Un film di Andreas Marschall. Con Pietro Martellanza, Celik Nuran, Michael Balaun, Mathieu Carrière Horror, durata 110 min.
Il misticismo dell’India. Tra le ombre diafane di un nero tugurio, corpi tremanti e umidi si contorcono vituperando il raggiungimento di un karma positivo, mentre la Divina compie l’estremo gesto sacrificale all’oscurità, nel disperato tentativo di vedere ciò che gli altri non vedono. Un incipit affascinante quello di Tears of Kali, che sarebbe piaciuto al nostro Dario Argento. Sia per la sanguinolenta passione muliebre che emana, sia per l’espressionismo visivo di una classe tutt’altro che teutonica, almeno a vedere le ultime uscite tedesche.L’opera prima di Andreas Marschall, rivela un talento decisamente superiore alla media delle recenti realizzazioni arrivateci dalla Germania. E’ evidente, ed esplicitamente espressa, la conoscenza che il regista dimostra per la nostra tradizione cinematografica di genere, ammantandola di un alone mistico personalissimo e valorizzata da un tocco moderno e disinvolto, che vanta una capacità di sapersi arrangiare in una situazione di evidente carenza di mezzi economici. La pellicola si ripromette di stupire e mantiene le premesse con un efficace effetto a cascata. Una cascata di sangue, naturalmente. Tears of Kali si snocciola in una classica struttura a episodi (volendo tre cortometraggi) legati concettualmente dalla tematica del dolore come tramite verso l’estasi spirituale, e dalle vicende della setta Taylor-Eriksson, che si professa di mostrare il lato oscuro della New Age che fanno da fil rouge.In ordine seguiremo una inquietante inchiesta in un ospedale psichiatrico, una seduta analitica per un violento skinhead e la rivelazione di un sedicente guaritore. I tre episodi (Shakti, Devi e Kali: Energià Cosmica, Divinità e Distruzione) non negano un certo citazionismo che aleggia durante l’intera visione del film (innegabile il deja-vu da I Soliti Sospetti nel primo episodio anche se squisitamente legato a un classico dello Spaghetti Western del buon Enzo G. Castellari), un certo uso di stereotipi visivi proto-asiatici che ormai sembrano obbligatori per i giovani autori horror del nuovo millennio, ma la perizia, e una volta tanto diciamolo, il talento di Marschall, sono espressi dall’acume con cui metabolizza il tutto e lo vomita con prepotente ancorchè irruente personalità, a creare una esplicita dominazione della macchina da presa.Il budget è evidentemente bassissimo e più di una volta si sente forte la necessità dell’arte di arrangiarsi, tanto che in pratica il film è girato in quattro ambienti. Marschall, però, sembra non curarsene, anzi, fà di necessità virtù, impregnando le mura di malignità, infestando le ambientazioni con un lavoro di regia finalmente palese, presente, vivo e dannatamente impietoso come le 8 braccia di Kali, Dea della Distruzione.
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Lacrime di Kali.avi – 702.5 MB