Woody Allen è del 1935 e la sua formazione, oltre che da libri, musica e generica comunicazione newyorkese, è dovuta in gran parte alla radio. Almeno è ciò che lascia intendere con questo film. Adolescente negli anni del dopoguerra ha vissuto la sindrome della radio, allora del tutto simile a quella della televisione, nel nostro tempo. C’erano le novelas, i quiz, i giornali, proprio come adesso. In più c’era lo sforzo attivo della fantasia che doveva dare forma a ciò che veniva suggerito dall’udito. Davvero bei tempi, e Allen si rivela onesto e nostalgico. Lui non appare nel film, racconta soltanto fuori campo. Ecco dunque i personaggi della sua vita reale, in quella New York, intrecciarsi con quelli suggeriti dalla radio. Ci sono i parenti che concorrono a tutti i quiz radiofonici, quelli che non perdono una puntata, quelli che consumano tutti i prodotti suggeriti dalla pubblicità. Allen, grande ammiratore di Fellini, ha dunque realizzato il suo Amarcord. Il punto d’arrivo è la prima serata al Radio Music Hall, al quale Allen partecipò come scrittore di testi comici. E fu l’inizio… Va detto che in questo caso gran parte del merito va a Oreste Lionello, il doppiatore di Woody, che regge quasi da solo tutto il film come voce narrante.
1886: dopo la resa di Geronimo e dei suoi guerrieri, il giovane Massai continua da solo la lotta finché si rassegna a trasformarsi in contadino e a sposarsi. Il 1° dei 6 western di Aldrich e, forse, il più bello, certamente il più vigoroso, quello in cui il discorso filoindiano è più esplicito. Ricco di invenzioni, con un Lancaster solido come una roccia. Una delle più belle e significative carrellate del cinema hollywoodiano. Finale imposto dalla produzione, cioè da Lancaster: Aldrich lo voleva meno ottimista. Buchinsky è Bronson.
La porta sul buio è una miniserie televisivaantologica formata da quattro episodi gialli di circa un’ora, curati e prodotti da Dario Argento e trasmessi dalla RAI per quattro settimane nel settembre 1973 sul Programma Nazionale (l’odierna Rai 1).Ogni episodio viene presentato da Dario Argento, che firmò la regia del secondo episodio con lo pseudonimo Sirio Bernadotte e subentrò a Roberto Pariante nella regia del quarto. Reduce dai successi dei primi tre film, Dario Argento cura e produce per la RAI una serie di quattro mediometraggi della durata di circa un’ora ciascuno. Oltre a presentare ogni episodio, il regista ne dirige personalmente uno, Il tram, subentrando inoltre a Roberto Pariante nella direzione di Testimone oculare, mentre gli altri due film sono affidati a Luigi Cozzi, collaboratore di Argento, e a Mario Foglietti. Si trattava di un team già collaudato, in quanto in Quattro mosche di velluto grigio Pariante era stato aiuto regista di Argento e Cozzi assistente alla regia e coautore del soggetto con Foglietti ed Argento.Fondamentale apporto alla confezione della serie fu dato dalle musiche, opera di Giorgio Gaslini, pianista e compositore jazz. La serie fu trasmessa dal primo canale in prima serata, ma, non essendo i telespettatori dell’epoca avvezzi a scene “forti” in televisione, Argento e colleghi dovettero contenersi nella rappresentazione di scene cruente e di terrore, come fino ad allora il regista aveva abituato le platee cinematografiche. Non per questo gli autori delle quattro storie rinunciarono ad imbastire delle trame dalle tinte fosche, atmosfere stranianti e con una sufficiente dose di suspense. Argento in particolare cercò di trasferire in queste brevi storie le sue idee, già proposte sul grande schermo, rappresentando la mini serie un’occasione per il regista di sperimentare nuove tecniche di ripresa e di esplorare nuovi linguaggi cinematografici adatti al thriller.
Vi sono sei film sulla serie Resident Evil, scritti da Paul W. S. Anderson, anche se inizialmente il regista di film horror George A. Romero è stato molto vicino a dirigere i film.[53]
A dispetto della critica negativa, i film hanno incassato abbastanza da incoraggiare l’approvazione di una esalogia. Paul W.S. Anderson aveva dichiarato in un’intervista che il quarto film, Resident Evil: Afterlife, sarebbe stato l’inizio di una nuova trilogia e che il film sarebbe stato sviluppato usando cineprese 3D.[54]
La trama dei film rivisita quella del videogioco, risultando dunque non canonica a quella originale.
Nel 2021 iniziano le riprese del reboot della serie. Il film si distingue notevolmente dalla saga cinematografica originale, ha per protagonisti i personaggi principali del franchise e conta su una forte componente horror. Il film è ambientato a Raccoon City e prende spunto dai primi due capitoli della saga videoludica
Nina è una ballerina del New York City Ballet che sogna il ruolo della vita e un amore che spezzi l’incantesimo di un’adolescenza mai finita. Incalzata da una madre frustrata, si sottopone a un allenamento estenuante sotto lo sguardo esigente di Thomas Leroy. Coreografo appassionato e deciso a farne una fulgida stella, Leroy le assegna la parte della protagonista nella sua versione rinnovata del “Lago dei cigni”. Sul palcoscenico Nina sarà Odette, principessa trasformata in cigno dal sortilegio del mago Rothbard, da cui potrà scioglierla soltanto il giuramento di un eterno amore.
Un pistolero entra casualmente in possesso di un’ingente somma di denaro. Un suo rivale vuole portargliela via con l’aiuto di un banchiere disonesto, ma, quando si accorge che l’uomo manovra per eliminare anche lui….
Ex insegnante che s’è dedicato al mestiere del padre e del nonno, l’apicultore Spiros (Mastroianni) mette le sue arnie su un camion all’inizio della primavera e parte dall’Epiro verso il Sud. Dopo l’incontro con una disinibita ragazza vagabonda (Mourouzi), arrivato alla fine del viaggio nel Peloponneso, si dà la morte per mezzo delle sue api. In questo 7° film sul silenzio della Storia, dell’amore e di Dio – ancora appoggiata all’inquadratura-sequenza, fonte della liturgica lentezza del suo narrare per immagini – la tensione stilistica s’incrina e s’inclina talvolta verso la maniera, ma conta almeno 3 sequenze memorabili: la festa nuziale, l’incontro con un amico malato (Reggiani), la struggente scena a tre sulla spiaggia. Scritto con Dimitris Nollas e Tonino Guerra, fotografato da Yorgos Arvanitis, poco parlato, ha una bellezza visiva che è la sostanza stessa del racconto. Mastroianni? Sembra che non faccia nulla, ma è grande.
Un anziano muore d’infarto mentre stappa una bottiglia; un’attempata insegnante di flamenco tocca il suo giovane allievo che la rifiuta; una taverniera zoppa offre da bere a giovani squattrinati per un bacio; in un bar irrompono soldati del ‘700 e il re Carlo XII (1682-1718) che si invaghisce del barista; militari inglesi del primo ‘900 ustionano vivi schiavi africani in un cilindro metallico che trasforma le loro urla in musica sublime per ricchi bianchi. Sono alcuni di 39 tableaux vivants , ognuno un piano-sequenza, a volte parzialmente intersecati. 5° lungo del regista svedese, il 1° in digitale, con Canzoni del secondo piano (2000) e You, the Living – Gioisci dunque o vivente! (2007) completa un trittico sull’esistenza umana che ha la forma di un puzzle. È un film pittorico, ispirato a Otto Dix (1891-1969) e Georg Scholz (1890-1945), che comunica, più che con le parole – ridotte a tormentoni di luoghi comuni -, attraverso immagini impeccabili, tutte in toni diversi, ma ugualmente spenti, di beige-verde (fotografia di István Borbás e Gergely Pálos), al fine di indurre contemplazione e riflessione. Lo fa col tocco leggero dell’ironia, fondendo tragico e comico, tanto da suscitare la smorfia e il sorriso allo stesso tempo. Andersson chiama la sua poetica “trivialismo”, o anche “super-realismo”, perché per lui l’essenza dell’uomo sta nella coscienza della propria banalità. La sua è una poetica dell’umiltà e del distacco ironico contro ogni superomismo e ogni fanatismo. Le si attaglia una sentenza di Pascal: “L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma è una canna che pensa”. Leone d’oro a Venezia 2014. Distribuisce Lucky Red.
Jean de Carrouges e Jacques Le Gris sono eterni rivali. Scudieri normanni con alterne fortune, affrontano la vita come il campo di battaglia. Jean de Carrouges crede nella spada e nell’onore, Jacques Le Gris nell’astuzia e nella fedeltà a chi fa i suoi interessi. Se il primo è abile sul campo, il secondo è scaltro a corte dove si guadagna la simpatia e la protezione di Pierre d’Alençon, conte e cugino del re Carlo VI. Ma più della competizione per i feudi può la bellezza di Marguerite de Thibouville. Sposa con dote di de Carrouges, Marguerite diventa l’ossessione di Le Gris, che approfitta dell’assenza del rivale per rivelarle tutta la meschinità dei suoi sentimenti.
A Ravenna, ridotta a deserto industriale, una giovane borghese nevrotica, moglie di un ingegnere, cerca vanamente un equilibrio. 9° film di Antonioni, e il suo primo a colori, in funzione soggettiva (fotografia di Carlo Di Palma, Nastro d’argento) come espressione di una realtà dissociata e con ambizione di trasformarlo esso stesso in racconto come “mito della sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose”. Come nei 3 precedenti film con Monica Vitti, la donna è l’antenna più sensibile di una nevrosi comune nel contesto della società dei consumi e della natura inquinata. Leone d’oro a Venezia.
Dheepan deve fuggire dalla guerra civile dello Sri Lanka e per farlo si associa con una donna e una bambina. I tre si fingono una famiglia e riescono così a scappare e rifugiarsi nella periferia di Parigi. Anche se non parlano francese nè hanno contatti. Trovati due lavori molto semplici (guardiano tuttofare e badante) i due scopriranno la vita da periferia, le bande e le regole criminali che vigono nel posto che abitano. Quando arriverà inevitabile lo scoppio della violenza e degli spari occorrerà prendere una decisione, se rimanere insieme o separarsi. Qualsiasi storia nel cinema di Audiard per raggiungere il paradiso del sentimentalismo, quella punta emotiva che suscita nello spettatore l’irrazionale sensazione di partecipazione alle vicende dei personaggi, deve passare per l’inferno della violenza. Come se le due forze fossero inscindibili nei suoi film si attraggono a vicenda: gli atti violenti o criminali chiamano amore e ogni amore per concretizzarsi prima o poi richiede di essere legittimato dalla violenza, altrimenti sembra non poter essere davvero tale. Destinato a mettere a confronto e a sovrapporre questi due estremi, questa volta Audiard decide di eliminare ancora più del suo solito il primo livello di comunicazione. I protagonisti di Dheepan fanno molta fatica a parlarsi, non solo spesso non si capiscono per problemi di lingua ma anche quando parlano lo stesso idioma è come se non riuscissero ad essere chiari gli uni con gli altri. In un cinema in cui l’unica legge che conta è quella dei corpi, strusciati o impattati, non sarà mai con le parole che si potrà risolvere qualcosa, in storie in cui l’unica verità è quella espressa dagli istinti non è con il ragionamento che si può cambiare la propria vita. I protagonisti di Dheepan hanno solo i fatti e le azioni per spiegarsi ma per Audiard bastano e avanzano. Il regista non teme di scrivere una scena di dialogo, forse la più bella ed intensa del film, tra due persone che parlano ognuno una lingua che l’altro non conosce, eppure sembrano stranamente sulla stessa lunghezza d’onda. Si tratta forse dell’unico momento nel film in cui si intravede un lampo della capacità quasi ottocentesca che quest’autore ha di raccontare gli uomini attraverso lo stordimento. Questa volta la riluttanza con cui il protagonista cerca di non farsi trascinare in un mare di efferatezza e di scegliere di costruire il suo opposto con una donna sembra però meno potente del solito. Coadiuvato da due interpreti decisamente meno abili e virtuosi di quelli cui Audiard ci ha abituato e caratterizzati con molta meno umanità del solito, il suo ultimo film appare come il più lieve, quello che con più difficoltà riesce ad accendere un fuoco sfregando i legnetti del suo arsenale. Dall’altra parte però Dheepan involontariamente conferma cosa sia ad attirarci verso questa storia e questo stile di racconto, anche quando meno riuscito. Si tratta della continua esistenza di un rumore di fondo tetro, la netta sensazione che in ogni momento emotivo esista una sottile paura della morte, la consapevolezza che tutta la passione mostrata possa prendere la strada del sangue come quella dell’amplesso e forse non esiste differenza. Del resto nell’inferno del palazzone grigio e indifferente in cui si svolge il film si consumano sparatorie e guerre fra bande nelle quali striscia la possibilità di tramutare una famiglia finta in famiglia vera. L’ultima possibile eredità del cuore pulsante del noir (inseguire un amore nei luoghi e nelle situazioni che rendono più difficile rimanere vivi) è forse davvero questa.
Alexandros, un poeta ed intellettuale greco in età avanzata, è pronto a lasciare la casa sul mare di Salonicco dove ha sempre vissuto, per affrontare un ricovero, forse addirittura definitivo, in ospedale.
Ritrovata per caso una lettera della moglie Anna in cui descrive un giorno d’estate di trent’anni prima, Alexandros comprende di essere giunto a un punto di svolta della propria vita e, complice l’incontro con un bambino albanese immigrato clandestinamente, comincia un viaggio senza meta, unicamente per raccogliere – e far quadrare – sentimenti e suggestioni del passato con la malinconia del tempo presente.
Potrebbere un vhsrip ma non sono sicuro e tra l’altro è l’unica versione che ho trovato.
Una giovane coppia giunge a Manhattan per un weekend di lavoro. Lei è un’ingenua giornalista che deve intervistare un celebre regista, lui un attore che vuole approfittare delle riprese di un film per vivere nuove avventure. Toccherà per prima alla ragazza resistere alla tentazione del tradimento, sedotta dal suo maturo interlocutore, mentre per il compagno il set si rivelerà un succedersi di frustrazioni sentimentali. E intanto la pioggia cade e rende più facile scordare le promesse…
A Vancouver una donna nubile e sola dà ospitalità a un giovane vagabondo e lo rende suo prigioniero. Un giorno gli procura una prostituta, ma poi è assalita dalla gelosia. 4° film di Altman – tratto dal romanzo di Peter Miles, che qui si firma Richard – occupa, insieme a Images (1972), un posto particolare nell’itinerario del regista come riflessione, di taglio psicanalitico, sulla follia, lo sdoppiamento allucinatorio, i fantasmi del desiderio. In TV circola la copia di 103 minuti.
Il signor e la Signora Fox vivono pacifici col figlioletto Ash e il nipotino Kristofferson, loro ospite, dentro un grande albero in cima alla collina che fronteggia gli stabilimenti dei più cattivi contadini della zona: Boggis, Bunce e Bean. Ma la natura selvatica del signor Fox gli impedisce di trovare soddisfazione come giornalista e lo spinge a cercare di far fessi i tre uomini e a saccheggiare i loro depositi. La vendetta è veloce e spietata e mette a repentaglio non solo la sua amata famiglia ma tutti gli animali del sottosuolo. Mr Fox dovrà elaborare dunque un nuovo e geniale piano per trarre tutti d’impaccio.
Si può essere divertenti, raccontando di un cinquantenne che sta morendo di un tumore incurabile e decide di andarsene serenamente con l’eutanasia, circondato dall’affetto di parenti e amici? Quasi vent’anni dopo Il declino dell’impero americano (1986), campione d’incassi in Canada, di cui è l’ideale continuazione e riprende alcuni personaggi/attori, il franco-canadese Arcand ci è riuscito: diverte senza cadere nel cinismo e commuove senza cedere al facile sentimentalismo. Disinvolto maestro del cinema di conversazione, abbozza, in questo film double-face con ironia anche autoironica, un altro bilancio del declino dell’Occidente americanizzato dove l’umanità si dividerà tra cittadini col passaporto USA ed estranei non residenti: europei, latini del Sud, asiatici, africani. Sono loro i nuovi barbari invasori. Il bilancio passa in rassegna il neoliberismo rampante, la fine delle ideologie (di sinistra), l’agonia della cultura sgretolata dalla società dei consumi e del profitto, la morte di Dio (iniziata nel 1966 per il Quebec cattolico). Col protagonista morente Rémy, docente di storia che si definisce socialista edonista e lussurioso, esce di scena una generazione. Apocalittico con la sordina, Arcand dice di detestare la costante accelerazione della vita e il ronzio dei media e di amare i dialoghi e gli attori. Lo dimostra con un’intelligenza venata di autoindulgenza compiaciuta. Premi a Cannes 2003: sceneggiatura e migliore attrice (Croze). Oscar per il miglior film straniero.
Dal romanzo di Martin Andersen Nexo. Alla fine del diciannovesimo secolo, un contadino svedese, vedovo e poverissimo, si trasferisce in Danimarca con il figlio di nove anni. Trovano lavoro come stallieri in una fattoria retta da un dispotico capoccia. Ma un giorno il piccolo Pelle se ne andrà in America.
Jean-Jacques Annaud, il regista de Il nome della rosa, si fece clamorosamente notare alla metà degli anni Settanta, con questo denso, beffardo apologo sul colonialismo francese (che ottenne l’Oscar 1978 per il miglior film straniero). Protagonisti sono i militari di una piccola guarnigione, che allo scoppio della prima guerra mondiale devono dar battaglia ai soldati tedeschi divenuti improvvisamente nemici.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Nel 1931 a New York la figlia di un multimilionario viene rapita dalla famiglia Grissom. Uno di loro la vuole per sé. Dal romanzo (1939) di James Hadley Chase Niente orchidee per Miss Blandish , già filmato pessimamente nel 1948 in Inghilterra. Storia di una Bella e una Bestia, entrambe colpevoli in un’America della Depressione dove la violenza dei miserabili non è superiore a quella dei ricchi: miseria, violenza, prostrazione fisica e mentale sono palpabili. Quello di Aldrich è un cinema di antieroi.
Freddie Quell è un soldato uscito dalla Seconda Guerra Mondiale con il sistema nervoso a pezzi. A poco servono le cure che l’esercito gli offre, se non a rendere esplicita un’ossessione per il sesso. A ciò si aggiunge un forte interesse per l’alcol che si traduce in misture che lui stesso si prepara e che offre agli altri con esiti non sempre positivi. Finché un giorno, in modo del tutto casuale, Freddie incontra Lancaster Dodd. Costui ha inventato un metodo di introspezione che sperimenta sul disturbato Marine, il quale sembra trarne giovamento. Da quel momento ha inizio un sodalizio che li vedrà percorrere insieme un lungo tratto di strada. Anche se il loro viaggio finirà con l’offrire loro esiti assolutamente diversi. Il film che è stato forse il più atteso alla 69^ Mostra Internazionale del Cinema di Venezia si rivela perfettamente in linea con l’autorialità di un regista che ha sempre cercato di scrutare il lato oscuro della psiche e dei comportamenti umani senza alcuna intenzione di scandalizzare ma con il desiderio di fare molto di più: cercare cioè di comprenderne le ragioni. Potremmo dire che queste si traducono nel suo cinema con un solo termine: solitudine. Soli, profondamente soli erano i protagonisti di Magnolia nel loro tentativo di sfuggire alle piaghe che spesso si erano inferti da soli. Solo era Il petroliere, bruciato dalle fiamme dei pozzi in cui scorre l’oro nero delle coscienze asservite al Dio Denaro. Soli sono Freddie e Lancaster. Il primo alla ricerca di donne di sabbia che plachino la sua sete sessuale ma anche inconsciamente desideroso di incanalare la propria violenza in forme socialmente accettabili. Il secondo, dotato di un potere di fascinazione su uomini e donne bisognosi di ‘credere’ a vite passate e pronti ad immergersi in dinamiche ipnotiche che li facciano sfuggire a un presente difficile da controllare. Il tutto, da una parte e dall’altra, in un dominio in cui la razionalità non possa infiltrarsi; pena il crollo del castello di illusioni. L’ispirazione a Hubbard, il fondatore di Dianetics, è esplicita ed innegabile ma Paul Thomas Anderson è abilissimo, ancora una volta, nello spiazzare lo spettatore. Chi si aspettava un pamphlet cinematografico sulla capacità di irretire e depredare economicamente gli adepti alla setta, non lasciando loro quasi nessuno spiraglio di fuga, si trova di fronte a tutt’altro. Freddie e Lancaster sono due uomini (perfetta la scelta di Phoenix e Hoffman) che si confrontano mettendo in gioco tutti i loro comportamenti devianti. La differenza tra di loro sta nel modo in cui riescono a gestirli. Alla fine del film si ripensa allo spazio angusto in cui i due si erano incontrati la prima volta mettendolo a confronto con quello in cui finiscono con il ritrovarsi uniti e al contempo divisi più che mai e ci si accorge che in quelle due location si sintetizza il senso di un’opera che sa andare oltre la contingenza della setta miliardaria. L’ultima inquadratura poi riapre il film e chiude l’analisi di una psiche.
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