Un uomo è in piedi in un vagone della metropolitana con la faccia sporca di fuliggine. Nella mano destra stringe una borsa di plastica che contiene dei documenti, o meglio, i loro resti carbonizzati. In un corridoio un uomo si aggrappa alle gambe del suo capo che l’ha appena licenziato. In un bar qualcuno sta aspettando il padre che ha appena bruciato la sua fabbrica di mobili per ottenere i soldi dell’assicurazione. Ingorghi stradali e agenti di borsa riempiono le strade mentre un economista, alla disperata ricerca di una soluzione ai suoi problemi fissa la sfera di cristallo di un veggente. Tutti stanno andando da qualche parte, ma nessuno sa più qual è la vera ragione.
Cesàr è un giovane di successo che cambia continuamente amanti: una sera, a una festa, conosce e si innamora follemente di Sofia, ma il destino ha in serbo per lui un tragico scherzo: tornando a casa si imbatte infatti in una sua ex delusa, Nuria, che esce volontariamente di strada con la sua macchina, trovando la morte, e lasciando Cesàr sfigurato per sempre. In ospedale, il protagonista comincia però ad avere strane visioni e la sua vita cambia radicalmente quando Nuria torna a farsi viva, asserendo di essere Sofia. Clamoroso successo di pubblico in patria, film amatissimo da Tom Cruise che girerà il remake meno riuscito Vanilla Sky (durante la cui lavorazione inizierà la liason con la Cruz che porterà alla dissoluzione del suo decennale matrimonio con Nicole Kidman), Apri gli Occhi è l’affascinante e complessa opera seconda del talentuoso Amenabar: difficile da seguire e comprendere, per il continuo alternarsi di piani narrativi differenti e passaggi tra finzione e realtà, il film rappresenta un’affascinante incursione nel mondo del subconscio, dell’amore, della sfera emozionale che ognuno di noi possiede e che spesso fatica a emergere, affossata com’è dalla banalità del quotidiano: qui un evento tutto sommato comune, ma al contempo straordinario, come una storia d’amore si trasforma in efficace volano per riflettere sulle mille maschere che indossiamo ogni giorno e sui dubbi e le incertezze che attanagliano la nostra società. Impeccabile il cast, Noriega e Cruz in testa, e grande fotografia di Hans Burmann: tra forma e filosofia, vince il sentimento.
Traffico di droga a Hong Kong. Parte agente statunitense, incontra un esperto di lotte orientali e un’avvenente spia che ama il denaro. Il tono del film è sul comico.
Turk e Rooster sono detective nel Dipartimento di polizia di New York. Veterani pluridecorati sono a un passo dalla pensione e dal serial killer che celebra i suoi cadaveri con sonetti in rima. Collabora alle indagini l’affascinante Karen Corelli, agente della squadra CSI e amante volubile di Turk. Karen ha una dipendenza dal sesso e da pratiche erotiche non convenzionali, che consuma con Turk e con il più giovane agente Perez, convinto che il serial killer sia proprio un poliziotto. Tra l’omicidio di uno spacciatore e quello di un protettore e contro i metodi della coppia junior, Turk e Rooster proveranno a fare luce sul caso e sui confini della legge.
Una bomba atomica perduta da un aereo israeliano abbattuto durante la Guerra del Kippur del 1973 finisce nelle mani del neonazista Dressler (Alan Bates) che ha in mente di scatenare un conflitto tra Russia e Stati Uniti per spazzare via per sempre dal mondo democrazia e comunismo. Il clima di incertezza che si è creato alla Casa Bianca dopo l’insediamento al Cremlino del nuovo leader Alexander Nemerov (Ciaran Hinds), i cui orientamenti politici – specialmente sulla spinosa questione della Cecenia – sono ancora sconosciuti, sembra favorire il disegno del fanatico criminale. Mentre il giovane analista Jack Ryan (Ben Affleck) su incarico del direttore della CIA William Cabot (Morgan Freeman), è impegnato a studiare la personalità di Nemerov, gli eventi precipitano.
John Halder è un professore di letteratura nella Germania del ’33. Sposato a una moglie nevrotica, padre di due bambini e figlio di una madre affetta da demenza senile, Halder scrive e pubblica un libro sull’eutanasia, che accende l’interesse delle alte sfere politiche del partito nazista. Deciso a fare del suo romanzo uno strumento di propaganda che giustifichi l’eliminazione fisica dei degenti fisicamente e psicologicamente invalidi, il partito chiede al professore di scrivere un saggio compassionevole sull’argomento. La stesura del testo critico e la relazione con una giovane allieva ambiziosa lo condurranno lentamente ma inesorabilmente a tradire la bellezza e il “buono” della sua vita. Colluso con un regime in procinto di occupare l’Europa e produrre l’indicibile orrore, Halder navigherà verso le derive del nazismo, condannando il suo amico Maurice, psichiatra ebreo, alla deportazione.
Da un dramma di Edward Wool. Un baronetto inglese, amnesiaco intermittente, è accusato di aver preso, durante la prigionia in Germania, l’identità di un altro. Partenza lenta seguita da una suspense ben manovrata. Bravi attori tra cui spicca Bogarde in una doppia parte. Di un teatralismo greve.
Scritto da Bridget O’Connor (cui il film è dedicato) e Peter Straughan dal romanzo (1974) di John le Carré, già trasposto in una serie TV (1979 – 7 puntate) di grande successo, famosa anche per l’interpretazione di Alec Guinness come George Smiley (qui Oldman): il più maturo degli agenti del MI6 (il servizio segreto dello spionaggio britannico) per le sue competenze e conoscenze è incaricato di scoprire tra i colleghi la talpa infiltrata dal KGB sovietico. La regia è dello svedese Alfredson di cui in Italia s’è visto soltanto Lasciami entrare (2008). Condensare in 2 ore una vicenda con una quarantina di personaggi che nella serie TV dura più di 400 minuti non era facile. Per gustare questo film antispettacolare – dove le spie non sono acrobatici eroi da missioni impossibili, ma mediocri burocrati che separano il dire dal fare, la verità dalla realtà; organizzato in ellissi, ricco di dettagli e di analisi psicologica, affidato a una puntigliosa ricostruzione d’epoca (1973-74 in Inghilterra, a Budapest, a Istanbul) – bisogna saper rinunciare alla voglia di capire quel che sta succedendo per apprezzarne il clima minaccioso di grigiore, squallore, sospetto, sfiducia e malinconia e godersi gli attori.
Il piccolo Matt Murdock è cresciuto assieme ad un padre pugile, talmente forte da farsi chiamare “Devil”, ma non abbastanza tenace da evitare loschi affari malavitosi. Quando Matt scopre che il papà è al servizio del boss cittadino, fugge via deluso. È l’ultima cosa che vede perché un incidente con un materiale radioattivo lo rende cieco, potenziandone tutti gli altri sensi.
Mr. Fogg scommette con gli amici che farà il giro del mondo in soli 80 giorni. Alla fine la scommessa sembra perduta per sole 24 ore. Sorpresa finale. Tratto dal romanzo (1873) di Jules Verne non è un film, ma un filmone, un filmissimo. 160 giorni di lavorazione e più di 40 star compaiono nel viaggio. Niven è impeccabile, la MacLaine sprecata e Cantinflas eccede. Prodotto da Michael Todd che ne è il vero autore, girato in Todd AO, incassò 23 milioni di dollari, ebbe 5 premi Oscar (miglior film, sceneggiatura, fotografia, musica, montaggio). Rifatto come miniserie TV. “È un film come qualsiasi altro, soltanto due volte più lungo… le scene di treni e piroscafi sembrano infinite” (D. Robinson).
Nick è uno scrittore disoccupato, torna al paese natio per assistere la madre malata e compra un bar in società con la gemella. Il giorno del suo quinto anniversario di matrimonio, sua moglie Amy – figlia di una coppia di celeberrimi scrittori di libri per bambini che hanno inventato il personaggio della “mitica Amy” a lei ispirato – scompare e Nick è sospettato di averla uccisa. I media si scatenano, coinvolgendo l’America intera. Riduciamo al minimo la trama per gli spettatori che non hanno letto il libro Gone Girl (2012), best seller di Gillian Flynn, anche sceneggiatrice. Per quelli che invece l’hanno letto la riduzione inevitabilmente frettolosa a colpi di scena ravvicinati può lasciare perplessi. Prodotto da Reese Witherspoon, è in superficie uno psico-thriller, assolutamente non hitchcockiano, come invece qualcuno ha scritto, coinvolgente e che mette a disagio; un’analisi impietosa del matrimonio come tomba dell’amore, dell’erotismo e del divertimento e, scavando ancora un po’, il ritratto di un’America tremenda, di facciata, falsa, schiava delle apparenze e dei più beceri mezzi di comunicazione. Affleck, meno bamboccione del Nick della Flynn, ma incapace di una vasta gamma espressiva, rende involontariamente benino il suo personaggio. La Pike è una perfetta psicopatica con l’occhio allucinato. I personaggi minori (la gemella Margot, il primo moroso di Amy e soprattutto i tremendi – nel libro – genitori) troppo opachi e fuori fuoco.
I coraggiosi figli di Khevsureti e Kisteti combattono l’uno contro l’altro per proteggere le proprie terre. Ma affrontano tradizioni domestiche errate per rispettare la vera abilità del nemico e si trovano in conflitto con i propri compatrioti.
Dopo la caduta del muro (1989), comincia nei Paesi dell’Est postsocialista la corsa all’oro di disinvolti imprenditori dell’Ovest capitalista, attirati dal basso costo della manodopera. In un paese ungherese arrivano su un’Alfetta rossa due italiani che si inventano una fabbrica di scarpe a sfruttamento intensivo e precario nel tempo: Gerardo è il tipico italiano all’estero che tra carinerie e canzoni di Celentano (“Azzurro” a tutto spiano) seduce gli indigeni; di Mario, il vero padrone, s’innamora la passionale Veronica. Scritta con Máargit Halász da Almási, rinomato documentarista, la commedia inclina al bozzetto con vivacità garbata e piccole gag quasi surreali, mescolando con leggerezza la serietà sociologica del contesto con la pittoresca descrizione delle figurine.
Tatuato fuori, non cicatrizzato dentro, Jim Davis, reduce della Guerra del Golfo, vorrebbe essere assunto nella polizia di Los Angeles, ma preferisce, per sottrarsi agli incubi bellici che lo tormentano, mettersi nei guai in compagnia del suo fedele amico Mike Alonzo su e giù a mano armata per il quartiere degradato di South Central. Esordio d’autore nella regia di David Ayer, sceneggiatore di Training Day . La materia narrativa è la stessa (South Central compreso), attinta dalle sue esperienze e messa in immagini in modi più secchi senza concessioni allo psicologismo e agli alibi ideologici. Ottimi i due protagonisti.
Un film di Fernando Arrabal. Con Emmanuelle Riva, Marco Perrin, George Shannon Titolo originale J’irai comme un cheval fou. Drammatico, durata 98′ min. – Francia 1973. MYMONETRO Andrò come un cavallo pazzo valutazione media: 2,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Il bambino di Viva la muerte (1971), 1° film di Arrabal, è cresciuto e, per liberarsi del suo malefico influsso repressivo, uccide la madre. Cercato dalla polizia, si rifugia nel deserto dove s’imbatte in santone senza età, il suo “doppio”, che divorerà il suo cadavere. Scopertamente autobiografico, è un poema delirante, limaccioso e ossessivo che gronda di sangue, escrementi, polluzioni, insetti, amputazioni, torture, perversioni in oscillazione tra realtà e sogno, disperazione e speranza
Dal romanzo di William F. Nolan e George Clayton Johnson: in una megalopoli del XXII secolo, nel 2274, un poliziotto in crisi di coscienza chiede a una bella e occasionale compagna di metterlo in contatto con le forze della resistenza. Racconto di fantascienza che non lesina sul piano del meraviglioso, aiutato dalla suggestiva fotografia di Ernest Laszlo. Come dire che la cornice vale più del quadro. C’è, infatti, debolezza logica, confusione, mancanza di stile. Oscar speciale per gli effetti visivi. Trasposto in una miniserie TV.
Nel recarsi a un’udienza papale in Vaticano quattordici cattolici di ambo i sessi, religiosi e laici, rimangono chiusi in un ascensore in un tragitto all’infinito verso l’alto dei cieli.
Dopo 30 minuti di garbo pungente in cadenze leggere, frana nella virulenza polemica e rivela nel suo autore una distorta conoscenza del cattolicesimo in generale e dei cattolici italiani in particolare. Come Petri in Todo modo e altri intellettuali della sinistra italiana alle prese con questi temi, Agosti appare in preda al complesso del toro: carica a testa bassa e sbaglia il bersaglio. Prodotto con formula cooperativistica.
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