Due fratelli e una sorella si ritrovano insieme per una dolorosa riunione: la morte della loro madre. Dopo le lacrime e il funerale, Jeremie, Frederic e Adrienne devono occuparsi del patrimonio di famiglia: un’enorme casa nella campagna francese con una splendida collezione d’arte che la madre, negli anni, aveva fatto crescere con cura. Il tesoro familiare, da custodire con amore, li riporta indietro nel tempo, a quando la caccia al tesoro era solo un gioco da fare in un rigoglioso giardino, d’estate. Una decisione da prendere diventa, così, il punto di partenza di un viaggio nelle memorie d’infanzia, grazie al quale impareranno a dare un nuovo significato alla parola famiglia.
Un ragazzo viene abbandonato da un padre violento e insensibile, mentre la madre si suicida: con lui resterà solo un pupazzo di neve, inquietante presagio di orrore e infelicità. Un poliziotto della Omicidi, celebre per i casi impossibili risolti con successo, riceve un messaggio scritto da un certo “uomo di neve”, che ha tutta l’aria di una minaccia incombente. Capita spesso che le aspettative createsi attorno a un film siano tali da generare una delusione a visione avvenuta. Tuttavia accade assai di rado che la sproporzione tra attese e risultato raggiunga i livelli di L’uomo di neve di Tomas Alfredson.
Sulla carta la trasposizione dal best seller di Jo Nesbo sembrava avere tutto: un cast eccellente, tanto nei protagonisti che nei comprimari; un regista dal curriculum immacolato; un’ambientazione suggestiva. Nei fatti bastano pochi frame di un incipit destabilizzante per lasciar intendere che qualcosa non è andato per il verso giusto.
La macchina da presa sembra da subito incerta, priva di una guida salda: i molti primi piani e il montaggio enfatico sembrano suggerire una scelta stilistica, ma la qualità delle scene successive, come l’auto vista da dietro, lanciata a rotta di collo sul ghiaccio, o la morte della matrigna, desta sgomento. Uno sconforto che diviene certezza, man mano che la storia si dipana. Le difficoltà e i ripensamenti che hanno caratterizzato L’uomo di neve – la direzione in un primo momento era affidata a Martin Scorsese, poi a Morten Tyldum, prima di arrivare, diniego dopo diniego, ad Alfredson – emergono con la chiarezza cristallina di una sceneggiatura riscritta troppe volte, forse transitata da troppe mani. Alfredson, irriconoscibile, si adagia ben presto su una routine da mystery convenzionale, che abbandona il “come” per dedicarsi esclusivamente al “cosa”: a tenere desto l’interesse del giallista interiore, che alberga in ognuno di noi, rimane solo l’identità dell’assassino. Ma anche questa è intuibile con poco sforzo già a metà film: il profilo psicologico e le fattezze dell’assassino lasciano infatti pochi dubbi in merito, complice qualche inquadratura di troppo del killer di spalle.
Vedova con tre figli sfollata in campagna ospita aviatore americano. Tra i due nasce un tenero idillio. Avati è un piccolo poeta della vacanza che si muove sulla Carta del Tenero. Contano le sfumature, le annotazioni apparentemente marginali, il pudore dei sentimenti, la sciolta leggerezza dei passaggi narrativi e descrittivi. Cinema anomalo che si sottrae ai modelli italiani, lontano dai canoni della commedia italiana. Esiste un’edizione TV di 180′.
Due vecchie stelle dell’età dell’oro della tv in bianco e nero, i ‘Sunshine Boys’, vengono riesumate per un film natalizio. Per i due, che non si sono mai sopportati, il forzato incontro dopo anni di serena lontananza è occasione per un’esilarante serie di gag.
Non esiste versione in italiano. Ho rippato il dvd5. I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Un film di Semjon Aranovich, Aleksandr Sokurov. Titolo originale Al’tovaya Sonata: Dmitrij Shostakovich. Documentario, durata 80 min. – URSS 1989.
Il talentuoso regista indipendente russo Sokurov firma uno dei suoi primi documentari “a sfondo musicale”. È il turno del grande compositore sovietico Dmitrij Shostakovich (1906-1975), la cui vita viene raccontata, con un pizzico di quella piacevole grazia poetica che è un marchio di fabbrica dell’autore, in continuo contrasto con quello che era il Regime di Stalin. Dall’infanzia a San Pietroburgo, all’amicizia che lo legava agli altri compositori, dall’amore per la sua prima moglie alle difficoltà incontrate per farsi apprezzare dalla critica e dal pubblico, fino agli innumerevoli scontri artistici con la censura russa. Nonostante sia un documentario girato a quattro mani, la componente lirica e particolarmente soggettiva di Sokurov imperversa su tutta la pellicola, così come le note dell’ultima opera di Shostakovich (“Il naso”) e della “Sonata per viola” che dà appunto il titolo all’opera. Ciò che colpisce è la bravura del regista nel delineare la collisione fra un fragile Davide individuale e un mostruoso Golia burocratico e tirannico. Meritevole, anche se qua e là si sbadiglia.
Dieci anni nella vita breve e infelice di Leon (Bix) Beiderbecke (1903-31), uno dei pochi grandi jazzman bianchi, che si distrusse con l’alcol per l’impossibilità di conciliare due mondi, due culture, due Americhe. Costruito in forma di mosaico, è il 1° film girato in America dai fratelli Avati: ricostruzione d’epoca puntigliosa, colonna musicale filologicamente accurata. Film tenero, ma monocorde, senza colpi d’ala. È un limite più che un difetto, frutto di una scelta stilistica e morale. Sottovalutato e senza successo. Nastro d’argento alla fotografia di Pasquale Rachini; David di Donatello e premio Ciak alle scene di Carlo Simi. Esiste il documentario Bix-ain’t none of them play like him yet (1981) di Brigitte Berman.
Da un romanzo di Raymond F. Jones. Una coppia di scienziati terrestri è rapita da misteriosi visitatori alieni e trasportata in un remoto pianeta, devastato da una guerra interplanetaria. Hanno bisogno di loro. Li aiutano e poi scappano. Uno dei migliori SF degli anni ’50, e uno dei meno reazionari a livello ideologico. “… al di là dei suoi molti meriti… merita una menzione… per il suo strepitoso BEM (Bug Eyed Monster il mostro extraterrestre della narrativa pulp) per quanto gli siano riservati meno di cinque minuti.” (Andrea Ferrari). Fu fonte d’ispirazione per innumerevoli personaggi tra cui i marziani del Mars Attack! delle figurine Topps e del film di Tim Burton.
Marian è un’infermiera quarantenne che assiste i malati in punto di morte. Se ne prende cura con una delicatezza che sfiora il morboso, regala loro gli ultimi momenti di tenerezza. Spesso ne abbrevia le sofferenze sotto un lenzuolo bianco. La sua vita privata non è così ordinata e perfetta come vorrebbe far credere. Un giorno, per caso, assiste a una scena di sesso nel cortile del suo palazzo, condividendo l’esperienza voyeristica con un dirimpettaio. Quando rivede l’uomo per strada, lo segue fin dentro un noleggio di dvd dove affitta Il dottor Zhivago con la sua versione porno. I suoi sentimenti si ridestano, intanto fa amicizia con un’anziana vicina sola e sul lavoro colleziona oggetti personali di coloro che spirano. È inevitabile l’incontro con l’uomo, che avrà un esito inaspettato.
Presentato in concorso a Cannes, è considerato da molti critici come il miglior film di Pupi Avati. E il giudizio è senz’altro fondato. Siamo nell’Alto Medioevo in un periodo precedente all’anno Mille. Il titolo prende spunto dalla preghiera di Maria a Dio, riportata dal Vangelo di San Luca. In un montaggio fluido e originale assistiamo a cinque episodi intessuti tra loro che hanno come temi la ricerca di Dio, l’ignoranza e la superstizione. Un boia, che non si dà pace per la morte del figlio, viaggia con un aiutante ancora inesperto. Devono compiere due esecuzioni: l’annegamento di una donna e lo squartamento di un uomo. Una concubina tenta, in tutti i modi, di avere un figlio maschio. Una bambina viene spedita dalla famiglia in un convento per iniziare come oblata la strada verso Dio. Un frate in pellegrinaggio prende nota dei confratelli passati a miglior vita. Una giovane coppia di sposi deve sottostare alla regola dell’ Jus primae noctis. Il signore di Malfole chiama a raccolta i suoi figli per le ultime volontà. In uno stile originale che richiama anche le lezioni di Rossellini e Pasolini (non in senso politico), Avati si muove con semplicità e rigore in un mondo pervaso dalla crudeltà e dalla paura.
Un dietro le quinte della vita di alcuni impiegati. In questo microcosmo arriva un ingenuo laureato al primo impiego, Luigi, che a poco a poco si inserisce a modo suo in questo ambiente ipocrita e fatuo. La morte (suicidio o incidente?) del suo più caro amico lo segna profondamente, ma la banca è aperta tutti i giorni. Pupi Avati ha realizzato con finezza uno spaccato della vita dei giovani d’oggi, guidando al meglio, come sempre, i bravi attori.
Chicago: Duncan Mackay conduce da tanti anni XXVth hour, un talk show molto popolare in cui si intervistano personaggi pubblici a viso aperto, ponendoli di fronte a domande molto dirette e spingendoli a rivelare fatti “scomodi”. Quando il presentatore viene trovato morto in una camera d’albergo la guida del programma passa ad Arnold Gardner, nativo di Spencer, nell’Indiana, divorziato, con due figli e un padre che fu uno stimato giudice ed è ora anziano e malato.
Pur giovane, Arnold non fa rimpiangere il predecessore, e gli ascolti battono in breve tempo tutti i record della storia della trasmissione.
Il 31 dicembre 1899 si prepara una festa di nozze in un villone della campagna emiliana, a Sasso Marconi. Figlia di un avvocato in difficoltà finanziarie, Francesca è costretta a un matrimonio di convenienza con un ricco possidente quarantenne che per testimone ha scelto il compaesano Angelo, da poco rientrato dagli Stati Uniti dove, sembra, ha fatto fortuna. Francesca lo vede ed è amore a prima vista. Ammirevole a livello descrittivo (la 1ª parte è quasi un documentario sugli usi e costumi della borghesia terriera di 100 anni fa), il film zoppica negli sviluppi narrativi. Vengono al pettine i nodi degli artifizi romanzeschi, gli errori di sceneggiatura, la discutibile scelta degli interpreti, gli spunti macchiettistici. Curata la parte figurativa, specialmente nella fotografia di Pasquale Rachini.
Bologna 1948: l’amore adolescenziale di Dado per Sandra che lo mette in conflitto con famiglia e insegnanti. Tragico epilogo 46 anni dopo. Flashback dal punto di vista del morto come in Viale del tramonto , confronto tra la Bologna (l’Italia) di una volta, quando tutto era più semplice, e quella di oggi. Minimalismo e melodramma, bozzettismo e mistero. Dopo 3 film “americani”, Avati torna alla sua Emilia, miscelando la tenerezza del rimorso e l’accidia del sentimento. Il cocktail non è riuscito.
Il segretario di Stato americano Harry (non Henry) Kissinger, idolatrato dalle donne, annuncia alla stampa la creazione di una multinazionale intesa a dispensare sesso e felicità a tutti. Un siculo-americano si reca allora a Milano con l’incarico di istituire un “bordello” per le signore milanesi. L’iniziativa riscuoterà enorme successo.
Winfried Conradi è un uomo âgée col vizio dello scherzo. Le sue buffonate colpiscono democraticamente familiari e fattorini che bussano alla porta e provano allibiti a consegnargli l’ennesimo pacco. Insegnante di musica in pensione, la sua vita si muove tra le visite alla vecchia madre e le carezze al suo vecchio cane, ormai cieco e stanco. A casa della ex moglie una sera a sorpresa ritrova sua figlia. Ines ha quasi quarant’anni e una carriera che impegna ogni ora della sua giornata. Occupata in un’azienda tedesca che l’ha traslocata a Bucarest, vive appesa al telefono e a una vita incolore, dedicata completamente alla professione e con poco tempo da spendere in famiglia. Senza preavviso, Winfried decide di farle visita e di passare qualche giorno con lei.
Luciana è una giovane immigrata spagnola a New York, che lotta per sopravvivere mentre prova a fuggire da un traumatico incidente del suo passato. Per sbarcare il lunario accetta lavori di ogni sorta: un giorno distribuisce volantini pubblicitari mascherata da pollo, un pomeriggio fa la babysitter, una sera si veste elegante per andare a una festa esclusiva, apparentemente solo per farsi guardare. Luciana dovrebbe sostituire una sua amica, che le promette “non devi far niente di ciò che non vuoi”, in cambio di duemila dollari solo per partecipare al party. Ma la serata prenderà ben presto una piega imprevista e pericolosa, e sarà troppo tardi per abbandonarla.
Tina ha un fisico massiccio e un naso eccezionale per fiutare le emozioni degli altri. Impiegata alla dogana è infallibile con sostanze e sentimenti illeciti. Viaggiatore dopo viaggiatore, avverte la loro paura, la vergogna, la colpa. Tina sente tutto e non si sbaglia mai. Almeno fino al giorno in cui Vore non attraversa la frontiera e sposta i confini della sua conoscenza più in là. Vore sfugge al suo fiuto ed esercita su di lei un potere di attrazione che non riesce a comprendere. Sullo sfondo di un’inchiesta criminale, Tina lascia i freni e si abbandona a una relazione selvaggia che le rivela presto la sua vera natura. Uno choc esistenziale il suo che la costringerà a scegliere tra integrazione o esclusione.
Nel 1944 in Belgio una compagnia di fanteria americana si trova a mal partito contro gli attacchi tedeschi per colpa di un capitano incompetente e vigliacco. Un tenente lo fa fuori prima che si arrenda. Tratto dal dramma teatrale Fragile Fox (1954) di Norman A. Brooks, adattato da J. Poe, non è tanto un film contro la guerra quanto contro coloro che la fanno male. Ancora una volta Aldrich mette in immagini i suoi temi preferiti: l’autorità perversa e insana, l’eroe schiacciato dal sistema, la debole democrazia che crede nel compromesso. Realizzato con pochi mezzi (e senza la collaborazione dell’esercito), esce dagli schemi del cinema hollywoodiano di guerra per energia, taglio rapido, gusto dell’eccesso.
Bologna, 1938. Il prof. Michele Casali, docente al Liceo “Galvani”, ama in modo assoluto la figlia Giovanna, bruttina e con problemi psicologici. La ama al punto di estraniarsi la moglie e non cessa di amarla quando lei uccide per gelosia una bella compagna di scuola. Abbandona casa e lavoro per starle vicino quando è richiusa nel manicomio criminale di Reggio Emilia dal quale esce nel 1945. È il film più “russo” di Avati, regista/produttore di lungo corso: in 40 anni 36 regie di cui 31 per il cinema. Oltre ad amare la natia Bologna, Avati ama i suoi personaggi: buoni, cattivi, ambigui, spesso impotenti e perdenti. E sa dirigere gli interpreti anche quando li usa in modo insolito o li recupera (dal passato come fa qui con la Grandi o dalla TV come Greggio). Mette in luce una giovane attrice emergente (la fiorentina Rohrwacher che ha vinto 1 David di Donatello) in un personaggio non facile che passa dai 17 ai 24 anni e impegna il veterano Orlando in un ruolo che è complesso più che ambiguo, visto che risulta negativo come padre, proprio nella misura in cui stravede per la figlia. È un personaggio estremo come, meglio di molti critici, ha capito la giuria internazionale di Venezia 2008 che l’ha premiato con la Coppa Volpi.
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