui quella dell’allenamento in esterni che valse la statuetta ai due montatori. Il quasi esordiente S. Stallone (1946), anche autore della sceneggiatura, divenne una superstar. E il musicista Bill Conti fece miliardi. Ha avuto 5 seguiti.
1967, uno studente di Pechino, Chen Zhen, viene inviato per 2 anni presso una tribù nomade nella parte più interna della Mongolia, per insegnare ai bambini a leggere e scrivere. Quando arriva l’ordine delle autorità di eliminare i lupi della zona, Chen salva un cucciolo e decide di addomesticarlo. Sarà lui, attraverso l’intenso rapporto che si crea con l’animale, e la vita in una realtà tanto diversa dalla sua, a insegnargli a vivere. Il francese Annaud porta sullo schermo con 40 milioni di dollari un romanzo molto popolare in Cina ( Il totem del lupo , 2004, fenomeno letterario n. 1 dopo il Libretto rosso di Mao, firmato con uno pseudonimo da autore sconosciuto), con semplicità narrativa, spettacolarità di paesaggi di commovente bellezza e anche alcuni momenti crudeli. Adatto alle famiglie. E ha il merito “non trascurabile, di dimostrare che l’epica non è una faccenda riservata alle saghe hollywoodiane a puntate dirette da registi tutti uguali tra loro” (R. Nepoti).
Dal romanzo di Oliver Curwood. Una storia di caccia all’orso vista dalla parte degli orsi (un cucciolo e un enorme grizzly). Il grizzly risparmia il cacciatore quando potrebbe finirlo con due zampate. Il cacciatore diviene un “verde”. Una storia alla Walt Disney raccontata in meravigliosi scenari naturali (le Dolomiti che simulano il Canada) con innegabile bravura, ma senza gli exploit che era lecito attendersi dal regista del Nome della rosa.
Una mano maschile e una femminile s’incontrano per caso, si sfiorano e si stringono rapidamente. E’il prologo di La calda pelle (titolo originale De l’amour), che intreccia le avventure amorose di cinque personaggi per esaminare, seguendo i passi di un celebre saggio di Stendhal, i vari stadi dell’amore e le sue differenti tipologie. S’incrociano così le vicende del timido e impacciato Serge (Philippe Avron), dell’indecisa e affascinante Hélène (Anna Karina), del collezionista di donne Raul (Michel Piccoli) e delle sue numerose fiamme (Joanna Shimkus, Elsa Martinelli). Circondata da un cast di interpreti eccezionali, Anna Karina interpreta il suo ruolo con una straordinaria vitalità e una spontaneità eccezionale, facendo uso del fascino ingenuo e misterioso che l’ha resa una delle icone della Nouvelle Vague francese.
Khaled e Said si conoscono fin da quando erano bambini ed ora lavorano presso un meccanico seppure con qualche problema causato dalle intemperanze di uno dei due. E’ però arrivato per loro un giorno speciale: sono stati scelti perché, dopo un lungo periodo di inattività, si è deciso di tornare a compiere un attentato kamikaze a Tel Aviv. Dovranno farsi esplodere a un quarto d’ora di distanza l’uno dall’altro. Non era per nulla facile né prevedibile che un film fondamentalmente di produzione palestinese potesse affrontare un tema da sempre scottante come quello degli attentati compiuti da uomini pronti a farsi esplodere con l’equilibrio e la lucidità che Hany Abu-Assad mette in questo film vincitore del Golden Globe come miglior film straniero. A fare da fondamentale ago della bilancia è un personaggio non citato nella sinossi. Si tratta di Suha, la giovane donna che apre il film. È cresciuta all’estero e ora torna nella sua terra per vederla disseminata di posti di blocco che non sono solo fisici ma che si sono moltiplicati anche sul piano mentale. È con lei che Said potrebbe veder iniziare una vicenda sentimentale ed è sempre con lei che Khaled si troverà a confrontarsi in modo molto diretto sulla situazione. Chi è martire e chi è carnefice? Gli israeliani o i palestinesi? In lontananza sembrano riecheggiare le riflessioni dell’israeliano Amos Oz raccolte nel libro “Contro il fanatismo” mentre seguiamo il rituale della ‘vestizione’ con l’esplosivo e ciò che accade successivamente. Non manca anche un giudizio, non poi così tra le righe, su chi invia gli altri a conquistarsi il Paradiso: sia il braccio armato che quello reclutante e colto non sono altrettanto disponibili ad offrire le proprie vite alla causa. Rimane poi impressa nella memoria (oltre a tutta la parte finale) la sequenza in cui si videoregistra il testamento dei due ‘martiri’: è una lezione di cinema. Di quel cinema che non vuole imporre un pensiero ma piuttosto suscitarlo.
Omar è un giovane fornaio palestinese abituato a scavalcare il muro della separazione, schivando proiettili e sorveglianti, per far visita alla ragazza di cui è innamorato, la liceale Nadia. Con il fratello di Nadia, Tarek, e un terzo compagno, Amjad, Omar condivide un’amicizia decennale e un’attività clandestina di addestramento per la causa della liberazione della Palestina. Caduto prigioniero, dopo aver partecipato all’uccisione di un soldato, Omar resiste alla tortura e viene invitato a scegliere tra il carcere a vita o la collaborazione con la polizia israeliana. Il regista di Paradise Now torna in Palestina e gira tra Nablus, Nazareth e Bisan con una troupe esclusivamente di locali, molti dei quali alla prima esperienza. Eppure il risultato è solido, il ritmo incalzante, le performances dei quattro protagonisti (tutti esordienti) non meno che sorprendenti. Il risultato più alto, in tutti i casi, è la mescolanza riuscita di veridicità delle immagini e delle storie raccontate con lo spettacolo del ritmo e della tensione che la regia sa assicurare. Hany Abu-Assad non giudica, non esalta né demonizza: nel racconto di un amore confidente e tragico trova tutti gli ingredienti che gli bastano per assicurarsi un fondo sicuro ed emotivo sul quale innestare elementi di genere (spie, tradimenti, doppiogiochismo), sempre e comunque aderenti al contesto e umanamente credibili. La sensazione di trappola autodistruttiva in cui si ritrova in breve il protagonista è chiaramente una metafora della situazione palestinese sotto l’occupazione, ma l’intelligenza del regista sta nel non presentarla come una premessa, bensì di seguire passo passo l’avvilupparsi su se stesso del destino di Omar e della sua Giulietta, fino alla scena emblematica in cui scalare il muro non è più un gioco da “ragazzi”, perché certe energie sono state spente per sempre. Forse Omar non possiede il miglior finale possibile, ma è nell’immagine iniziale della barriera divisoria che sta il senso di quel che racconta per tutti i minuti a venire: i palestinesi sono separati tra loro (amici, amanti, famigliari) da un atto di forza a cui non hanno i mezzi per opporsi. Per questo, pur mantenendo la sospensione del giudizio e mostrando luci e ombre della gioventù che ritrae, la posizione di Abu-Assad è meno imperscrutabile rispetto a quanto accadeva in Paradise Now e il film ne guadagna, apparendo meno mirato a dividere e più interessato a raccontare.
Un film di Hal Ashby. Con Jack Nicholson, Randy Quaid, Otis Young Titolo originale The Last Detail. Drammatico, durata 105 min. – USA 1973. MYMONETRO L’ultima corvée valutazione media: 3,39 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Due marinai ricevono l’incarico di accompagnare un ragazzo, colpevole di furto, al carcere militare. Durante il viaggio, i due uomini si rendono conto che il ragazzo è un disadattato più che un delinquente e, a modo loro, lo aiutano facendogli trascorrere piacevolmente le ultime giornate di libertà.
Film unico nel suo genere. L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta. Vi regna la libertà religiosa, ma in privato. È negata la cittadinanza agli immigrati, o profughi, se non musulmani. È un Paese islamico ricco (di petrolio). Uscita da una famiglia della borghesia agiata, dopo aver fatto 3 corti e il documentario Women Whitout Shadows (2005), H. Al-Mansour ha coprodotto, scritto e diretto Wadjda , nome di una ragazzina indipendente e critica che ascolta musica proibita, amica (ancor più proibita) di un coetaneo. Per comprarsi una bicicletta si iscrive a una gara di interpretazione dei versetti del Corano e la vince. La Al-Mansour è la prima donna saudita a dirigere un film a soggetto, sia pure con capitali tedeschi e col sostegno del Sundance Institute. È un film semplice di struttura elementare, tipico di un Paese con una cinematografia appena nata che ha come modello quella dell’Iran: evidenti le affinità con Il palloncino bianco (1995), esordio di Jafar Panahi. La 12enne Waad Mohammed ne è la protagonista giusta con la sua impetuosa vitalità infantile. Distribuisce Academy Two.
Luciano Serra è un padre di famiglia che per amore del volo rischia di alienarsi l’affetto dei suoi cari. La moglie infatti l’abbandona. Serra viene dato per morto in un incidente aereo. Invece è vivo e, dopo quasi vent’anni, si arruola volontario per la guerra d’Africa. Lì ritrova suo figlio e gli salva la vita a prezzo della propria.
Carlo, un ufficiale, si innamora di Yvonne, divetta del café-chantant. Ma il padre di lui si oppone al matrimonio. Scoppia la prima guerra mondiale e Carlo muore in battaglia. Yvonne dà alla luce un bambino che il perfido padre di Carlo le sottrae, fecendole credere che è morto. La povera donna, distrutta dal dolore, decade fisicamente e spiritualmente. Solo allo scoppio della seconda guerra mondiale, morto il padre di Carlo, Yvonne viene a sapere che suo figlio è vivo. Ma per non fargli vedere come sua madre è ormai ridotta, preferisce non fargli sapere nulla.
Un bambino di otto anni, tiranneggiato dai genitori e innamorato della maestra, sogna di diventare grande e ci riesce. Assume l’aspetto fisico di un quarantenne, ma resta infantile negli atteggiamenti(forse è per questo che la bella insegnante comincia a ricambiarlo)
Con l’8ª fiction per il cinema, la 2ª di origine letteraria (da un romanzo di Umberto Contarello del 2005), la Archibugi fa uno dei suoi film più felici, una commedia drammatica al maschile che fa ridere. Lo schema narrativo della strana coppia è antico, ma qui è messo insieme in modo insolito: un posto di pronto soccorso a Roma dove nella stessa notte arrivano due uomini in crisi cardiaca. Alberto è uno sceneggiatore di successo, sperperatore, scapolo, intelligente, nevrotico, un borghese colto del Nord. Angelo è ricco e bello, restauratore d’auto d’epoca, ex proletario, modesto evasore fiscale, incolto, padre di due figlie con bella moglie incinta. Hanno poco in comune, ma diventano amici a prima vista. In rotta con l’amante, giovane attrice da lui maltrattata, Alberto si rifugia in casa di Angelo che – come può esserlo solo un consapevole malato terminale – cerca di lasciargli in eredità, come responsabilità morale, moglie e figli. Pur non mancando di approssimazioni corrive, il film si affida al duetto amicale Albanese/Rossi Stuart che gli danno l’acqua della vita nel nascondere – con profonda tenerezza nel loro gioco quasi infantile – emozioni, sentimenti, paure, dolore, disperazione. Fotografia: F. Zamarion. Prodotto da Cattleya-Rai Cinema-Cimenello.
Sceneggiato dalla regista con Francesco Piccolo, è il remake del riuscito, esilarante, imperdibile film di Delaporte e La Patellière Cena tra amici (2012) tratto dalla pièce Le prénom di B. Murat, con qualche inevitabile mutamento/adattamento in funzione italiana (uno per tutti: là il nome del nascituro era Adolf, qui è Benito). Invitato a cena dalla frustrata sorella Betta, sposata con il suo migliore amico Sandro, insieme all’amico di tutti Claudio, e aspettando l’arrivo di Simona, sua moglie incinta, Paolo comunica che chiameranno il nascituro Benito. Si scatena il finimondo ed emergono rancori, cose non dette, invidie e gelosie e una notizia bomba. Dopo un irritante inizio con voce off romana dove le s sono rigorosamente pronunciate come delle z, il film decolla e si allontana dal suo genitore francese e migliora progressivamente, diventando anche un altro film, arricchito e appesantito dai flashback, ma a modo suo divertente e più politicamente (s)corretto. Un terzetto di attori al meglio di sé (specie Papaleo), con un delizioso coro-balletto sulla canzone di Dalla “Telefonami tra vent’anni”. La Ramazzotti è non solo bella ma anche brava e credibile, la Golino rende bene il suo personaggio di frustrata in ombra e si prende il suo momento di sfogo sgomitando.
Ispirato all’esperienza di Marco Lombardo Radice, neuropsichiatra innovativo, il terzo film della giovane regista ha avuto un grande successo di pubblico e molta attenzione da parte della critica. Le strutture ospedaliere inadeguate, nel campo della malattia mentale, sono all’ordine del giorno in Italia. Sebbene il quadro negativo del film non rappresenti che un decimo del problema reale, l’operazione si può dire riuscita, se non altro per una sensibilizzazione verso il problema. Le ingenuità della sceneggiatura sono compensate da un’ottima interpretazione di Castellitto e dall’agile regia della Archibugi. Arturo è un medico di neuropsichiatria infantile sempre sottoposto a uno stress sul lavoro e con una sua crisi esistenziale. Conosce Pippi, una giovane epilettica, che ha bisogno d’aiuto. La madre, abituata alle cure convenzionali, fatica a capire il metodo di Arturo. Ma è quest’ultimo ad avere ragione: Pippi è ammalata per problemi psicologici. E la sua famiglia non ne è estranea.
Un ragazzo spagnolo di dodici anni, che vive in un’atmosfera magica, fra sogni e ricordi di esperienze reali, scopre che il padre, scomparso dopo la vittoria delle falangi franchiste, era stato in realtà denunciato dalla moglie, finendo in prigione dove aveva tentato il suicidio. Il ragazzino, seguendo le orme del padre, raggiungerà i partigiani sui monti.
Un giovane epilettico che ha ucciso la madre, imputando ad essa il suo male, scappa nel deserto dove stringe amicizia con un eremita. Insieme tornano a Parigi dove il giovane omicida è riconosciuto e ucciso dalla polizia. L’eremita riporta il suo corpo nel deserto e se lo mangia. Metafora barocca, pletorica, spesso volutamente fastidiosa di Arrabal.
Germania. La vita di Katja cambia improvvisamente quando il marito Nuri e il figlio Rocco muoiono a causa di un attentato. La donna cerca di reagire all’evento e trova in Danilo Fava, avvocato amico del marito, il professionista che la sostiene nel corso del processo che vede imputati due giovani coniugi facenti parte di un movimento neonazista. I tempi legali non coincidono però con l’urgenza di fare giustizia che ormai domina Katja. Tra il 2000 e il 2007 in Germania sono stati commessi numerosi assassinii di persone di nazionalità non germanica da parte dell’NSU (Nationalsozialisticher Untergrund) una formazione neonazista che nel 2011 è stata finalmente incriminata con prove. Fino ad allora la tendenza era stata quella di attribuire le uccisioni a problematiche interne alle comunità etniche o alla delinquenza comune.
Manuel, al compimento dei diciotto anni esce dall’istituto per minori privi di un sostegno familiare e deve reinserirsi in un mondo da cui è stato a lungo lontano. Sua madre, che è in carcere, può sperare di ottenere gli arresti domiciliari solo se lui accetta di prenderla in carico. Si tratta di una responsabilità non di poco conto. Ci sono film che ‘raccontano’ una storia. Ce ne sono altri che ‘vivono’ la vicenda che si sta sviluppando sullo schermo. È il caso di Manuel in cui Dario Albertini trasforma l’anno e mezzo di riprese in un processo esperienziale in cui la partecipazione dell’autore si è trasferita al giovane Andrea Lattanzi il quale appunto ‘vive’, non ‘interpreta’ il ruolo di Manuel.
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