Una bellissima nera ospite di una coppia durante un viaggio in Africa non si fa scrupoli di offrirsi a chi più le aggrada. Sta per innamorarsi del suo anfitrione, ma gli preferisce la libertà.
A Blackeberg, quartiere degradato alla periferia ovest di Stoccolma, il ritrovamento del cadavere completamente dissanguato di un ragazzo segna l’inizio di una lunga scia di morte. Sembrerebbe trattarsi di omicidi rituali, ma anche c’è anche chi pensa all’opera di un serial killer.Mentre nel quartiere si diffonde la paura, il dodicenne Oskar, affascinato dalle imprese dell’assassino, gioisce segretamente sperando che sia finalmente giunta l’ora della rivalsa nei confronti dei bulletti che ogni giorno lo tormentano a scuola. Ma non è l’unica novità nella sua vita, perchè Oskar ha finalmente un’amica, una coetanea che si è appena trasferita nel quartiere. Presto i due ragazzini diventano più che semplici amici. Ma c’è qualcosa di strano in Eli, dal viso smunto, i capelli scuri e i grani occhi. Emana uno strano odore, non ha mai freddo, se salta sembra volare e, soprattutto, esce di casa soltanto la notte…
3 episodi: in Francia giovani studenti compiono un delitto gratuito; in Italia un ragazzo ricco e annoiato si unisce a un gruppo di contrabbandieri e rimane vittima di una retata; in Inghilterra un giovane paranoico commette un delitto perfetto perché senza movente. Antonioni tocca con concretezza il problema della gioventù deviante nei cui crimini si coagulano moventi oscuri e assurdi, peculiari di un clima sociale, ben resi soprattutto nella fusione di humour nero e sotterraneo sadismo dell’episodio inglese. Tartassato dalla censura, l’episodio italiano non è giudicabile.
Alexandros, un poeta ed intellettuale greco in età avanzata, è pronto a lasciare la casa sul mare di Salonicco dove ha sempre vissuto, per affrontare un ricovero, forse addirittura definitivo, in ospedale.
Ritrovata per caso una lettera della moglie Anna in cui descrive un giorno d’estate di trent’anni prima, Alexandros comprende di essere giunto a un punto di svolta della propria vita e, complice l’incontro con un bambino albanese immigrato clandestinamente, comincia un viaggio senza meta, unicamente per raccogliere – e far quadrare – sentimenti e suggestioni del passato con la malinconia del tempo presente.
Danimarca, seconda metà del XVIII secolo. Il re 17enne Christian VII sposa la cugina Carolina Matilde, sorella di Giorgio III. Il giovane monarca ha problemi di ordine psicologico (e sessuale) e il vero potere è appannaggio dei conservatori del Consiglio di corte. Arriva Johann Friedrich Struensee, medico personale del re e convinto assertore dei valori dell’Illuminismo, lassù assolutamente invisi. Da un lato aiuta il re a trovare maggiore equilibrio ma dall’altro lo influenza, diventando il reggente e intrecciando una relazione con la trascurata regina. Ritratto storicamente accurato e spettacolarmente avvincente che non riesce a catturare l’attenzione del pubblico italiano. Racconta un momento della storia danese conosciuto solo in patria. Nominato miglior film straniero agli Oscar e al Golden Globe, premiato al Festival di Berlino per la miglior sceneggiatura e il miglior attore (Følsgaard). Distribuito da Academy 2.
In piena preistoria due tribù si contendono il segreto del fuoco, che può conferire la superiorità all’una o all’altra. La sopravvivenza è messa in pericolo dagli elementi, dalle fiere, dai nemici, ma l’istinto e la primitiva intelligenza avranno la meglio. Film ambizioso, splendidamente fotografato, nel quale Annaud sfugge abilmente alle trappole (il ridicolo innanzitutto) che una tale ambientazione poteva creare.
Allontanato dal nucleo famigliare in seguito ad episodi di violenza e stalking, Lucio Melillo, di professione guardia giurata, non riesce a sopportare la mancanza della figlia Adele e della moglie Nadia, che nel frattempo ha stretto un legame sentimentale con il proprio analista. I turni di lavoro, l’amicizia con il collega Vincenzo e la frequentazione di una giovane prostituta non lo aiuteranno certo a mettere ordine in un’esistenza che subirà l’ennesimo colpo durante l’udienza per l’affidamento della bambina: privato di qualsiasi diritto di padre, l’uomo sceglierà una drastica via d’uscita. Quasi venti minuti senza dialogo aprono l’opera seconda di Giorgio Amato, un lungo ed spiazzante brano necessario ad inquadrare il protagonista di una storia che si muove tra racconto di una patologia e dramma esistenziale, accenti thriller e una deriva da “film di rapina” dal tocco un po’ americano. Come per il precedente lavoro, Circuito chiuso, la produzione resta indipendente, ma lo sguardo dimostra di aver fatto un grande passo in avanti, di essersi affilato, guadagnando non poco in perspicacia descrittiva. Meglio che sulla progressione narrativa, peraltro vispa e senza punti di stanca, il regista concentra, infatti, la propria attenzione sull’ambivalenza del suo personaggio: si pensi a quelle esplosioni di violenza che si dissolvono nei momenti in cui compare il personaggio della figlia Adele, quasi fosse un catalizzatore di buone vibrazioni per chi è sempre sul punto di esplodere. Perché ogni cosa qui, dalla precisa recitazione di Victor Altieri ai più minuti particolari scenografici (i manifesti di Mussolini o della bandiera italiana con il fascio), tende invero a restituire, in tutta la loro complessità, le contraddizioni di un uomo oltremodo vivo, vero e perso nella sua stessa ossessione. Ritratto di una mania di possesso che crea disagio, distanzia e, insieme, commuove, questo film ben fatto si sviluppa, in essenza, per ripetizioni dei medesimi quadri e situazioni (l’appartamento, la scuola, il caveau, il bar), come se volesse suggerire l’ordinarietà della patologia di Lucio e del dramma vissuto da una famiglia come molte altre. Sottilmente quando non apertamente spaventoso, le visite notturne in casa della moglie, The Stalker raggiunge un suo rigore stilistico, una precisione di descrizione che neanche l’eccessivo e fastidioso uso della macchina a mano riesce a smorzare. Nel ruolo dell’analista recita lo stesso Giorgio Amato.
Sopravvissuti due volte. Alla vita di prima, piena di scheletri nell’armadio, e a quella sull’isola, ancor più pericolosa e sul filo del rasoio. Due volte perduti: caduti dalla pentola nella brace. Quello che succede ai passeggeri del volo 815 della Oceanic Airlines con rotta da Sidney a Los Angeles travalica l’incidente aereo e diventa un caso “ai confini della realtà”. Su quale isola del Pacifico del sud sono precipitati i 48 sopravvissuti del disastro? Che razza di creatura è quella che ha dilaniato in un sol colpo il copilota dell’aereo intrappolato ancora vivo nella cabina di pilotaggio finita in cima agli alberi? Come fa un orso polare a trovarsi su un atollo tropicale? Che cosa nasconde il messaggio che si ascolta una volta riattivata la radio, proveniente dall’isola e sempre lo stesso da 16 anni? Ma soprattutto: chi diavolo sono e che cosa nascondono gli scampati alla tragedia?
Mahmud Nasir è un musulmano che vive a Londra con la moglie e i due figli. Pur essendo intimamente devoto non è un praticante impeccabile, cede ai piaceri dell’alcool, a un linguaggio colorito e salta buona parte delle preghiere obbligatorie ma, in previsione del matrimonio del figlio più grande con la figliastra di un leader integralista, si prepara a dimostrarsi un vero musulmano, per ottenere la benedizione del futuro consuocero e far felice la sua famiglia. Peccato però che, proprio negli stessi giorni, Mahmud scopra per caso di essere stato adottato e, soprattutto, di essere nato ebreo, sotto il nome di Solly Shimshillewitz.
Il Natale dovrebbe essere un giorno di festa da passare coi propri cari, come è sempre stato negli ultimi vent’anni, per la famiglia Harrington, ma quest’anno qualcosa cambierà… In viaggio con la famiglia per raggiungere la suocera, Frank Harrington decide di prendere una scorciatoia. L’incubo inizia. Una misteriosa donna in bianco vaga nel bosco, lasciando un alone di terrore al suo passaggio. Una strana auto scura, con un conducente invisibile, porta gli Harrington in una spirale di morte e follia verso una inquietante destinazione…
Dalla Bologna clericale del 1750, dopo aver ingravidato una ragazza, inducendola ad abortire, il seminarista Giacomo si rifugia sull’Appennino umbro nella rocca di un monsignore sospeso a divinis per i suoi studi esoterici. Il soggiorno diventa una lotta contro un Maligno di mutevoli sembianze. Horror italico, thriller cattolico, film di genere a basso costo con regia d’autore in cui i paesaggi appenninici contano come e più che i personaggi, resi con una recitazione regionale ruvida e accentata cui contribuisce il geniale ed eccessivo C. Cecchi. Funzionale fotografia di Cesare Bastelli con qualche effetto di troppo.
Dopo La cena per farli conoscere (2007) e Il papà di Giovanna (2008), Avati chiude la trilogia sulla figura paterna. Inadempiente il 1°, troppo presente il 2°, il cinico immobiliarista Luciano Baietti è il peggiore dei 3. Torna a Bologna dopo 16 anni per intestare la sua società sull’orlo del tracollo a Baldo, il figlio minore. Nel firmare la sua 40ª regia in meno di 40 anni, Avati ha fatto una commedia di denuncia, uno dei suoi film più impietosi sull’Italia del 2000. Non mancano forzature nel disegno dei personaggi principali: la Fiamma della Morante è troppo scemetta; il Luciano di De Sica troppo mascalzone; il Sergio di Zingaretti troppo anima nera “alla Iago”. Più che immorali, questi personaggi sono amorali: appartengono a una generazione cresciuta nel culto della furbizia, fanno porcate, ma, in un certo senso, non sanno di farle. Tenuto a briglia corta, De Sica è bravo quanto la Morante in un ruolo per lei insolito e il giovane Nocella se la cava. Ma il meglio fico del bigoncio è Zingaretti, proprio perché recita sotto le righe. Coprodotto da DUEA e Medusa che distribuisce.
La carriera di Avati somiglia a quella di W. Allen: dopo un quinquennio inattivo all’inizio, ha una media di un film all’anno, più 4 serie TV. Il 32° è il suo 4° thriller gotico, il più notturno. Tremendo prologo nel 1957, l’azione si svolge mezzo secolo dopo a Davenport (Iowa) nella stessa grande, isolata casa dei delitti che, uscita da clinica psichiatrica, una vedova italoamericana affitta per farne un ristorante, trovandosi alle prese con i fantasmi del passato: rumori, voci, pareti mobili, cunicoli segreti. Nessuno le crede. Lei stessa teme di essere vittima di allucinazioni. Operazione poco riuscita. Per difenderla bisognerebbe limitarsi alla bella prova della Morante (al suo 46° film). Scritto da Avati solo, costato 5 milioni di euro alla DueA in coproduzione con Rai Cinema. In piccole parti gli italiani Angela Goodwin, Venantino Venantini, Angela Pagano, Francesco Carnelutti. Poco funzionali gli interpreti angloamericani.
Maria Enders è un’attrice quarantenne con una carriera di tutto rispetto che ha debuttato al cinema a 18 anni nel ruolo di Sigrid, una ragazza ambiziosa che fa innamorare di sè una donna matura, Helena, e l’abbandona una volta ottenuto cio’ che vuole. Vent’anni dopo quel debutto, un regista emergente propone a Maria di reinterpretare quella stessa storia a teatro, questa volta però nel ruolo di Helene. Il ruolo di Sigrid, invece, verrà affidato alla diciannovenne Jo-Ann, idolo dei preadolescenti abituata a recitare in blockbuster popolati da supereroi. Nonostante la perplessità iniziale, Maria accetta il ruolo di Helena, persuasa anche dall’insistenza gentile della sua assistente personale, Valentine, una ragazza intelligente che la segue come un’ombra, proteggendola con una cura amorevole che va oltre il dovere professionale. Attraverso numerose prove di dialogo con Valentine, che si presta a recitare il copione insieme alla grande attrice, Maria dovrà confrontarsi con la propria insicurezza e la propria paura di invecchiare, che le fa dire: “Io sono Sigrid. E voglio rimanere Sigrid”.
Olivier Assayas costruisce un racconto matrioska costellato di superfici riflettenti, giacchè l’intera vicenda è un continuo gioco degli specchi. Il rapporto fra Maria e Jo-Ann riflette quello fra Helena e Sigrid, ma anche l’interazione fra Maria e Valentine ricalca simili dinamiche. E’ un esercizio in metacinema, in cui il portato di Kristen Stewart, che interpreta Valentine, ha un notevole peso narrativo: gli innumerevoli riferimenti all’incontrollabilità della fama presso il pubblico dei teenager e all’eco mediatico globale degli scandali che travolgono le star nell’era di Internet sembrano un commentario amaro alle vicende personali dell’eroina della saga di Twilight. Anche il ragionamento sulla pervasività della Rete e dei social media è di natura riflettente: da un lato fonte di deprecabili ingerenze nella vita privata delle persone e detestabili vetrine della crudeltà narcisistica degli utenti, dall’altro banca dati imprescindibile di informazioni istantanee e necessario veicolo di diffusione mediatica. E così come Internet annulla la linearità della sequenza spaziotemporale, Maria cerca di collocarsi in un non-tempo che prescinda dall’anagrafe. Tenendo conto della doppia natura della comunicazione contemporanea e delle sue ricadute sul vissuto dei singoli, Assayas riesce a costruire una storia estremamente verbosa il cui vero significato si insinua invece nel non-detto, come la nuvola detta “serpente del Maloja” che si snoda attraverso le valli alpine in cui è ambientata la storia. Allo stesso modo, ciò che è veramente è importante è ciò che non viene mostrato, che si cela alla cinepresa e sfugge al continuo gioco di rifrazioni, perchè necessita dell’unico ingrediente incontrollabile: l’attenzione di chi guarda. Dunque i momenti più importanti della storia saranno una scomparsa silenziosa e la dolorosa presa di coscienza di quanto quella scomparsa sia la conseguenza di non aver saputo “soffermare lo sguardo un solo istante in più”. Chloe Grace Moretz, che interpreta il ruolo di Jo-Ann, è perfetta nel ricreare la rapiditè camaleontica della giovane generazione nel farsi riflesso delle altrui aspettative. Ma il film appartiene al duetto fra Juliette Binoche e Kristen Stewart, che si trasforma in uno specchio buio con un’abnegazione identica a quella che Valentine mostra nei confronti di Maria. Attraverso una narrazione formalmente impeccabile, nitida come un cristallo e tagliente come un diamante (del quale ha tutta la durezza) Sils Maria racconta il percorso di crescita di una donna che rifiuta la maturità per rimanere aggrappata ai “privilegi della giovinezza”. Ma è anche una riflessione sul cinema come illusionista dello sguardo perche’, per parafrasare Assayas, anche un film è solamente un oggetto, e cambia prospettiva a seconda del punto da cui lo si osserva.
Nel 1271, mentre i resti di Luigi IX (1214-1270), re di Francia detto il Santo, sono portati attraverso la penisola italiana verso Parigi, cinque giovani cavalieri partono verso Tebe (Grecia) alla ricerca della sacra Sindone. P. Avati torna al Medioevo, già raccontato in Magnificat , con un film ad alto costo di taglio epico-avventuroso, di base antropologica e di toni che svariano dal metafisico al barbarico, dalla novellistica alla sacra rappresentazione, con innesti di ferina violenza: amputazioni, sventramenti, sangue a fiotti, procedure efferate, macabri riti liturgici. Il sacro e il blasfemo, il divino e il diabolico nascono, come l’alternanza tra abomini etici e abissi spirituali, dal contesto socio-antropologico, documentato con cura. Film medievista più che medievale, attraversato – come il sacrificio finale suggerisce – da una brezza anarchica contro ogni potere. Consulenza storica di Franco Cardini.
Figlio trentacinquenne timido del sarto pontificio (Giannini) e ignaro di donne, Nello Balocchi (Marcorè) è mandato dal padre a insegnare latino e greco nella carnale Bologna dove s’innamora di Angela (Incontrada), ricca, bella, incostante e non vedente che, pur col cuore altrove, gli corrisponde. Epilogo malinconico. Tentativo soltanto in parte riuscito di coniugare la vena elegiaca con quella romanzesca, il 28° film di P. Avati ridonda: nella timidezza di Nello; nel macchiettismo romanesco di Giannini; in inverosimiglianze di sceneggiatura; nell’idealizzazione; nell’amore per la Bologna del tempo che fu. Il nostalgico Avati ha dimenticato che “la nostalgia spesso si alimenta, più che dei ricordi, di amnesie” (G. Pontiggia). Del nucleo della storia rimangono la notte d’amore e l’incontro finale, ma non mancano invenzioni bizzarre e notazioni curiose. Fotografia del fido Pasquale Rachini, musiche di Riz Ortolani. Premio Donatello per la regia. Nastro d’argento a Marcorè.
La tigre, dicono gli ecologi, è un animale in via d’estinzione e bisogna salvarla, ma anche il protagonista di questo film è il rappresentante di una specie in via d’estinzione. Si tratta infatti di un bravo borghese americano che non capisce più il mondo in cui si trova a vivere: tutti i suoi ideali sono crollati. In una scena, rimasta famosa, recita a una ragazza hippy con cui ha avuto un’avventura i nomi di personaggi famosi ai suoi tempi e lei non ne riconosce nessuno.
Festival è un film del 1996 diretto da Pupi Avati. Si tratta finora dell’unico film che vede protagonista in un ruolo drammatico l’attore Massimo Boldi.
Franco Melis è un attore comico, reduce da grandi successi con film trash a partire dai tardi anni settanta, ma che negli anni ha sperperato i suoi guadagni. In solitudine e senza denaro, Melis trova la forza di reagire alla sua depressione: attraverso il suo manager, Renzo Polpo, trova una parte in un film molto lontano dalle sue precedenti prestazioni, che viene presentato a una rassegna cinematografica di alto profilo culturale e che sembra godere legittime chance di vittoria.
4° lungometraggio di finzione di Akin, regista turco cresciuto in Germania ( La sposa turca ). In una vicenda ricca di rime e dominata dalla fatalità (2 omicidi colposi), che si sposta da Brema e Amburgo a Istanbul e ritorno, si muovono 6 personaggi (4 turchi e 2 tedeschi: 2 figlie, 2 madri, un padre e un figlio) in cerca di perdono e redenzione, giustizia e riconciliazione. La descrizione dei 2 mondi è critica con cautela, preoccupata dalla par condicio , come quella dei personaggi, che rifiuta il manicheismo. La simpatia dell’autore va, comunque, alle donne, specialmente alle 2 giovani, che si legano in un rapporto lesbico messo in immagini con tenerezza carica di erotismo. Stilisticamente tradizionale e qua e là convenzionale. In concorso a Cannes 2007, scritto e diretto da Akin, ebbe il premio per la migliore sceneggiatura e quello della giuria ecumenica. Il paradiso sarebbe l’occidente europeo.
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