Un film di Chang-min Choo. Con Han Hyo-joo, Byung-hun Lee, Seung-Ryong Ryu, In-kwon Kim, Gwang Jang. Drammatico, durata 131 min. – Corea del sud 2012. MYMONETRO Masquerade valutazione media: 4,00 su 1 recensione.
A Joseon il re è ormai paranoico: vede congiure ovunque e diffida di chiunque, specie della moglie, che trascura in favore di varie concubine. Dopo essere stato drogato in seguito a un attentato, il Capo Consigliere e il Capo Eunuco decidono di sostituirlo temporaneamente con un sosia, perpetuando l’illusione di un re sul trono di Corea. Il sostituto è un guitto, di umili origini e dal greve umorismo, ma, superati gli imbarazzi iniziali, finisce per assumere una confidenza sempre maggiore con i meccanismi della politica di corte, forte di una coscienza limpida e di uno sguardo disinteressato.
Masquerade è operazione oltremodo astuta, un crocevia di aspirazioni e contributi tecnici che accontenta il pubblico ma osa il giusto anche in direzione dei meno smaliziati. Se si fosse a Hollywood a produrre sarebbe Miramax e potrebbe scapparci anche un Oscar o più; ma la Corea del Sud è sempre meno lontana da simili standard produttivi e i dieci milioni di dollari di incasso abbondantemente superati dicono più di mille parole sullo stato di grazia di una cinematografia in costante ascesa. A livello di mera tecnica si rasenta l’eccellenza e l’ambientazione storica in costume non fa che esaltare la cura per il particolare, ma è tutto il meccanismo narrativo, specie l’alternanza dei registri, a testimoniare di una padronanza mirabile tanto dei tempi comici che della virata verso il dramma dell’epilogo. Si ride, si piange e infine si riflette, appagati, senza arzigogoli, come se Selznick fosse ancora tra noi e avesse scelto di dimorare a Seoul.
Come il protagonista, così anche il regista sembra sedere sul trono per caso: Choo Chang-min, un passato nell’ambito della commedia – come in Late Blossom, un piccolo cult sull’amore senile quando Haneke non era ancora giunto a sdoganare la tematica – pareva la scelta meno ovvia per la bisogna. Ma è proprio l’umiltà di Choo a rappresentare la chiave segreta del meccanismo, pur ricorrendo (o proprio per questo?) ad espedienti comici tra i più antichi del mondo: sosia e inganno (Plauto e Il grande dittatore di Chaplin), ricchezza e povertà (Il principe e il povero di Mark Twain), scurrilità da fescennini e buonsenso popolare (ancora Plauto e Aristofane). E non manca il tema dell’uomo di potere ossessionato dal sesso, eterno materiale per pochade come per stretta attualità di cronaca (il film è uscito alle soglie delle elezioni politiche sudcoreane).
Un amalgama che non può funzionare se a sorreggerlo non ci sono uno script d’acciaio – contribuiscono a quattro mani lo stesso Choo Chang-min e Hwang Jo-hyun, sceneggiatore di Old Boy – e un cast all’altezza, ricco di caratterizzazioni forti (menzione d’onore per Jang Gwang nei panni dell’eunuco), che ruota attorno a un Lee Byung-hun nel ruolo della vita, quello destinato a tramutarlo definitivamente da mero espediente estetico ad attore a tuttotondo. Guardare all’esempio di Masquerade significa osservare dove risieda nel 2013 l’autentico spirito del kolossal classico.
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