È la biografia di Loretta Lynn che, negli anni ’60 e ’70, fu la first lady della musica country succedendo a Patsy Cline. Fama e ricchezza non le impedirono di mettere al mondo una mezza dozzina di figli con lo stesso uomo. Il film ha tutte le carte in regola per piacere al pubblico americano come una torta di mele. Oscar alla Spacek.
Un vedovo medita di risposarsi, ma la figliola adolescente, legata al padre da morboso affetto, non può soffrire la futura matrigna e medita d’inguaiarla. Venuta a conoscenza di un’oscura vicenda saffica nel passato della donna, la stuzzica riuscendo a farla fotografare in pose compromettenti. La donna, sconvolta, fugge e muore.
A New York, una sera, un gruppo di amici organizza una festa d’addio a sorpresa. Tutto sembra tranquillo, finché un boato fa tremare le pareti della casa: non è un terremoto, né un attentato, è un enorme mostro biancastro, che si vede molto poco, un Godzilla con enormi fauci avvolto nella nebbia che distrugge tutto. È un disaster movie – girato fin dall’inizio con una camera a mano così ipercinetica (su, giù, salta, sussulta, si gira, si mette di traverso) che in meno di dieci minuti provoca nausea se non peggio – che potrebbe essere un buon pilota di una serie TV. È invece un film – per fortuna abbastanza breve – pieno di colpi di scena, con una messa in scena asciutta e volti poco conosciuti e anonimi, che fu preceduto da una campagna mediatica (architettata da J.J. Abrams) basata sul mistero e sulla paura post-11-settembre: il primo weekend ha fatto faville al botteghino, ma poi tutto si è ridimensionato e il film è tornato nel silenzio, a essere ciò che è: “un catastrofico ripreso al telefonino”.
Ex produttore TV, Joachim è lo scalcagnato manager/padre/padrone di un gruppo di scalcagnate artiste del new burlesque con le quali dall’America viene a fare un tour in Francia, con gran finale prevista a Parigi. Le cose vanno storte. Nel descrivere uno squallido mondo fatto di teatri e locali di second’ordine delle sperdute province, hotel semi vuoti, ristoranti a buon mercato, Amalric dirige sé stesso in un personaggio un po’ laido e un po’ folle, e le sue attrici in un gruppo di indimenticabili donne in età avanzata, sfatte nel corpo e nei volti, professioniste convinte di quel che fanno, allegre e sfrontate nello spogliarsi, nell’esibire grasso e cellulite. Il risultato è esuberante e triste, festoso ed enigmatico, un po’ Priscilla e un po’ Irina Palm . Scene e costumi eccessivi, numeri di spogliarello autentici.
Desiderio è un transessuale napoletano che – dopo aver incontrato il bellissimo Andrea che ricambia il suo amore – decide di cambiar vita, smettendo di prostituirsi, ma scopre che l’indeciso giovanotto intende sposarsi con la cameriera Maria. Intanto i suoi amici “trans” aprono sulle falde del Vesuvio Mater natura, centro di agricoltura biologica che è anche un consultorio per maschi in crisi. Presentato alla 20ª Settimana della Critica a Venezia 2005 (3 premi collaterali), prodotto da Umberto Massa per Kubla Khan, è l’esordio del napoletano Andrei, attore e autore teatrale. Ibrido nella sua complessità ipercolorata, mescola influenze popolari e populiste della sceneggiata con rimandi “alti” al neorealismo e al cinema napoletano recente, il melodramma con la commedia e il grottesco, la trasgressività in campo sessuale con le cadenze di un musical. Risulta compatto nella struttura e originale nello stile. È, infine, “un film politico, nel senso più alto possibile” (M. Lombardi). Fotografia: Vladan Radovic. Scritto da Andrei con Silvia Ranfagni.
A Coney Island si intessono le vicende di Sara Goldfarb, teledipendente con l’assillo di partecipare a uno show televisivo, di suo figlio Harry, tossicodipendente con l’aspirazione di avviare una boutique con la sua ragazza, anch’ella tossicodipendente, e del loro comune amico Tyrone. I sogni si trasformeranno in incubi e la dura realtà della droga cancellerà le aspirazioni e le illusioni. Il film, duro e a tratti allucinante, è un viaggio nella disperazione e nello squallore della droga vera e di quella televisiva, entrambe causa di abbruttimento dello spirito e del corpo. Il regista racconta questa drammatica realtà soprattutto con la virulenza espressiva delle immagini, della musica e della fotografia ricercatissima, il tutto amalgamato da un montaggio serrato. Il promettente Darren Aronofsky confeziona un film riuscito solo in parte.
Nel corso degli anni ha ricevuto numerosi riconoscimenti e nomination ai Golden Globe, agli Emmy Awards, agli Screen Actors Guild Award e ai People’s Choice Awards. Nel 2003 l’American Film Institute ha inserito Alias nella top 10 delle migliori serie televisive dell’anno[1], e in seguito diverse testate l’hanno proclamata uno dei miglior show televisivi di tutti i tempi[2]. Nel 2010 il canale satellitare E! ha classificato Aliasal quarto posto nella top 20 delle migliori serie televisive del ventennio 1990–2010[3].
Doug MacRay è il capo, assai ricercato dalla polizia, di una banda di rapinatori a Boston. Durante una rapina s’innamora di Claire, direttrice di una banca che lo esorta a rientrare nella legalità. Intanto, però, senza saperlo, è sorvegliata dall’FBI che, attraverso lei, conta di arrivare a lui. Scritto con Peter Craig e Sheldon Turner da Affleck, che aveva già diretto nel 1993 I Killed My Lesbian Wife, Hung Her on a Meat Hook and Now I Have a Three-picture Deal at Disney (considerato il titolo più lungo nella storia di Hollywood) e nel 2007 Gone Baby Gone , entrambi senza successo di pubblico né di critica. Anche questo 3° film ha fatto la stessa fine, pur avendo più di un merito nella sua mistura di azione e pathos sentimentale.
Amburgo. Dopo aver tentato il suicidio Cahit incontra Sibel che ha seguito un percorso analogo. Sono entrambi di origine turca ma vivono da molti anni in Germania. Sibel vuole uscire dalla sua famiglia in cui i maschi comandano e propone a Cahit di sposarla. Lei avrà così una copertura per vivere una vita libera anche sul piano sessuale. Ma il ruvido Cahit pian piano se ne innamora al punto di mettere a repentaglio la propria libertà. È un film diviso in capitoli questo di Akin ma a compiere questa scansione non sono dei cartelli o delle dissolvenze in nero. Un’orchestra con una cantante sulle rive del Bosforo separa le parti in cui il film viene suddiviso. Questa immagine, con la relativa colonna sonora, sottolinea il forte richiamo alle origini dei due protagonisti. Come è noto la Germania è la nazione in cui risiede il maggior numero in assoluto di turchi emigrati e il film ci mostra uno spaccato delle loro vite per poi, a vicenda impostata, trasferirsi a Istanbul. A una prima parte amburghese attenta a fondere, con uno stile da videoclip, modernità e radici culturali ed etniche ne succede una più personale e distesa. Al montaggio ritmato seguono ampi piani sequenza che consentono al personaggio di Sibel di palesarsi nella sua irrequieta ricerca di un equilibrio sempre difficile da raggiungere. Sta in questo l’originalità di Akin, nel saper offrire alla storia dei ritmi differenti facendoci ‘sentire’ come il prima e il dopo dell’evento che vede Cahit protagonista siano due modi di porsi dinanzi alla vita e alla possibilità di un desiderio amoroso con delle prospettive completamente diverse. L’impresa riesce grazie anche all’intensa interpretazione di Sibel Kekrilli, la sposa del titolo.
Il cinema italiano civile (r)esiste. Ex fotoreporter e documentarista impegnato con esperienze siculo-francesi, il palermitano Amenta esordisce nella fiction ispirandosi a una storia vera: Rita Atria (Mancuso nel film), figlia amatissima di un mafioso che rifiuta lo spaccio della droga, nel 1991, a 17 anni, per vendicare la morte del padre e del fratello, uccisi dalla nuova mafia, diventa collaboratrice della giustizia di Stato. In lei, rinnegata persino dalla madre, il desiderio di vendetta diventa tormentata consapevolezza di un dovere etico con l’aiuto di un paterno magistrato (l’ottimo Jugnot). Prodotto da Tilde Corsi e Gianni Romoli, scritto da Sergio Donati, forte della fotografia di Luca Bigazzi, interpretato da attori siciliani, è un film compatto che sfiora la retorica senza caderci. Dopo un prologo nel 1985, continua col processo di cui Rita è testimone-schiava. Finale tragico senza speranza. Gli dà intensità epica la D’Agostino: difficile distinguere l’attrice dal personaggio.
Presentato alla Settimana della Critica di Venezia 2012 e premiato come Opera Prima, è costato all’esordiente Aydin 7 anni di lavoro per scrivere la sceneggiatura. Fa perno su un paradosso. Il fenomeno dei desaparecidos non riguarda soltanto l’Argentina. Negli anni 1990-96 si è ripetuto in Turchia. Nel 1995 centinaia di donne – sui mass media battezzate “le madri del sabato” – cominciarono a riunirsi davanti al liceo Galatasaray con le fotografie dei figli scomparsi dopo il loro arresto per mano della polizia di un governo di estrema destra. Il paradosso è che nel film non sono nemmeno nominate – anzi vi compare, per due minuti appena, una donna sola. Girata alla fine delle riprese, ma inserita all’inizio della storia, c’è una sequenza straordinaria di 11 minuti (con la cinepresa immobile, come nel resto del film se si tolgono brevissime panoramiche): un dialogo tra un avvocato e Basri, guardiano delle ferrovie il cui lavoro consiste nel controllare i binari che ogni giorno, d’estate come d’inverno, percorre a piedi e che per 18 anni scrive 2 lettere al mese al ministero degli Interni e alla questura: vuole sapere che fine abbia fatto il figlio Seyefi, un curdo come gli altri scomparsi. I suoi resti sono stati ritrovati a Istanbul. Secondo Aydin, la lettura di Dostoevskij ha contato molto per la cupezza del suo protagonista assoluto che perde a poco a poco anche la speranza.
Detenuto di mezza età esce dal carcere in una zona rurale dell’Argentina dopo alcuni anni, intraprendendo un lungo cammino verso due precise destinazioni: consegnare la lettera destinata alla figlia di un suo compagno di prigione e recarsi a trovare la propria figlia che vive in una sperduta regione della foresta tropicale.
Regia, soggetto, sceneggiatura/director, story, screenplay Lisandro Alonso fotografia/director of photography Lucio Bonelli montaggio/film editor Lisandro Alonso, Delphina Castagnino musica/music FlorMaleva suono/sound Catriel Vildosola interpreti/cast Argentino Vargas, Misael Saavedra, Carlos Landini, Jorge Franseschelli, Martinez Rivero
Il cinquantaseienne Argentino Vargas arriva a Buenos Aires. Nella hall centrale del teatro San Martín aspetta che qualcuno venga a prernderlo per portarlo al decimo piano dove viene proiettato il film di cui è protagonista. Non ha mai messo piede in un cinema. Anche Misael Saavedra è invitato alla medesima proiezione, ma si perde nel teatro alla ricerca della sala. Il grande edificio, le toilettes, le scale, gli ascensori e gli atelier sono i veri protagonisti di questo mistero due uomini estranei a questi luoghi devono scoprire.
Nel bel mezzo dell’oceano Atlantico, Farrel chiede al capitano della nave sulla quale lavora il permesso di scendere a terra. Il suo scopo è quello di recarsi nella città in cui è nato per vedere se sua madre è ancora viva.
Opera prima per questo regista argentino di 26 anni. Il film segue, come in un documentario, la vita di un taglialegna della Pampa. È isolato da tutto e da tutti e vive in una tenda. La sua vita è fatta solo di lavoro. Da apprezzare il tentativo ma le basi per creare un film veramente equilibrato non ci sono.
Da una commedia di David Berry: da mezzo secolo due anziane sorelle vedove passano l’estate in un cottage sulla costa del Maine. Ricevono le visite di un’amica estroversa e malignazza, di un vecchio gentiluomo russo e di un energico idraulico. Con un quartetto d’attori che compendia la storia e la memoria del cinema (il più giovane è Price, 1911) un film dove la vita scorre piana come in una fotografia sbiadita: non una stecca, non un eccesso, non un attimo di noia anche se, come si dice, non succede niente. Ultimo film di L. Gish.
Frank Machin, minatore dello Yorkshire, diventa campione di rugby, ma un cattivo carattere e la violenza dell’ambiente in cui è cresciuto rovinano i suoi rapporti con la squadra e la donna amata. Tratto dal romanzo (1960) di David Storey, figlio di un minatore dello Yorkshire, una delle tre contee (con Lancashire e Cumbria) in cui si svolgeva il campionato professionistico della Rugby League. Scrisse la sceneggiatura col regista esordiente. È il solo film tragico del Free Cinema e, con Sabato sera domenica mattina (1960) di Karel Reisz il miglior film britannico degli anni ’60. Harris fu premiato con la Palma d’oro dell’attore a Cannes 1963. “Anderson sfida il realismo sul suo stesso terreno, adottando una costruzione esplicitamente artistica e poetica per dei personaggi e una storia che la tradizione cinematografica britannica ha consegnato alla prosa” (E. Martini). Fu inserito dal British Film Institute tra i 100 migliori film britannici del XX secolo. Fotografia: Denys Coop. Anche Harris aveva giocato a rugby in una squadra irlandese.
Ex procuratore, dedito all’alcol per dimenticare un fatale errore, riprende a lavorare come avvocato ed è coinvolto involontariamente in un losco giro. Dramma criminale di vecchio stampo in cui gli attori valgono più della vicenda che ha il fiato corto. È il rifacimento di The Mouthpiece (1932) di J. Flood e E. Nugent con Warren William.
Nella cittadina di Suddenly (California) il tiratore scelto John Baron (Sinatra) e due suoi complici si introducono in un appartamento, sequestrando la famiglia che lo occupa, per assassinare il presidente degli Stati Uniti in arrivo per una partita di pesca. Scritto da Richard Sale, girato in 4 settimane, è un B movie vivace e intenso, ben recitato, specialmente da un insolito Sinatra. Si vociferò che fu visto anche da Lee Harvey Oswald che il 22-11-1963 a Dallas sparò a J.F.K. Esiste anche in versione colorizzata.
Jon è un impiegato che sogna di diventare un musicista, ma fatica a trovare un suo “stile”. La svolta arriva quando ha la fortuna di sostituire il tastierista di una band, gli Soronprfbs, che suona musica sperimentale. I componenti del gruppo sono tipi molto particolari, soprattutto il leader, Frank, musicista di talento che indossa costantemente una maschera di cartapesta. Il personaggio del protagonista è liberamente ispirato al comico inglese Chris Sievey, raccontato nel libro autobiografico di Jon Ronson. Mettendo in contrapposizione Jon e gli altri membri della band, Abrahamson affronta il tema delle fragilità psicologica ed emotiva dell’artista, ma parla anche delle conseguenze del successo, di talenti “maledetti”, di musica rock e social network. Le gag e gli avvenimenti, spesso insensati, di personaggi fuori dall’ordinario ne fanno una piacevole commedia surreale e bizzarra.
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