Un film di Roy William Neill. Con Lon Chaney jr, Patric Knowles, Bela Lugosi, Ilona Massey, Dwight Frye. continua» Titolo originale Frankenstein Meets the Wolf Man. Horror, b/n durata 72 min. – USA 1943.
Il cadavere di Larry Talbot, il famigerato licantropo, torna in vita, resuscitato, accidentalmente da due profanatori di tombe. Consapevole, nei momenti di lucidità, del tragico destino che lo perseguita, Talbot, dopo aver invano cercato aiuto presso la clinica del dottor Mannering, raggiunge il castello di Henry Frankenstein nella speranza di ottenere da lui un rimedio contro la licantropia. Ma la sorte gli è avversa: Frankenstein è morto poche ore prima, ed egli può, adesso, soltanto sperare che i suoi diari contengano l’indicazione per l’antidoto. Nei pressi del castello, l’Uomo Lupo scopre il corpo del mostro creato da Frankenstein e, liberandolo dal ghiaccio che lo ha preservato, lo rianima. Quando la gente del vicino villaggio si mette in allarme per la presenza delle due mostruose figure, Manning accorre e insieme ad Elsa, figlia di Frankenstein, riattiva l’antico laboratorio con il proposito di sottrarre loro l’energia vitale. L’operazione, tuttavia, ottiene l’effetto contrario: l’Uomo Lupo e la Creatura, più furiosi che mai, si accaniscono l’uno contro l’altro, rimanendo, infine, travolti dal crollo di una diga che distrugge il sinistro castello. Scritto dall’inventivo Curt Siodmak e diretto con buon ritmo da Roy William Neill (lo stesso regista al quale si deve la lunga serie di Sherlock Holmes interpretata da Basil Rathbone), il film continua la saga del mostro di Frankenstein e si presenta, insieme, come sequel dell’Uomo Lupo (The Wolf Man) del 1941. La Universal sperimenta per la prima volta la formula del film con più mostri, scommettendo sulla presenza carismatica di Lugosi, sulla crescente popolarità di Chaney Jr. e su uno stuolo di eccellenti caratteristi. Nell’interessante saggio sul cinema horror, “The Monster Show”, David J. Skal ricorda come i recensori del tempo abbiano intravisto nel film, più o meno scherzosamente, una parabola degli anni di guerra: l’immaginaria regione di Visaria, nella quale la storia è ambientata, sarebbe una chiara allusione alla Germania e la rediviva creatura di Frankenstein simboleggerebbe il riaffiorare delle mai sopite spinte irrazionalistiche e violente del nazionalismo. La stessa composizione grafica dei nomi dei due mostri che campeggia nei manifesti originali – “Frankenstein” e “Wolf Man” – sembra ricordare la natura meccanica del primo e quella animalesca del secondo e sarebbe “…un commento adeguato, pur se involontario, alle contraddizioni della moderna tecnologia bellica…” che vede il furore primordiale incanalato in una macchina da guerra perfetta. Bela Lugosi interpreta, finalmente, la creatura di Frankenstein, ma la sua prova è mortificata dalla produzione che in sede di montaggio – per snellire la frenetica avventura e, soprattutto, spinta da una sfavorevole anteprima – taglia gran parte dei suoi primi piani e tutte le sue battute: per ironia della sorte, l’attore che aveva rifiutato il ruolo del personaggio nel Frankenstein del 1931 perché concepito privo della parola, se lo ritrova, a prodotto finito, imprevedibilmente muto. Per Lugosi si tratta dell’ultimo lavoro presso la Universal e per Dwight Frye uno degli ultimi film: Frye – che continua a dividersi tra gli studi cinematografici e l’ufficio di progettista aeronautico – muore pochi mesi dopo stroncato da infarto. Notevoli, come sempre, gli effetti ottici di John P. Fulton e l’elaborato trucco di Jack Pierce che rendono impressionante (per quegli anni) la metamorfosi di Talbot in licantropo.
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