Allontanato dal nucleo famigliare in seguito ad episodi di violenza e stalking, Lucio Melillo, di professione guardia giurata, non riesce a sopportare la mancanza della figlia Adele e della moglie Nadia, che nel frattempo ha stretto un legame sentimentale con il proprio analista. I turni di lavoro, l’amicizia con il collega Vincenzo e la frequentazione di una giovane prostituta non lo aiuteranno certo a mettere ordine in un’esistenza che subirà l’ennesimo colpo durante l’udienza per l’affidamento della bambina: privato di qualsiasi diritto di padre, l’uomo sceglierà una drastica via d’uscita. Quasi venti minuti senza dialogo aprono l’opera seconda di Giorgio Amato, un lungo ed spiazzante brano necessario ad inquadrare il protagonista di una storia che si muove tra racconto di una patologia e dramma esistenziale, accenti thriller e una deriva da “film di rapina” dal tocco un po’ americano. Come per il precedente lavoro, Circuito chiuso, la produzione resta indipendente, ma lo sguardo dimostra di aver fatto un grande passo in avanti, di essersi affilato, guadagnando non poco in perspicacia descrittiva. Meglio che sulla progressione narrativa, peraltro vispa e senza punti di stanca, il regista concentra, infatti, la propria attenzione sull’ambivalenza del suo personaggio: si pensi a quelle esplosioni di violenza che si dissolvono nei momenti in cui compare il personaggio della figlia Adele, quasi fosse un catalizzatore di buone vibrazioni per chi è sempre sul punto di esplodere. Perché ogni cosa qui, dalla precisa recitazione di Victor Altieri ai più minuti particolari scenografici (i manifesti di Mussolini o della bandiera italiana con il fascio), tende invero a restituire, in tutta la loro complessità, le contraddizioni di un uomo oltremodo vivo, vero e perso nella sua stessa ossessione. Ritratto di una mania di possesso che crea disagio, distanzia e, insieme, commuove, questo film ben fatto si sviluppa, in essenza, per ripetizioni dei medesimi quadri e situazioni (l’appartamento, la scuola, il caveau, il bar), come se volesse suggerire l’ordinarietà della patologia di Lucio e del dramma vissuto da una famiglia come molte altre. Sottilmente quando non apertamente spaventoso, le visite notturne in casa della moglie, The Stalker raggiunge un suo rigore stilistico, una precisione di descrizione che neanche l’eccessivo e fastidioso uso della macchina a mano riesce a smorzare. Nel ruolo dell’analista recita lo stesso Giorgio Amato.
Un bambino di otto anni, tiranneggiato dai genitori e innamorato della maestra, sogna di diventare grande e ci riesce. Assume l’aspetto fisico di un quarantenne, ma resta infantile negli atteggiamenti(forse è per questo che la bella insegnante comincia a ricambiarlo)
Con l’8ª fiction per il cinema, la 2ª di origine letteraria (da un romanzo di Umberto Contarello del 2005), la Archibugi fa uno dei suoi film più felici, una commedia drammatica al maschile che fa ridere. Lo schema narrativo della strana coppia è antico, ma qui è messo insieme in modo insolito: un posto di pronto soccorso a Roma dove nella stessa notte arrivano due uomini in crisi cardiaca. Alberto è uno sceneggiatore di successo, sperperatore, scapolo, intelligente, nevrotico, un borghese colto del Nord. Angelo è ricco e bello, restauratore d’auto d’epoca, ex proletario, modesto evasore fiscale, incolto, padre di due figlie con bella moglie incinta. Hanno poco in comune, ma diventano amici a prima vista. In rotta con l’amante, giovane attrice da lui maltrattata, Alberto si rifugia in casa di Angelo che – come può esserlo solo un consapevole malato terminale – cerca di lasciargli in eredità, come responsabilità morale, moglie e figli. Pur non mancando di approssimazioni corrive, il film si affida al duetto amicale Albanese/Rossi Stuart che gli danno l’acqua della vita nel nascondere – con profonda tenerezza nel loro gioco quasi infantile – emozioni, sentimenti, paure, dolore, disperazione. Fotografia: F. Zamarion. Prodotto da Cattleya-Rai Cinema-Cimenello.
Sceneggiato dalla regista con Francesco Piccolo, è il remake del riuscito, esilarante, imperdibile film di Delaporte e La Patellière Cena tra amici (2012) tratto dalla pièce Le prénom di B. Murat, con qualche inevitabile mutamento/adattamento in funzione italiana (uno per tutti: là il nome del nascituro era Adolf, qui è Benito). Invitato a cena dalla frustrata sorella Betta, sposata con il suo migliore amico Sandro, insieme all’amico di tutti Claudio, e aspettando l’arrivo di Simona, sua moglie incinta, Paolo comunica che chiameranno il nascituro Benito. Si scatena il finimondo ed emergono rancori, cose non dette, invidie e gelosie e una notizia bomba. Dopo un irritante inizio con voce off romana dove le s sono rigorosamente pronunciate come delle z, il film decolla e si allontana dal suo genitore francese e migliora progressivamente, diventando anche un altro film, arricchito e appesantito dai flashback, ma a modo suo divertente e più politicamente (s)corretto. Un terzetto di attori al meglio di sé (specie Papaleo), con un delizioso coro-balletto sulla canzone di Dalla “Telefonami tra vent’anni”. La Ramazzotti è non solo bella ma anche brava e credibile, la Golino rende bene il suo personaggio di frustrata in ombra e si prende il suo momento di sfogo sgomitando.
Ispirato all’esperienza di Marco Lombardo Radice, neuropsichiatra innovativo, il terzo film della giovane regista ha avuto un grande successo di pubblico e molta attenzione da parte della critica. Le strutture ospedaliere inadeguate, nel campo della malattia mentale, sono all’ordine del giorno in Italia. Sebbene il quadro negativo del film non rappresenti che un decimo del problema reale, l’operazione si può dire riuscita, se non altro per una sensibilizzazione verso il problema. Le ingenuità della sceneggiatura sono compensate da un’ottima interpretazione di Castellitto e dall’agile regia della Archibugi. Arturo è un medico di neuropsichiatria infantile sempre sottoposto a uno stress sul lavoro e con una sua crisi esistenziale. Conosce Pippi, una giovane epilettica, che ha bisogno d’aiuto. La madre, abituata alle cure convenzionali, fatica a capire il metodo di Arturo. Ma è quest’ultimo ad avere ragione: Pippi è ammalata per problemi psicologici. E la sua famiglia non ne è estranea.
Un ragazzo spagnolo di dodici anni, che vive in un’atmosfera magica, fra sogni e ricordi di esperienze reali, scopre che il padre, scomparso dopo la vittoria delle falangi franchiste, era stato in realtà denunciato dalla moglie, finendo in prigione dove aveva tentato il suicidio. Il ragazzino, seguendo le orme del padre, raggiungerà i partigiani sui monti.
Un giovane epilettico che ha ucciso la madre, imputando ad essa il suo male, scappa nel deserto dove stringe amicizia con un eremita. Insieme tornano a Parigi dove il giovane omicida è riconosciuto e ucciso dalla polizia. L’eremita riporta il suo corpo nel deserto e se lo mangia. Metafora barocca, pletorica, spesso volutamente fastidiosa di Arrabal.
Germania. La vita di Katja cambia improvvisamente quando il marito Nuri e il figlio Rocco muoiono a causa di un attentato. La donna cerca di reagire all’evento e trova in Danilo Fava, avvocato amico del marito, il professionista che la sostiene nel corso del processo che vede imputati due giovani coniugi facenti parte di un movimento neonazista. I tempi legali non coincidono però con l’urgenza di fare giustizia che ormai domina Katja. Tra il 2000 e il 2007 in Germania sono stati commessi numerosi assassinii di persone di nazionalità non germanica da parte dell’NSU (Nationalsozialisticher Untergrund) una formazione neonazista che nel 2011 è stata finalmente incriminata con prove. Fino ad allora la tendenza era stata quella di attribuire le uccisioni a problematiche interne alle comunità etniche o alla delinquenza comune.
4° lungometraggio di finzione di Akin, regista turco cresciuto in Germania ( La sposa turca ). In una vicenda ricca di rime e dominata dalla fatalità (2 omicidi colposi), che si sposta da Brema e Amburgo a Istanbul e ritorno, si muovono 6 personaggi (4 turchi e 2 tedeschi: 2 figlie, 2 madri, un padre e un figlio) in cerca di perdono e redenzione, giustizia e riconciliazione. La descrizione dei 2 mondi è critica con cautela, preoccupata dalla par condicio , come quella dei personaggi, che rifiuta il manicheismo. La simpatia dell’autore va, comunque, alle donne, specialmente alle 2 giovani, che si legano in un rapporto lesbico messo in immagini con tenerezza carica di erotismo. Stilisticamente tradizionale e qua e là convenzionale. In concorso a Cannes 2007, scritto e diretto da Akin, ebbe il premio per la migliore sceneggiatura e quello della giuria ecumenica. Il paradiso sarebbe l’occidente europeo.
Manuel, al compimento dei diciotto anni esce dall’istituto per minori privi di un sostegno familiare e deve reinserirsi in un mondo da cui è stato a lungo lontano. Sua madre, che è in carcere, può sperare di ottenere gli arresti domiciliari solo se lui accetta di prenderla in carico. Si tratta di una responsabilità non di poco conto. Ci sono film che ‘raccontano’ una storia. Ce ne sono altri che ‘vivono’ la vicenda che si sta sviluppando sullo schermo. È il caso di Manuel in cui Dario Albertini trasforma l’anno e mezzo di riprese in un processo esperienziale in cui la partecipazione dell’autore si è trasferita al giovane Andrea Lattanzi il quale appunto ‘vive’, non ‘interpreta’ il ruolo di Manuel.
Libera interpretazione del romanzo-fenomeno di Umberto Eco, venduto in milioni di copie in tutto il mondo. Nel XIV secolo una coppia di francescani (Connery e Slater) risolve l’intricata matassa di una serie di misteriosi delitti avvenuti in una maestosa e solitaria abbazia. Il respiro filosofico e la miriade di citazioni che caratterizzavano il romanzo si smarriscono nella sua trasposizione cinematografica, che peraltro ne conserva l’atmosfera cupa e rarefatta. Film calligrafico e dalla splendida fotografia, eccellente nella caratterizzazione di personaggi e luoghi.
Il film ripete la nota leggenda del dottor Faust che vende l’anima al diavolo per ritornare giovane e aver l’amore della bella Margherita. Quando lo saprà Margherita vorrà sacrificarsi al posto dell’amante, e riuscirà a commuovere Satana, che straccerà il contratto.
Un celebre avvocato parigino di mezza età viene interpellato da una ragazza che gli si offre in cambio della sua difesa in un processo per rapina. L’uomo s’innamora perdutamente e vorrebbe addirittura abbandonare la moglie, una donna intelligente e comprensiva, per andare a vivere con la giovane che, oltre tutto, è rimasta incinta di lui. La ragazza però viene uccisa da un ex amante e l’avvocato rientra nei ranghi.
Marthe Grangier è infermiera in un ospedale militare nei dintorni di Parigi dove fa la conoscenza di un liceale diciassettenne, del quale diviene l’amante. Nonostante l’opposizione della madre, la storia d’amore tra i due si trasforma in un rapporto totalmente coinvolgente. Finché una serie di tragici eventi non minerà pericolosamente il loro rapporto.
Sicilia, 1905. Federico studia contro voglia medicina e sogna con tutto il cuore di scrivere storie d’amore per il cinematografo, meraviglia di luce che riflette la vita su un lenzuolo. Commosso come i suoi paesani dalla magia del cinema, Federico abbandona gli studi e si improvvisa direttore di scena per Don Gennarino Pecoraro, vizioso produttore napoletano deciso a produrre un film tutto suo. Stufo di treni che arrivano alla stazione e di operai all’uscita dalle fabbriche, Don Gennarino commissiona al ragazzo una storia pruriginosa che ‘scopra’ aspiranti attrici e ne mostri generosamente le grazie. Ispirato dal bagno biblico della “Casta Susanna”, Federico sceglie di immortalare le carni della bella Marianna, fattucchiera imbrogliona e lavandaia analfabeta di una scrittrice torinese. Il successo del film creerà non pochi problemi alla protagonista inconsapevole, additata e disonorata dal paese almeno fino a quando “u’mbrogghiu nt’o linzolu” non verrà rivelato.
In un piccolo e sperduto villaggio del Sudest asiatico, lungo le rive di un ampio fiume turbolento, un uomo di origine europea vive ancorato ai suoi sogni per amore della figlia. Una storia di passione e follia, alla ricerca dell’assoluto. La regista commenta così la nascita dell’idea del film: “leggendo il romanzo di Conrad fui colpita dalla sua modernità e universalità. Ci sono un padre, una madre, una figlia e un ragazzo. Mi piacerebbe riuscire a trattare la loro storia con semplicità e sensualità, grazie all’ambientazione particolare e ai corpi dei giovani amanti nella loro infinita grazia adolescenziale. Gli eventi si svolgono in un luogo in cui la serena convivenza tra persone diverse si basa esclusivamente sugli affari in comune. Malesi, indiani, cinesi… Nei luoghi delle riprese, tra la vegetazione rigogliosa e il caldo e l’umidità opprimenti, la terra e il cielo sono carichi di colore. La pioggia laggiù è di breve durata, ma torrenziale. L’umidità pervade ogni cosa, corrodendo il legno delle case e i sentieri. Poi c’è il fiume, ampio e mutevole, a volte calmo altre violento. E quella nebbiolina che lo avvolge, facendo apparire le piroghe come magicamente sospese sopra le sue acque. Qualcosa in questa storia vi farà pensare a Tabù di Murnau, e l’incipit sicuramente La morte corre sul fiume. Mi piace fantasticare su come Murnau avrebbe concepito questo film se fosse nato negli anni ’50 come me. Qualunque padre nutre dei sogni per i propri figli e spesso soffre quando questi se ne vanno di casa. Qui si va ben oltre. È come se l’amore di Almayer – in quel paese e in quel contesto – lo denudasse completamente, lasciando esposta la carne viva. La ferita è così profonda da fargli perdere la ragione. Ma, soprattutto, quella ferita distrugge il suo sogno, il sogno della bella vita occidentale. Un sogno accarezzato lungo le sponde del fiume, lontano da tutto. È una storia tragica, come le antiche tragedie che non invecchiano mai. Vecchissima, e allo stesso tempo attuale. È una storia d’amore e follia. Una storia di sogni impossibili”.
Argentina, 1979. Il 12enne Juan e la sua famiglia tornano a Buenos Aires sotto falsa identità dopo alcuni anni di esilio. I genitori di Juan e lo zio Beto sono Montoneros, organizzazione clandestina in lotta contro la giunta militare al potere. Juan-Ernesto ha una storia d’amore ricambiata con la coetanea Maria. Parzialmente autobiografico, è stato scritto dal regista Ávila con Marcelo Müller dal 2002 al 2007. Luis Puenzo, produttore principale, diresse La storia ufficiale (1985), la più nota e premiata opera su quel tragico periodo. Il film ha una particolarità: comprende due scene violente in animazione, in una delle quali si vede la testa di Juan che esplode: è un efficace e anomalo modo di fondere passato, presente, emozioni. Da vedere per l’abile costruzione narrativa, la molteplicità dei toni, la direzione degli attori, la delicatezza della storia d’amore, l’atmosfera della clandestinità, i temi della maturazione e del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Distribuito da Good Films.
Westworld – Dove tutto è concesso (Westworld) è una serie televisivastatunitense ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy per la HBO, basata sul film Il mondo dei robot (Westworld, 1973) diretto da Michael Crichton. Nolan ha diretto l’episodio pilota e figura come produttore esecutivo insieme a Joy, J.J. Abrams e Bryan Burk.
Westworld è un parco a tema western interamente popolato da androidi sintetici in cui i visitatori possono immergersi completamente nell’esperienza e fare qualsiasi cosa essi vogliano, senza preoccuparsi delle conseguenze morali o etiche su persone o cose. Il team di sviluppo degli androidi cerca continuamente di migliorarli e di renderli sempre più realistici; a tal fine il dottor Robert Ford, direttore creativo del parco, aggiorna gli androidi con delle “rimenbranze” affinché essi abbiano un comportamento più umano. View full article »
Si sveglia una mattina con un orecchio che gli fischia. E sul frigo c’è un biglietto della sua compagna che gli scrive che è morto Luigi e che ci saranno i funerali nel pomeriggio. Ma chi è Luigi? Passa l’intera giornata a cercare di risolvere il suo problema uditivo e capire se conosceva Luigi. Piccolo film metropolitano – in un bel bianco e nero – con un protagonista ben diretto dal bravo (e ambizioso) Aronadio che ha saputo anche creare un folto gruppetto di personaggi di contorno ben caratterizzati e mai macchiette ridicole. Qualche forzatura qua e là e una semplificazione etica (troppo esplicitata nel monologo finale) annacquano un po’ la parte nonsense che è la migliore.
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