In una grande casa dove tutti indossano costumi del Settecento vive un nano, famoso per le sue magie che, in realtà, sono provocate dagli avidi parenti. 1° film di Avati: ricco d’estri e di fantasia, ma basso di peso specifico, contiene in nuce molte componenti del suo cinema.
Dopo Il nome della rosa e L’orso, Jean-Jacques Annaud si misura con il celebre romanzo di Marguerite Duras. Eccessivamente patinato e raffinato, il film però perde di vista il calore emotivo del rapporto d’amore. Rapporto che nasce tra una francesina adolescente e un cinese trentenne danaroso. Un traghetto che naviga sul fiume Mekong è il luogo dell’incontro. Una curiosità: nella versione originale si sente la voce di Jeanne Moreau che legge stralci dal romanzo.
È il seguito di Regalo di Natale (1986), uno dei film più riusciti di P. Avati, insolito perché, nella finzione come nella realtà, avviene 18 anni dopo. È anche uno dei suoi pochi film ambientati nell’Italia contemporanea, l’unico situato nel presente della natia Bologna. Il che spiega il più alto tasso di amarezza civile, di squallore arrogante e, forse, di misantropia che impregna il racconto. Anche qui la partita a poker serve a togliere le maschere ai personaggi e a rivelarne l’indole nascosta o la vulnerabilità, ma non c’è soltanto un traditore come nell’altro film. Lo stesso Franco (Abatantuono), vecchia vittima, è predisposto a barare. L’Italia odierna è più abominevole e corrotta che nel 1986. Alla riuscita del film, scritto da Avati (con la consulenza pokeristica, non sempre ascoltata, di Giovanni Bruzzi, come in Regalo di Natale ), contribuiscono i 5 attori, perfetti anche nel mostrare gli effetti che l’orologio biologico ha avuto su di loro.
Primi anni ’30, in una Bologna ancora a stretto contatto con la campagna e l’Appennino. Avati dice di aver raccontato la storia dei suoi nonni. 2 famiglie a confronto: i contadini Vigetti con 3 figli (il piccolo Edo, Sultana e Carlino) e gli Osti, proprietari terrieri con 3 figlie, le attempate e bruttine Maria e Amabile, la giovane e bella Francesca. Il duro capofamiglia Osti accetta a malincuore che Carlino, bel ragazzo un po’ gaglioffo, frequenti le 2 figlie maggiori per sposarne una, ma l’arrivo di Francesca gli guasta il progetto. Tutto è pronto il giorno delle nozze tra Carlino e Francesca, ma manca il parroco. Vogliono farla passare per una commedia crepuscolare sui temi della memoria e della nostalgia con una vena divertente perché ironica e un po’ cattiva. C’è chi la trova misogina e chi antimaschilista, come suggerisce il titolo ambivalente. Ma il vecchio Avati non ha soltanto due anime. Due bravi protagonisti: la Ramazzotti dà il suo meglio nel romanesco che le è abituale, ma il cantautore Cremonini, ossessionato dal sesso, fa emergere il grottesco (dimensione nascosta del film, forse più crudele e senza illusioni del suo regista/autore). Musiche: Lucio Dalla.
34° film di Avati in 40 anni, il 9° ambientato a Bologna e il più autobiografico: il suo alter ego è il 16enne Taddeo che fa da perno e narratore in questa commedia di personaggi, senza un vero intreccio, in cui, secondo lui, ha raccontato la sottocultura di un ambiente – il bar di via Saragozza nella Bologna del 1954, da lui mitizzato – con tenerezza e crudeltà. Dice il vero, non tutto: la crudeltà prevarica sulla tenerezza nel suo film più estremo, misantropo, sgradevole. Nel suo cinico e ladro Taddeo si è calunniato a ritroso. Perché ha spinto, o permesso, che Lo Cascio rida o sghignazzi senza pause? Perché Marcorè portatore di inadeguatezza, è un imbranato così radicale? E il nonno di Cavina che non smette mai di tossire e gioca a biliardo come se non avesse mai maneggiato una stecca? Quasi tutto il film è sopra le righe e, a furia di caratterizzare, scivola nel macchiettismo. Solo l’Al del sobrio Abatantuono è raccontato con simpatia e ammirazione. Fotografia (il fido P. Rachini) e musica (Lucio Dalla) intonate come le scene (G. Pannuti) e i costumi (S. Tonelli). È un’altra tappa dell’ascesa postdivistica della bella e brava Chiatti. A 70 anni Avati ha scoperto il valore dell’ingenuità, ma esagera.
Tornato al paese romagnolo nativo con fama di eretico burlone, il barone Anteo Pellicani, detto Gambina Maledetta, zoppo per la caduta da un fico miracoloso, s’impegna a combattere contro il mondo della sua infanzia. Pur con scompensi di costruzione è, in bilico tra il grottesco e il fantastico, un film bizzarro, insolito, originale. Una bella galleria di maschere ripugnanti.
26° film di Avati, scritto con il fratello Antonio, attinto ai racconti ascoltati da parenti e vecchi amici e ispirato alle vicende della madre (morta nel 1999) cui è dedicato. Un’estate tra gli anni ’20 e i ’30 a Bologna e nei dintorni, tra Sasso Marconi, San Leo e il fiume Reno. Delle 4 storie, parallele ma con punti di contatto, 2 contano: Ines (Cervi), dattilografa di città, s’innamora non ricambiata del figlio del suo datore di lavoro; il “fratello di Loris” fa il suo giro sull’Appennino a raccogliere giovani contadini scapoli per il ballo che nella balera di Loris è occasione di incontri con figlie matrimoniabili. Avati coltiva ancora con amabile sagacia l’elegiaca vena del passato con storie pittoresche e personaggi bizzarri, non senza agganci precisi con l’attualità sociale. Pur non evitando sempre il bozzettismo e il sapore del già visto, offre personaggi azzeccati (la Cervi, Cavina, diversi caratteri di contorno, un po’ troppo letterario il medico di Delle Piane) e pagine ariose.
Nel ‘700 in una casa isolata delle valli di Comacchio, abitata da Giove e i suoi 4 figli, arriva la bella Olimpia che vi porta l’amore, e la morte. Film a basso costo e di piccolo incanto come quello del melodico, struggente motivo sul violino (inventato dal clarinettista Avati) che fa da conduttore di una favola per adulti, genere raro nel cinema italiano che rischia il poeticismo. Film di molti pregi: la luce dei paesaggi (fotografia di Franco Delli Colli, cugino di Tonino); l’arcaico e raffinato estro delle incursioni nel fantastico popolare; l’affiatata direzione degli attori e soprattutto la modulazione della voce di Avati in una favola sospesa senza morale definita, ma dotata di senso. 1° premio al Festival di Valladolid 1970.
Nel 1770, durante il primo dei suoi tre viaggi in Italia, il quattordicenne Amadè (com’era familiarmente chiamato Wolfgang A. Mozart) arriva col padre Leopold (Capolicchio) in una villa fuori Porta San Vitale, nei pressi di Bologna dove ha da sostenere un esame di contrappunto all’Accademia dei Filarmonici. Fa amicizia col figlio del suo ospite, il conte Pallavicini (Delle Piane), e amoreggia con una fanciulla. Avati racconta Mozart adolescente nel suo sentirsi e sapersi diverso, ma anche nello strenuo sforzo di essere – o rimanere? – eguale agli altri coetanei. In una cornice di ricercata eleganza figurativa (fotografia di Pasquale Richini) si prende molte libertà con la storia, ma lo dichiara con bella semplicità. “Avati inventa una memoria favolista … è il cineasta del non accaduto, del possibile suggerito” (J.A. Gili). Premio speciale per i valori tecnici a Venezia.
Una compagnia teatrale di giro prova un dramma, scritto dal capocomico/attore, con cui la prima attrice ha un figlio immaginario. Durante una seduta spiritica il bimbo si materializza. Cercano di farselo amico, ma presto oscuri e minacciosi eventi incombono. 2° film di Avati, scritto con il fratello Antonio, Enzo Leonardo e Giorgio Celli. A distanza di anni Pupi lo ritiene un errore, Antonio lo definisce “surreale, sessantottino”. È il meno riuscito del suo vivido filone gotico-padano. A Locarno 1970 il nano Bob Tonelli si beccò un premio come non protagonista. Da ricordare la battuta del suo personaggio nella lezione di sessuologia: “Dopo di me non si dirà più sadismo, ma bobismo”. In pratica non fu mai distribuito sul mercato fino agli anni ’90 e provocò una lunga pausa (quasi 5 anni) nel fertile itinerario del regista.
Agli inizi degli anni ’60, in un paese della Bassa Ferrarese arriva un giovane restauratore per ripristinare un affresco sulla morte di San Sebastiano, dipinto da un artista locale naïf e un po’ folle, morto suicida trent’anni prima. Si trova coinvolto in una bieca atmosfera e, dopo morti violente e colpi di scena, scopre a sue spese una orribile verità. 5° film del bolognese P. Avati e il 1° prodotto da lui con l’A.m.A. (in società con il fratello Antonio e Gianni Minervini), scritto con Gianni Cavina, Maurizio Costanzo e il fratello, è un noir padano che sconfina nell’horror con qualche facile effettaccio. Narrativamente sconnesso, conta per il senso del paesaggio, il gusto della dismisura, l’inclinazione al grottesco, la direzione degli attori, la cura dei particolari. Premio della Critica al festival du Film Fantastique di Parigi 1979.
Emilia, 1950. Nel palazzo dei marchesi Zanetti arriva un antico volume che contiene una profezia: colui che ucciderà 9 membri di una nobile famiglia troverà un tesoro. La girandola delle morti misteriose comincia. Fino a 9. O sono soltanto 8? Parodia del genere gotico sullo sfondo di una Padania cupa e nebbiosa con una galleria di personaggi caricaturali. Sbrigativo, persino frettoloso, non riesce a trovare l’intonazione giusta al suo gusto dell’eccesso e della deformazione.
Un aspirante giornalista americano di nome Matt, espulso ingiustamente da Harvard, decide di voltare pagina raggiungendo la sorella a Londra. Appena sbarcato nel vecchio continente, Matt si imbatterà nel proprio cugino acquisito, fratello del cognato, leader della frangia più violenta degli ultrà del West Ham United, football club londinese. Il giovane si ritroverà così catapultato in una guerra tra fazioni, vero e proprio motivo di vita per gli hooligans; accolto nella “famiglia”, ne sposerà la filosofia e non tarderà a rivestire un ruolo di rilievo tra i ranghi del gruppo. Distaccandosi per stile cine-genico dal nostro pur valido Ultrà, il titolo affronta in modo patinato ma onesto il ben noto turbine di violenza ai margini degli stadi, contestualizzando la spirale di rabbia non solo come solito sfogo a frustrazioni quotidiane, bensì come catalizzatore capace di mascherare il vuoto esistenziale in senso più ampio: si delinea così a tinte forti e in modo netto il fenomeno come un enorme Fight Club a cielo aperto, dove la componente violenta arriva ad essere completamente slegata da quella sportiva, ridotta a trascurabile pretesto. A fronte di un messaggio trasparente, stagliato su risvolti drammatici grazie al forte effetto contrasto, uno script che amalgamandosi con un discreto stile registico funziona tutto sommato anche a livello di story-telling.
Un film di Wes Anderson. Con Gene Hackman, Anjelica Huston, Ben Stiller, Gwyneth Paltrow, Luke Wilson. Titolo originale The Royal Tenenbaums. Commedia, durata 109 min. – USA 2001. MYMONETRO I Tenenbaum valutazione media: 3,86 su 31 recensioni di critica, pubblico e dizionari Royal e Etheline Tenenbaum, newyorkesi dell’upper class, hanno avuto tre figli. Tre bambini prodigio: Chas, piccolo genio della finanza inventore di topi dalmata; Richie, giovane campione di tennis; e Margot, figlia adottiva drammaturga iperdepressa. Dopo anni di separazione i tre fratelli adulti si ritrovano a fare un tuffo nel passato della grande e colorata casa d’infanzia di Archer Avenue (che tanto ricorda quella degli Amberson wellesiani) tra vecchi giochi in scatola e vinili impolverati. Tutto in questo bizzarro universo isolato dal mondo reale sembra rimasto com’era. Le camerette ospitano ancora giradischi, disegni infantili e tende da campeggio. I tre vestono ancora come una volta: tuta rossa e folto cespuglio di capelli Chas, pelliccia e occhi truccatissimi Margot, tenuta da tennista e occhiali scuri il timido Richie. Ma le loro vite sono cambiate: Chas, in seguito alla perdita della moglie, è diventato un maniaco della sicurezza sua e dei due figli; Margot, con un matrimonio infelice in corso, è altrettanto triste con il suo amante clandestino Eli Cash, vicino dei Tenenbaum con l’unico desiderio di “essere un Tenenbaum”. Richie, da sempre segretamente innamorato della sorella adottiva, si è imbarcato dopo aver perso un match decisivo proprio il giorno successivo al matrimonio di Margot. L’occasione della loro riunione è il ritorno a casa del padre Royal, forse gravemente malato, proprio nel momento in cui la sua ex moglie sta per risposarsi. Strutturato in capitoli dall’andamento descrittivo (più che narrativo) legati tra loro dall’intervento di un’eloquente voce narrante, la terza dolceamara e matura opera di Wes Anderson esalta le atmosfere eleganti, nostalgiche e surreali dei film precedenti, creando un mosaico di personaggi demodè, eccentrici e realistici allo stesso tempo. La sua grandezza è quella di riuscire, attraverso l’ironia delle sue figure stralunate, a parlarci in maniera lieve, originale e personalissima di sentimenti universali. Supportato da un appropriato universo musicale retrò (brani dei Velvet Underground, dei Beatles, di Nico e Paul Simon) e da una curatissima scenografia dai colori pop, il film, che potrebbe essere stato scritto dal Salinger di Franny & Zooey o dall’Ashby di Harold e Maude, vibra d’intensità grazie alla sentita interpretazione degli attori, qui in ruoli per loro inconsueti: dalla depressa Paltrow in versione dark, all’introverso sensibile Luke Wilson, passando per lo svanito Owen Wilson (autore insieme all’amico regista della sceneggiatura), fino ad arrivare all’immaturo e infantile padre di famiglia dandy Royal, interpretato da un intenso e stravagante Gene Hackman. A completare il quadro una galleria di personaggi “minori” che, come di consueto nel cinema “attento allo sfondo” di Wes Anderson, non sono mai marginali: dal fedele domestico Pagoda al finto medico interpretato da Seymour Cassel, volto invecchiato di quell’universo anni Settanta tanto amato dal regista.
Un film di Gianni Amelio. Con Jacques Gamblin, Catherine Sola, Maya Sansa, Denis Podalydès, Ulla Baugué. Titolo originale Le premier homme. Drammatico, durata 98 min. – Italia, Francia, Algeria 2011. – 01 Distribution uscita venerdì 20aprile 2012. MYMONETRO Il primo uomo valutazione media: 3,87 su 48 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Lo scrittore Jean Cormery torna nella sua patria d’origine, l’Algeria, per perorare la sua idea di un paese in cui musulmani e francesi possano vivere in armonia come nativi della stessa terra. Ma negli anni ’50 la questione algerina però è ben lontana dal risolversi in maniera pacifica. L’uomo approfitta del viaggio per ritrovare sua madre e rivivere la sua giovinezza in un paese difficile ma solare. Insieme a lui lo spettatore ripercorre dunque le vicende dolorose di un bambino il cui padre è morto durante la Prima Guerra Mondiale, la cui famiglia poverissima è retta da una nonna arcigna e dispotica. Gli anni ’20 sono però per il piccolo Jean il momento della formazione, delle scelte più difficili, come quella di voler continuare a studiare nonostante tutte le difficoltà. Tornato a trovare il professor Bernard, l’insegnante che lo ha aiutato e sorretto, il Cormery ormai adulto ascolta ancora una volta la frase che ha segnato la sua vita: “Ogni bambino contiene già i germi dell’uomo che diventerà”. Senza mezzi termini il miglior film di Gianni Amelio almeno dai tempi de Il ladro di bambini. Adattamento del romanzo di Albert Camus, Il primo uomo ripercorre a ritroso le vicende di un personaggio straordinario, silenzioso e deciso, che ricerca nel proprio passato anche doloroso le convinzioni che lo hanno portato ad essere ciò che è nel presente. Lo stile del regista è come sempre asciutto ed elegante, evita inutili infarcimenti estetici e si concentra sulla pulizia e sull’efficacia dell’inquadratura. Ogni primo piano su volti segnati dalla loro vicenda personale è preciso, giustificato, emozionante. In questo lo supporta alla perfezione la fotografia accurata ma mai espressionista di Yves Cape, tornato con questo lungometraggio ai livelli altissimi che gli competono. Anche la sceneggiatura alterna i piani temporali costruendo un equilibrio narrativo basato sulla vita interiore del personaggio principale, un’architettura narrativa complessa e sfaccettata che funziona a meraviglia. Poi ovviamente ci sono gli attori, tutti in stato di grazia. Jacques Gamblin possiede la malinconia e insieme il carisma necessari per sintetizzare al meglio l’anima di una figura complessa come Jean Colmery. Accanto a lui una schiera di volti che regalano dignità e verità a tutte le parti, anche le più piccole: su tutti vale la pena citare una sontuosa Catherine Sola nelle vesti della madre di Jean, interpretata in gioventù dalla brava Maya Sansa. Un’opera raffinata e umanissima, in grado di rivendicare l’importanza della memoria non solo personale ma collettiva, una memoria che deve essere adoperata come strumento d’indagine delle contraddizioni del presente. Sotto questo punto di vista quindi un film che guarda al passato per farsi attuale e necessario. Cinema di qualità estetica elevata e d’importanza civile. Da applauso.
Il signor e la Signora Fox vivono pacifici col figlioletto Ash e il nipotino Kristofferson, loro ospite, dentro un grande albero in cima alla collina che fronteggia gli stabilimenti dei più cattivi contadini della zona: Boggis, Bunce e Bean. Ma la natura selvatica del signor Fox gli impedisce di trovare soddisfazione come giornalista e lo spinge a cercare di far fessi i tre uomini e a saccheggiare i loro depositi. La vendetta è veloce e spietata e mette a repentaglio non solo la sua amata famiglia ma tutti gli animali del sottosuolo. Mr Fox dovrà elaborare dunque un nuovo e geniale piano per trarre tutti d’impaccio. Il signor Volpe, il protagonista del primo lungometraggio d’animazione di Wes Anderson, è elegante, intraprendente, selvatico. Un intelligente e vanitoso americano (la voce originale e l’ispirazione di fondo sono quelle di George Clooney) che di quando in quando parla francese e da solo è capace di rivoluzionare come nessun altro lo statico quadro della campagna inglese. Mentre la moglie dipinge, assecondando una vocazione artistica che in Anderson è spesso associata al femminile, lui incarna lo spirito dell’avventura. Stanco di vivere in un buco, noncurante del fatto che i buchi altro non sono che le abitazioni standard delle volpi come lui, si sistema in grande stile in un appartamento esagerato e in una posizione pericolosissima e tentatrice. C’è qualcosa di Mr. Ocean in Mr. Fox, ladro gentiluomo, capo della banda, e qualcosa del supereroe che non può non rispondere alla chiamata identitaria, alla missione (vedi Zissou) e dunque mascherarsi e tornare ad essere chi realmente è, un professionista del furto. A leggere idealmente il fumetto di questo supereroe è il figlio Ash, schiacciato dal mito del padre e goffamente alla ricerca della sua perenne approvazione. Come sempre nei film dell’americano, padre e figlio cresceranno insieme e non certo da soli, ma con la complicità di una famiglia allargata che li ama per quello che sono: fantastici o semplicemente piccoli, in ogni caso umanamente animali. La sceneggiatura del regista in coppia con Noah Baumbach crea quasi dal nulla -tanto è sottile il racconto di Roal Dahl-, o probabilmente giusto da uno spunto affettivo (Anderson sostiene che quello fosse il primo libro da lui mai posseduto), un universo di brulicante vitalità, intensa pittoricità ed emozionante musicalità. Ancora una volta senza sponda alcuna, che sia un genere di riferimento o una trama archetipica, l’autore segue (anche a distanza) con sincera partecipazione la fuga dei suoi personaggi verso un destino apparentemente ignoto (ad un certo punto non resta che scavare e scavare, il più velocemente possibile e senza tregua) ma di fatto puntato verso la rivendicazione del diritto alla diversità, alla libertà e alla condivisione di entrambe con i pochi amici. Che aumentano, però, strada facendo.
Un film non indispensabile. Un giovane va in Albania con un losco affarista che vuole aprire una fabbrica di calzature. Hanno bisogno di un prestanome e trovano un vecchio albanese. Ma questi fugge e il giovane lo insegue. Viaggiano insieme, ma nascono molti problemi. Oltre a essere dimenticato dal “socio”, scopre che il vecchio è in realtà un italiano. Intorno a loro un paese allo sbando che campa di stenti e guarda la televisione italiana. Prenderanno una nave che li riporta in Italia. Per certi versi migliore di Ladro di bambini ma più dispersivo. Il film, pur avendo un suo valore, soffre di alcune forzature. Vuol fare sia denuncia che poesia, non riuscendo a fonderli fino in fondo. La scena finale della nave carica di albanesi (vista e stravista in tv) rischia di essere inutile e ridondante. Placido è bravo ma scompare presto. Lo Verso non è abbastanza duttile, mentre la vera sorpresa è Piro Milkani, il vecchio. In concorso alla Mostra di Venezia.
Alarico de Marnac, nobile che vive nella Francia del XV secolo, appassionato di occultismo, è accusato di una serie di crimini orrendi, quali l’aver praticato messe nere, di mangiare carne umana e di bere sangue. Il nobile, accusato dei misfatti anche dal fratello, viene condannato ad essere decapitato cosa che avviene in una foresta, non prima che il nobile abbia maledetto i presenti e le generazioni future.
Classico horror-omnibus di stampo spagnolo ben interpretato da Paul Naschy, che pure è responsabile della sceneggiatura. Si comincia con un buon incipit medievale (chiuso con inevitabile supplizio dei condannati) per proseguire ai tempi nostri con inevitabile possessione e vendetta da parte dei discendenti i giustiziati. Ottima la regia del veterano Carlos Aured, già distintosi (all’epoca) per avere siglato l’interessante El Retorno de Walpurgis (1973), riuscendo a conferire un taglio dignitoso nonostante fosse il settimo capitolo dedicato alle gesta licantropiche di Waldemar Daninsky.
Gli scacchi del vento ( persiano : شطرنج باد , romanizzato : Shatranj-e Baad ), intitolato anche La partita a scacchi del vento , è un film iraniano del 1976 scritto e diretto da Mohammad Reza Aslani . [1] Il film fu proiettato solo una volta prima della rivoluzione iraniana del 1979 e fu accompagnato da un’accoglienza negativa. Dopo essere stato riscoperto nel 2020, il film è uscito in diversi paesi ed è stato ben accolto.
Iran, anni Venti. Alla morte della matriarca, gli eredi di una casa nobiliare si contendono l’eredità. In particolare il conflitto è tra la primogenita disabile, costretta alla sedia a rotelle, e un altro membro della famiglia che verrà ucciso dalla prima. Il suo corpo verrà nascosto in una delle grandi giare di cui è piena la dimora. [sinossi]
Dopo quasi 45 anni di oblio, Chess of the Wind (Shatranj-e Baad) è stato ora presentato, restaurato, al 34° Cinema Ritrovato, uno dei film che la manifestazione della Cineteca di Bologna mette in catalogo con il bollino del Festival di Cannes perché in realtà avrebbe dovuto essere proiettato già tra i Cannes Classics e la cancellazione del festival per l’epidemia sembra accrescere questa idea di maledizione che graverebbe sul film. Si tratta di un indiscutibile capolavoro del cinema iraniano prerivoluzionario, realizzato nel 1976 dal regista Mohammad Reza Aslani.
La storia di questa opera è essa stessa una tragedia. Il film era stato incluso nella selezione del concorso del Festival Internazionale di Teheran del 1976, ma le proiezioni furono boicottate per contrasti del regista con gli organizzatori. Così le bobine erano state mischiate alla rinfusa e venne sbagliata la velocità della prima proiezione, resa più lenta. Tali problemi si ebbero a tutte le proiezioni, da quella per i critici, che abbandonarono in massa la sala, a quella per la giuria, per cui il film fu ritirato dal concorso. Presi dallo sconforto, i produttori non mandarono l’opera ai festival internazionali, mentre i distributori interni non lo presero. Così il film non fu mai proiettato per il pubblico, né in Iran né all’estero. Risultano solo alcune proiezioni private organizzate durante il successivo festival di Teheran, cui parteciparono Henri Langlois, Roberto Rossellini, Satyajit Ray che apprezzarono molto l’opera congratulandosi con il giovane regista.
Con l’avvento della Repubblica Islamica nel 1979, Chess of the Wind fu definitivamente vietato perché ritenuto non confacente ai dettami religiosi della teocrazia. Il film circolava solo in videocassette clandestine di pessima qualità. Solo per puro caso nel 2015 il regista ritrova una pellicola del film da un rigattiere specializzato in cimeli di cinema e così oggi Chess of the Wind rinasce a nuova vita, in uno splendido restauro che ne esalta gli estetismi barocchi.
Chess of the Wind è un thriller glaciale, di respiro shakesperiano che racconta, in chiave metaforica e non, i traumi di un paese che sembra vivere nei corsi e ricorsi della storia. Il nucleo narrativo dell’occultamento del cadavere, in una giara di vetro, nascosto anche agli agenti della polizia del regime Qajar, non genera quella suspense da Cocktail per un cadavere. Il pathos del film non risiede in queste cose, anche la scena stessa dell’omicidio è totalmente priva di enfasi. Pochissimi i movimenti di macchina, c’è una panoramica a 360° e poi un movimento sulla scalinata alla fine, forse un dolly. Chess of the Wind sembra impregnato, anche in questo senso, da un ascetismo persiano, quello di un paese in cui la massima espressione artistica è rappresentata dalla poesia. Lo stesso regista è stato un poeta modernista e cubista. E nella composizione dell’immagine, torna quel gusto persiano del tappeto e della decorazione che qui ha il suo fulcro in quella grande scalinata del palazzo piena di simmetrie, con tante vie di fuga e accesso, sormontata da un grande busto. Sembra una scalinata teatrale o da melò classico.
Il film funziona anche secondo una drammaturgia della storia, nell’ottica dei cambiamenti secolari attraversati dal paese, o come una partita di scacchi rappresentata da quella scacchiera che campeggia nel salone centrale del lussuoso palazzo. È in atto una partita di scacchi, reale e metaforica, tra la primogenita della dinastia e un membro della famiglia, una partita dal ritmo lentissimo, dove le mosse si decidono nel corso di diverse giornate. Dopo l’uccisione dell’uomo sarà un agente di polizia a muovere i pezzi sulla scacchiera, senza essere visto dalla signora che si chiederà chi fosse stato, posto che il rivale al gioco è morto. Il conflitto tra i due riprende quello in atto nella società persiana uscita dalla Rivoluzione costituzionale, quello tra la modernità e la parità dei diritti di genere, sempre comunque nell’ambito delle élite aristocratiche, e le forze ancorate alla tradizione religiosa, rappresentate dall’uomo che viene ucciso. Un conflitto che sembra perenne nella storia del paese. Il popolo è rappresentato dagli inserti delle lavandaie che commentano i fatti di palazzo, come un coro greco o come le serve di un film di Cukor.
Chess of the Wind è suddiviso in due parti, la prima ambientata tra il 1915 e il 1920, la seconda nel 1924. Una suddivisione non dichiarata ma comprensibile da un riferimento, quello al servizio militare fatto durante i momenti delle lavandaie, che in Iran è attivo dal 1924. Sono tante le citazioni alle vicende di quell’epoca calda e ai suoi protagonisti, come quella al giornalista e poeta Mohtaram Eskandari, grande sostenitore della causa femminista, che venne ucciso, che viene evocato in una sequenza onirica. Due personaggi parlano dell’importanza di avere un inquilino inglese, richiamando così alla potenza britannica che all’epoca dominava su quello scacchiere. Non c’è dubbio che Mohammad Reza Aslani voleva parlare, in forma translata, anche della società iraniana dei suoi tempi, con quelle tensioni sociali che avrebbero portato alla rivoluzione del 1979. E il segnale in questo senso è rappresentato dall’ultima inquadratura del film, la prima fuori dal palazzo, una panoramica che da quella dimora si allarga a riprendere la città dall’alto, dove predominano le architetture moderne e si odono i salmi dei muezzin. Da un lato un retaggio di quella mistica persiana antica del filosofo Sohravardi, che scardina l’idea del tempo come lineare, da un altro lato un messaggio politico ben preciso.
E il film si rivela involontariamente profetico, con la scena alla fine della distruzione del grande ritratto, che campeggiava nella dimora, del capostipite della famiglia. Un’immagine di iconoclastia che anticipa quelle divenute simbolo della rivoluzione di tre anni dopo, dei ritratti distrutti e bruciati dello scià Reza Pahlavi.
Ho tradotto i subeng con google e li ho aggiunti, potrebbero esserci delle imprecisioni nella traduzione.
Malik El Djebena ha 19 anni quando viene condannato a sei anni di prigione. Entra con poco o nulla, una banconota ripiegata su se stessa e dei vestiti troppo usurati, che a detta delle guardie non vale la pena di conservare. Quando esce ha un impero e tre macchine pronte a scortare i suoi primi passi. In mezzo c’è il carcere, la protezione offertagli da un mafioso corso, l’omicidio come rito d’iniziazione, l’ampliarsi delle conoscenze e dei traffici, le incursioni in permesso fuori dal carcere, dove gli affari prendono velocità. Ciò avviene all’interno di una prigione, il cinema lo ha già raccontato altrove meglio che qui, per non parlare di come nasce un padrino. Quello che fa Audiard, nel suo film, è prendere il genere per mostrarsi infedele, instaurare con esso un doppio gioco, come fa Malik con il boss corso, stare apparentemente nelle regole ma prendersi la libertà di raccontare anche molto altro. Malik è uno che apprende in fretta. Impara ad uccidere ma, dallo stesso crimine, impara anche che nel carcere c’è una scuola dove possono insegnargli a leggere e a scrivere. Dalla scuola apprende un metodo, grazie al quale impara da autodidatta il dialetto franco-italiano della Corsica: di fatto si procura un’arma, che obbliga il capo a tener conto di lui. Dagli arabi impara a capire cosa vogliono, dai Marsigliesi impara a trattare, da un amico, forse, imparerà a voler bene. I compagni di galera prendono a definirlo un profeta, perché lui è quello che parla, con gli uni e con gli altri, quello che porta i messaggi dentro e fuori, che conosce la gente che può far comodo negli affari. Egli fa grandi cose, insomma; la sua via è tracciata come quella di chi ha una missione. Ancora una storia che ruota nell’universo tanto umano quanto traditore della comunicazione, dunque, dopo quella in cui Vincent Cassel leggeva dalle labbra e quella in cui Romain Duris si affidava alle note. Qui le lingue sono almeno tre, ma è quella silenziosa del sangue che sigla gli accordi, e il potere, in questo codice, è inversamente proporzionale al numero di parole che richiede. La critica di Audiard alla mala educazione del sistema carcerario è evidente, talvolta aspra, talvolta sarcastica (le uscite per “buona condotta”), ma non è tramite la parola che si esprime: la sua lingua è quella della regia, di cui è interprete sicuro e abile. Quello che propone allo spettatore, qui come in tutte le sue opere, è l’immersione completa nel mondo che racconta, la sospensione del pre-giudizio, lo spettacolo della complessità di un personaggio maschile. La pretesa questa volta, però, va oltre l’offerta: nonostante l’ottimo Tahar Rahim, protagonista, Un prophète si dilata oltremodo, prova qualche artificio ma non fino in fondo, sfiora emozioni interessanti che abbandona troppo in fretta, si lascia imprigionare dalla materia che vorrebbe liberare. Un film più maturo dei precedenti, ma meno comunicativo.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.