Eureka è un film del 2000 scritto e diretto da Shinji Aoyama. Presentato al Festival di Cannes 2000, ottenne la nomination per la Palma d’oro e vinse il Premio FIPRESCI e il Premio della Giuria Ecumenica.
In piccolo paese del Kyūshū un mitomane dirotta un autobus e giustizia quasi tutti i passeggeri. Scampano al massacro soltanto in tre: l’autista (il signor Sawai) e i giovanissimi Kozue e Naoki Tamura, fratello e sorella.
Film in 3 episodi. “Il filo pericoloso delle cose” (scritto da Tonino Guerra – 29′). Un uomo litiga con la compagna e fa l’amore con una vicina di casa. Le due donne s’incontrano nude sulla spiaggia. Imbarazzante recupero di cascami anni ’60: “un pallido catalogo turistico di luoghi antonioniani” (A. Pezzotta). Induce a una domanda etica: c’è stata a monte una speculazione o una manipolazione a spese di un novantenne e del suo passato? Girato, si dice, nel 2002. “Equilibrium” (scritto da Soderbergh – 27′). Un uomo racconta i suoi sogni erotici a uno psicanalista distratto e guardone. Ma è tutto un sogno. Prolisso e pretenzioso, un giochino fuori tema, frettolosamente messo in immagini. Divertente. E allora? “La mano” (Scritto da Kar-wai – 42′). Un sarto s’innamora di una prostituta, sua cliente, e continua ad amarla in silenzio per anni. Quasi una protesi di 2046 : linguaggio, atmosfere, attori, ambienti, meccanismo narrativo sono i medesimi. Con masturbazione iniziale e finale. Per entrambi i film, il sospetto di manierismo autoriale è legittimo. Ha il vantaggio della breve durata.
Storia di Elisabetta I, figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, che divenne la prima regina d’Inghilterra nel 1558 e regnò fino al 1603. All’inizio Elisabetta dovette affrontare e superare intrighi continui, riuscendo tuttavia a districarsi fino a prendere il potere con sicurezza, gestendo con grande acume i rapporti con tutti, dal Parlamento alla Chiesa. Il film si interessa soprattutto al privato, ai primi amori di Elisabetta, ai tentativi da parte dei suoi tutori di trovarle un marito, sempre sgradevole e sgradito. Grande cura nella ricostruzione, ed esagerato amore per l’esercizio cinematografico. Nell’insieme un’opera comunque efficace. Kapur è un indiano che aveva già fatto parlare di sé al festival di Cannes del 1995 con l’opera Bandit Queen.
A Ravenna, ridotta a deserto industriale, una giovane borghese nevrotica, moglie di un ingegnere, cerca vanamente un equilibrio. 9° film di Antonioni, e il suo primo a colori, in funzione soggettiva (fotografia di Carlo Di Palma, Nastro d’argento) come espressione di una realtà dissociata e con ambizione di trasformarlo esso stesso in racconto come “mito della sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose”. Come nei 3 precedenti film con Monica Vitti, la donna è l’antenna più sensibile di una nevrosi comune nel contesto della società dei consumi e della natura inquinata. Leone d’oro a Venezia.
Nel 1983 l’adolescente Baby è in vacanza con i genitori benpensanti wasp e una sorella scioccherella e bellina. Durante un party conosce una coppia di ballerini scatenati in effervescenti danze latinoamericane e ne è estasiata. S’innamora di lui, Johnny, e diventa amica di lei. Quando, costretta ad abortire senza l’aiuto del mascalzone che l’ha messa incinta e lasciata, la ballerina è messa fuori gioco, Baby la sostituisce con successo sul palcoscenico. Impara molto da entrambi, scopre amore e sesso, matura e dà una lezione ai suoi familiari. Con l’aiuto del coreografo Kenny Ortega, l’italoamericano Ardolino filma bene le sequenze dei balli, permeate di un gradevole erotismo soft e allegro. Il risultato è un film che mescola risate e lacrime, un’improbabile lieta fine e una sana mancanza di rispetto verso alcuni canoni della decenza made in USA.
Bologna 1948: l’amore adolescenziale di Dado per Sandra che lo mette in conflitto con famiglia e insegnanti. Tragico epilogo 46 anni dopo. Flashback dal punto di vista del morto come in Viale del tramonto , confronto tra la Bologna (l’Italia) di una volta, quando tutto era più semplice, e quella di oggi. Minimalismo e melodramma, bozzettismo e mistero. Dopo 3 film “americani”, Avati torna alla sua Emilia, miscelando la tenerezza del rimorso e l’accidia del sentimento. Il cocktail non è riuscito.
Due storie che finiscono con il confluire nella terza costituiscono la struttura narrativa di Diari. Nella prima la sedicenne Leo si trova a dover affrontare il ritorno, dopo dieci anni, del padre. L’uomo, attore di teatro, tiene un seminario a cui Leo decide di iscriversi in totale incognito. Ali, protagonista della seconda parte, è un ragazzo extracomunitario perfettamente integrato e appassionato di manga. Al punto di celarsi in Internet sotto le vesti di un supereroe per agganciare la più bella della scuola. Leo e Ali si troveranno a doversi occupare insieme di un anziano la cui percezione del tempo si va facendo complicata spingendolo a ritenere ancora presente un antico amore. Attilio Azzola con questo film, vincitore del Gran Prix Ecrans Juniors a Cannes, ha realizzato un’opera prima del tutto inusuale nel panorama del cinema italiano. Il film è infatti il risultato di un progetto che ha le sue radici in Lombardia e, nello specifico, in Brianza. Nel corso del primo semestre 2007 Azzola e l’educatrice Maria Grazia Braghi hanno dato il via a un’esperienza formativa con adolescenti finalizzata alla stesura del soggetto e alla scelta sia dei personaggi sia degli ‘aiuti’ nelle varie mansioni della troupe. Ne è nato così un film sui giovani che li vede al centro di tutto il processo. Volendo sfuggire agli stereotipi sugli adolescenti ‘bruciati’ oppure integrati il film assume una dimensione in costante equilibrio tra fiaba e realtà. Grazie a questa scelta gli attori (non professionisti e per questo decisamente più ‘veri’ di altri loro coetanei presenti sul grande schermo) non vengono ridotti a un’omologazione paramocciana. La sceneggiatura può quindi permettersi di affrontare con tutta la leggerezza necessaria (il che non è sinonimo di banalità) le complesse dinamiche di relazione tra i figli e la figura paterna nonché il non facile rapporto con le persone anziane. È proprio grazie a un vecchio un po’ svanito che Leo e Ali riusciranno ad andare più a fondo nella scoperta di se stessi ricordandoci che non tutti i giovani vedono albekiare tre metri sopra il cielo
Il ricchissimo filone di film fantascientifici prodotti ad Hollywood (ma non solo, si pensi ad esempio al nipponico Godzilla) negli anni ’50 viene generalmente in una ristretta cerchia di capolavori del genere, come Ultimatum alla Terra e Il mostro della laguna nera da una parte, e dall’altra una infinità di piccole produzioni dalla qualità abbastanza scadente, realizzate sfruttando i set precedentemente attrezzati per film più importanti. In realtà, se andiamo a scavare bene a fondo nelle opere uscite al cinema in quel periodo, ci accorgeremo che c’è anche una tendenza “di mezzo”, cioè alcune pellicole che, pur non potendo essere assolutamente considerate artisticamente di livello, si distinguono dalla massa anonima di spettacoloni ingenui per tutta una serie di motivi.
Un esempio classico è proprio Destinazione… Terra!, in cui il regista Jack Arnold, uno dei capisaldi del cinema dell’orrore e della fantascienza insieme a John Carpenter, James Whale e Wes Craven, per la prima volta si cimenta in una produzione di questo genere. L’indiscutibile abilità di Arnold conferisce al film caratteristiche di cui i suoi contemporanei improvvisati sono completamente sprovvisti: prima di tutto l’impeccabile regia, in grado di mostrare ogni elemento dell’inquadratura con una vividezza che sorprende e affascina. I contorni sono marcati ed evidenti, il panorama (il deserto dei western) è qui sfruttato con maestria, a dimostrazione di come un regista capace sia in grado di servirsi con successo anche di materiali di scarto e non propriamente legati al genere di riferimento. Grande trovata anche la soggettiva dagli occhi, anzi dall’occhio, dell’alieno, e superba è la sequenza in cui la creatura esce dalla miniera, rivelandosi in tutto il suo orribile aspetto, emergendo piano piano dalle ombre e materializzandosi come puro incubo visivo. Inoltre va segnalato che Arnold per primo nella storia si servì dell’espediente narrativo, poi reso celeberrimo da Don Siegel ne L’invasione degli ultracorpi, di far assumere agli extratterestri la forma degli uomini con cui erano entrati in contatto. In ogni caso, la sola regia non basterebbe ad elevare questo film una spanna al di sopra di molti suoi simili… la vera genialità di Arnold sta nell’importante riflessione etica che viene proposta, e che in parte ricalca, almeno nella concezione che il regista ha degli alieni, il film di Robert Wise, nel quale, proprio come in questo, gli esseri venuti dallo spazio erano dei “visitatori” e non degli “invasori”; inoltre sono dotati non solo di una tecnologia superiore alla nostra, ma anche di una più profonda capacità di relazionarsi con gli altri, di accettare la diversità e di convivere con essa. Ecco dunque che Arnold cala all’interno di un cinema troppo spesso di mero intrattenimento una discussione intensa che si tramuta anche in denuncia dell’ottusità umana, della sbagliata paura dell’uomo nei confronti dell’ignoto, e del suo impulso istintivo a distruggere tutto ciò che non si può capire e dominare, anzichè cercare di comprenderlo. Gli alieni del film cercherebbero il contatto, ma sono consapevoli che l’umanità non è ancora pronta per un passo del genere. Il finale è un magnifico invito a superare tutti i pregiudizi razziali della nostra epoca, a liberarci dall’infondato e autodistruttivo timore del “diverso”, nella speranza che un giorno sia possibile il ritorno sul pianeta di una specie così superiore che potrà portare soltanto benefici agli uomini. Dunque il film esula dal semplice argomento narrativo per mostrarsi come una preghiera universale di tolleranza, amore e rispetto nei confronti degli altri, e questo è indice di grandezza e valore artistico.
Il Natale dovrebbe essere un giorno di festa da passare coi propri cari, come è sempre stato negli ultimi vent’anni, per la famiglia Harrington, ma quest’anno qualcosa cambierà… In viaggio con la famiglia per raggiungere la suocera, Frank Harrington decide di prendere una scorciatoia. L’incubo inizia. Una misteriosa donna in bianco vaga nel bosco, lasciando un alone di terrore al suo passaggio. Una strana auto scura, con un conducente invisibile, porta gli Harrington in una spirale di morte e follia verso una inquietante destinazione…
Un bambino di otto anni, tiranneggiato dai genitori e innamorato della maestra, sogna di diventare grande e ci riesce. Assume l’aspetto fisico di un quarantenne, ma resta infantile negli atteggiamenti(forse è per questo che la bella insegnante comincia a ricambiarlo).
Leone d’oro a Venezia. Implacabile, appassionata, struggente, un’opera potente, lontana da facili citazioni neorealiste, da giudizi storici e da qualsiasi forma di didascalismo e ridondanza retorica. Un’epica collettiva in cui vicende private e contesto nazionale si alimentano reciprocamente alla ricerca delle origini della nostra confusa modernità. A essere messo in scena è il dramma dell’emigrazione, del desiderio di riscatto, della difficile integrazione sociale e della convivenza tra povertà e benessere nell’Italia in ascesa nel boom annunciato. Amelio ci costringe a ripensare allo stereotipo meridionale e a situazioni e luoghi che crediamo di avere in qualche modo interiorizzato. Primo tra tutti l’espropriazione culturale e politica di intere generazioni di emigranti che hanno contribuito allo sviluppo del nord. 1958 – 1964, sei anni determinanti per il nostro paese, raccontati attraverso il rapporto complesso, tormentato e viscerale di due fratelli siciliani, per mezzo di una narrazione ellittica, al di là di qualsiasi convenzione stilistica, svuotata di fatti e di cronologia.
Da un romanzo di Hank Searls. Per battere i sovietici nella corsa alla luna, gli americani lanciano una capsula, guidata da un pilota civile allenato in tempi stretti da un colonnello suo amico. Più che di fantascienza, è un buddy-buddy film , cioè la storia di un’amicizia maschile messa alla prova dai politici. Pur manipolato dai boss della Warner, è un interessante e ingegnoso esempio di contaminazione tra fiction e documentario.
A Savannah (Georgia) un avvocato di successo (Branagh) passa un’imprudente notte d’amore con una cameriera (Davidtz), si lascia coinvolgere nella vita di lei e negli ambigui rapporti con il padre (Duvall), mette a repentaglio reputazione e figli, aggredisce, uccide finché scopre di essere stato usato. Da un soggetto originale di John Grisham, sceneggiato con uno pseudonimo (Al Hayes) dietro il quale probabilmente si nasconde il regista. Storia di una rovinosa deriva, iniziata quasi casualmente, il film s’ingorga e perde tensione nella parte finale dello svelamento, ma rimane degno di Altman per le qualità stilistiche di atmosfera (il tifone Geraldo che incombe), descrizione ambientale (il profondo Sud nella fotografia di Changwei Gu), definizione psicologica dei personaggi, rinuncia agli effetti, sotterranea ironia nel raccontare la sproporzione tra causa ed effetti. Il “gingerbread” del titolo è un biscotto allo zenzero che, secondo una filastrocca, fugge per non farsi cucinare e mangiare.
Emilio, un ragazzo di quindici anni, assiste ad un attentato e riconosce nel terrorista rimasto ucciso un allievo di suo padre che era recentemente venuto a far visita a casa sua con un’amica. Decide allora di raccontarlo alla polizia, ma il padre lo rimprovera. Qualche tempo dopo incontra anche la ragazza e ne parla al padre insistendo affinché lei si costituisca. Il padre non gli dà retta ed Emilio scoprirà il perché: li trova insieme e insieme li farà arrestare.
Marian è un’infermiera quarantenne che assiste i malati in punto di morte. Se ne prende cura con una delicatezza che sfiora il morboso, regala loro gli ultimi momenti di tenerezza. Spesso ne abbrevia le sofferenze sotto un lenzuolo bianco. La sua vita privata non è così ordinata e perfetta come vorrebbe far credere. Un giorno, per caso, assiste a una scena di sesso nel cortile del suo palazzo, condividendo l’esperienza voyeristica con un dirimpettaio. Quando rivede l’uomo per strada, lo segue fin dentro un noleggio di dvd dove affitta Il dottor Zhivago con la sua versione porno. I suoi sentimenti si ridestano, intanto fa amicizia con un’anziana vicina sola e sul lavoro colleziona oggetti personali di coloro che spirano. È inevitabile l’incontro con l’uomo, che avrà un esito inaspettato.
Da un romanzo di Raymond F. Jones. Una coppia di scienziati terrestri è rapita da misteriosi visitatori alieni e trasportata in un remoto pianeta, devastato da una guerra interplanetaria. Hanno bisogno di loro. Li aiutano e poi scappano. Uno dei migliori SF degli anni ’50, e uno dei meno reazionari a livello ideologico. “… al di là dei suoi molti meriti… merita una menzione… per il suo strepitoso BEM (Bug Eyed Monster il mostro extraterrestre della narrativa pulp) per quanto gli siano riservati meno di cinque minuti.” (Andrea Ferrari). Fu fonte d’ispirazione per innumerevoli personaggi tra cui i marziani del Mars Attack! delle figurine Topps e del film di Tim Burton.
Gli scacchi del vento ( persiano : شطرنج باد , romanizzato : Shatranj-e Baad ), intitolato anche La partita a scacchi del vento , è un film iraniano del 1976 scritto e diretto da Mohammad Reza Aslani . [1] Il film fu proiettato solo una volta prima della rivoluzione iraniana del 1979 e fu accompagnato da un’accoglienza negativa. Dopo essere stato riscoperto nel 2020, il film è uscito in diversi paesi ed è stato ben accolto.
Iran, anni Venti. Alla morte della matriarca, gli eredi di una casa nobiliare si contendono l’eredità. In particolare il conflitto è tra la primogenita disabile, costretta alla sedia a rotelle, e un altro membro della famiglia che verrà ucciso dalla prima. Il suo corpo verrà nascosto in una delle grandi giare di cui è piena la dimora. [sinossi]
Dopo quasi 45 anni di oblio, Chess of the Wind (Shatranj-e Baad) è stato ora presentato, restaurato, al 34° Cinema Ritrovato, uno dei film che la manifestazione della Cineteca di Bologna mette in catalogo con il bollino del Festival di Cannes perché in realtà avrebbe dovuto essere proiettato già tra i Cannes Classics e la cancellazione del festival per l’epidemia sembra accrescere questa idea di maledizione che graverebbe sul film. Si tratta di un indiscutibile capolavoro del cinema iraniano prerivoluzionario, realizzato nel 1976 dal regista Mohammad Reza Aslani.
La storia di questa opera è essa stessa una tragedia. Il film era stato incluso nella selezione del concorso del Festival Internazionale di Teheran del 1976, ma le proiezioni furono boicottate per contrasti del regista con gli organizzatori. Così le bobine erano state mischiate alla rinfusa e venne sbagliata la velocità della prima proiezione, resa più lenta. Tali problemi si ebbero a tutte le proiezioni, da quella per i critici, che abbandonarono in massa la sala, a quella per la giuria, per cui il film fu ritirato dal concorso. Presi dallo sconforto, i produttori non mandarono l’opera ai festival internazionali, mentre i distributori interni non lo presero. Così il film non fu mai proiettato per il pubblico, né in Iran né all’estero. Risultano solo alcune proiezioni private organizzate durante il successivo festival di Teheran, cui parteciparono Henri Langlois, Roberto Rossellini, Satyajit Ray che apprezzarono molto l’opera congratulandosi con il giovane regista.
Con l’avvento della Repubblica Islamica nel 1979, Chess of the Wind fu definitivamente vietato perché ritenuto non confacente ai dettami religiosi della teocrazia. Il film circolava solo in videocassette clandestine di pessima qualità. Solo per puro caso nel 2015 il regista ritrova una pellicola del film da un rigattiere specializzato in cimeli di cinema e così oggi Chess of the Wind rinasce a nuova vita, in uno splendido restauro che ne esalta gli estetismi barocchi.
Chess of the Wind è un thriller glaciale, di respiro shakesperiano che racconta, in chiave metaforica e non, i traumi di un paese che sembra vivere nei corsi e ricorsi della storia. Il nucleo narrativo dell’occultamento del cadavere, in una giara di vetro, nascosto anche agli agenti della polizia del regime Qajar, non genera quella suspense da Cocktail per un cadavere. Il pathos del film non risiede in queste cose, anche la scena stessa dell’omicidio è totalmente priva di enfasi. Pochissimi i movimenti di macchina, c’è una panoramica a 360° e poi un movimento sulla scalinata alla fine, forse un dolly. Chess of the Wind sembra impregnato, anche in questo senso, da un ascetismo persiano, quello di un paese in cui la massima espressione artistica è rappresentata dalla poesia. Lo stesso regista è stato un poeta modernista e cubista. E nella composizione dell’immagine, torna quel gusto persiano del tappeto e della decorazione che qui ha il suo fulcro in quella grande scalinata del palazzo piena di simmetrie, con tante vie di fuga e accesso, sormontata da un grande busto. Sembra una scalinata teatrale o da melò classico.
Il film funziona anche secondo una drammaturgia della storia, nell’ottica dei cambiamenti secolari attraversati dal paese, o come una partita di scacchi rappresentata da quella scacchiera che campeggia nel salone centrale del lussuoso palazzo. È in atto una partita di scacchi, reale e metaforica, tra la primogenita della dinastia e un membro della famiglia, una partita dal ritmo lentissimo, dove le mosse si decidono nel corso di diverse giornate. Dopo l’uccisione dell’uomo sarà un agente di polizia a muovere i pezzi sulla scacchiera, senza essere visto dalla signora che si chiederà chi fosse stato, posto che il rivale al gioco è morto. Il conflitto tra i due riprende quello in atto nella società persiana uscita dalla Rivoluzione costituzionale, quello tra la modernità e la parità dei diritti di genere, sempre comunque nell’ambito delle élite aristocratiche, e le forze ancorate alla tradizione religiosa, rappresentate dall’uomo che viene ucciso. Un conflitto che sembra perenne nella storia del paese. Il popolo è rappresentato dagli inserti delle lavandaie che commentano i fatti di palazzo, come un coro greco o come le serve di un film di Cukor.
Chess of the Wind è suddiviso in due parti, la prima ambientata tra il 1915 e il 1920, la seconda nel 1924. Una suddivisione non dichiarata ma comprensibile da un riferimento, quello al servizio militare fatto durante i momenti delle lavandaie, che in Iran è attivo dal 1924. Sono tante le citazioni alle vicende di quell’epoca calda e ai suoi protagonisti, come quella al giornalista e poeta Mohtaram Eskandari, grande sostenitore della causa femminista, che venne ucciso, che viene evocato in una sequenza onirica. Due personaggi parlano dell’importanza di avere un inquilino inglese, richiamando così alla potenza britannica che all’epoca dominava su quello scacchiere. Non c’è dubbio che Mohammad Reza Aslani voleva parlare, in forma translata, anche della società iraniana dei suoi tempi, con quelle tensioni sociali che avrebbero portato alla rivoluzione del 1979. E il segnale in questo senso è rappresentato dall’ultima inquadratura del film, la prima fuori dal palazzo, una panoramica che da quella dimora si allarga a riprendere la città dall’alto, dove predominano le architetture moderne e si odono i salmi dei muezzin. Da un lato un retaggio di quella mistica persiana antica del filosofo Sohravardi, che scardina l’idea del tempo come lineare, da un altro lato un messaggio politico ben preciso.
E il film si rivela involontariamente profetico, con la scena alla fine della distruzione del grande ritratto, che campeggiava nella dimora, del capostipite della famiglia. Un’immagine di iconoclastia che anticipa quelle divenute simbolo della rivoluzione di tre anni dopo, dei ritratti distrutti e bruciati dello scià Reza Pahlavi.
Ho tradotto i subeng con google e li ho aggiunti, potrebbero esserci delle imprecisioni nella traduzione.
Due lottatrici di catch alle prese con un manager truffaldino e con un sottobosco di malavita e sfruttamento. Riusciranno a farcela e ad aggiudicarsi l’ambito trofeo. Robert Aldrich, maestro del cinema di violenza, per raccontare lo sport più sadico e crudele, il catch femminile, ha scelto la strada della commedia, con risultati solo qua e là brillanti.
New York, anni Trenta. Bobby Dorfman lascia la bottega del padre e la East Coast per la California, dove lo zio gestisce un’agenzia artistica e i capricci dei divi hollywoodiani. Seccato dall’irruzione del nipote e convinto della sua inettitudine, dopo averlo a lungo rinviato, lo riceve e lo assume come fattorino. Bobby, perduto a Beverly Hills e con la testa a New York, la ritrova davanti al sorriso di Vonnie, segretaria (e amante) dello zio. Per lui è subito amore, per lei no ma il tempo e il destino danno ragione al sentimento di Bobby che le propone di sposarlo e di traslocare con lui a New York. Ma il vento fa (di nuovo) il suo giro e Vonnie decide altrimenti. Rientrato nella sola città in cui riesce a pensarsi, Bobby dirige con charme il “Café Society”, night club sofisticato che diventa il punto di incontro del mondo che conta. Sposato, padre e uomo di successo, anni dopo riceve a sorpresa la visita di Vonnie. Con lo champagne, Bobby (ri)apre il cuore e si (ri)apre al dolce delirio dell’amore.