Dal romanzo (1910) di Gaston Leroux: una giovane cantante è protetta da una voce misteriosa che la incita e le permette di diventare una diva. La voce è di un uomo mascherato che, nascosto nei sotterranei del Teatro dell’Opera di Parigi, le chiede di rinunciare al fidanzato per consacrarsi al canto e poi la rapisce. È il secondo adattamento del romanzo dopo quello muto del 1925. Qui ovviamente è stata più curata la parte sonora e musicale, ma è ammirevole anche l’uso del colore. Eccellente Rains.
Dal romanzo (1910) di Gaston Leroux. Un musicista dal viso sfigurato e coperto da una maschera, che vive nei sotterranei del Teatro dell’Opera di Parigi, rapisce una giovane cantante lirica di cui s’è innamorato. È la prima versione, forse la migliore e una delle più fedeli, del romanzo e occupa un posto a parte nella carriera di Chaney. Fu giudicato uno dei dieci migliori film americani del 1925, fece entrare molti dollari nelle casse della Universal ed ebbe una grande influenza sul cinema di spavento successivo. In un seguito quasi ininterrotto di scene di bravura, il film resiste ancor oggi per il suo clima d’incubo, il ritmo alacre della narrazione, la patina mitica di cui i decenni trascorsi l’hanno incrostato come succede, per esempio, ad altri film muti, Les Vampires o Judex del francese Louis Feuillade. Alcune scene furono girate in Technicolor bicromico. Nel 1929 fu ridistribuito in due versioni, una delle quali parlata per un terzo (con la voce di Chaney doppiata da un altro attore) e allungata di una decina di minuti con scene d’opera. A causa di contrasti tra Julian e Chaney durante le riprese il primo fu costretto a lasciare il set, sostituito da Edgard Sedgwick e dallo stesso attore. Oltre ai rifacimenti sonori successivi, esiste anche una versione cinese in due parti (1937 e 1941): Yebang gesheng (Il canto di mezzanotte) di Ma-Xu Weiban
Un uomo, una donna, due figli e le loro difficoltà economiche. Dormono dove capita, si lavano nei bagni pubblici, vivono come possono, ai margini della metropoli di Taipei. Sempre più rarefatto, tanto nella frequenza delle sue opere che nella successione di avvenimenti all’interno delle opere stesse, Tsai Ming-liang muta con il mutare dello Zeitgeist. Inevitabile, forse, ma uno dei registi-chiave del passaggio di millennio può permettersi di togliere le briglie residue della propria poetica e lasciarsi andare alla libertà dell’astrazione, come se dalla provocazione delle bandiere invertite di Johns si passasse alle bicromie imperscrutabili di Rothko. Il cinema del regista taiwanese era iniziato sotto le luci al neon di Rebels of the Neon God o nella sessualità scandalosa de Il fiume: oggi, benché ancora contraddistinto dal volto di Lee Kang-shek e da un inconfondibile e ineguagliabile gusto per l’inquadratura perfetta e per i silenzi di Antonioni, Tsai è quasi irriconoscibile. Il regista si spoglia di ogni orpello e di ogni riferimento esterno: niente più strizzate d’occhio al musical (The Hole), alla cinefilia (Goodbye Dragon Inn), alla nouvelle vague (Che ora è laggiù?) o al porno (Il gusto dell’anguria). Cinema come inevitabilità della messa in scena, autosufficiente e incontaminato. Stanco del cinema a parole, Tsai ne è più che mai posseduto nei fatti. Forse Stray Dogs è l’epilogo e l’atto definitivo di una carriera, forse il suo film più libero e puro nella matta disperazione con cui racconta la Ferocia della miseria, di una vita ai margini che spegne lentamente ogni residuo di umanità.
Walt è il giovane proprietario di un negozietto di alimentari a Portland. Quando vi fa ingresso Johnny, un diciottenne messicano immigrato illegalmente, per lui è amore a prima vista. Non sarà così per il ragazzo latino americano che si protegge dall’assedio dello yankee facendosi scortare da un amico, Pepper. Per i due Walt è solo una persona da avere vicino per le primarie necessità e da evitare per altri motivi ma per ognuno dei protagonisti le cose non andranno secondo i desideri. L’esordio di Gus Van Sant dietro la macchina da presa ha tutte le caratteristiche del cinema indipendente degli Anni Ottanta.. Girato a bassissimo costo, con gli attori privi di compenso, il film fa percepire immediatamente la passione cinefila del neoregista e, al contempo, la sua originalità di scrittura. Girato in un rigoroso bianco e nero (con l’eccezione di un inserto e dei titoli di coda, un backstage antelitteram) Mala Noche insegue un’estetica personale denunciando al contempo un indubbio debito con il cinema pasoliniano. Il volto dello stesso Johnny denuncia il desiderio di avvicinarsi a quelle fisiognomiche che Pasolini mise al centro dei propri film. Doug Cooeyate ha infatti l’innocente sfacciataggine di un Ninetto Davoli ispanoamericano. Ma è nel rapporto sessuale ripreso in forte contrasto tra luce e oscurità che Van Sant inizia a mettere a fuoco un modo estremamente personale di portare sullo schermo il conflitto tra il desiderio di possesso e la possibilità di amore che si coniughi in una prospettiva più ampia. Sarà uno dei temi che accompagneranno il suo percorso d’autore. Qui già emerge con forza, insieme all’indiscutibile capacità di descrivere un microcosmo sociale grazie all’uso di primi piani solo apparentemente ‘rubati’ alla realtà.
Due donne si incontrano a Villa Biondi, comunità terapeutica, sulle colline pistoiesi, per pazienti con disturbi mentali: la contessa Beatrice Morandini Valdirana, colta chiacchierona, ricca di famiglia, elegante e snob, dopo una serie di condanne penali per frode e una denuncia da parte dello stesso giudice che l’ha condannata, è ritenuta socialmente pericolosa e sottoposta a misure restrittive; Donatella è una giovane di poche parole, dal corpo innaturalmente magro, segnato da cicatrici e tatuaggi, che nasconde un’infanzia infelice. Commette un gesto estremo e le perizie mediche sentenziano che è socialmente pericolosa. Contro ogni previsione le due stringono un’alleanza e alla prima occasione, incuranti, si danno alla fuga. Entrambe bisognose di affetto, diventano l’una per l’altra terapia di valium, sorrisi e coraggio, lottano per sopravvivere in un mondo che non le comprende. Virzì scrive il film con Francesca Archibugi citando Un tram che si chiama desiderio . Con toni spesso felici, ironici e teneri non vuole indorare la pillola, ma raccontare il dramma e infondere speranza e comprensione. L’unità di base delle inquadrature di Virzì è l’affetto, perché ama i personaggi che racconta. Profondo e leggero nello stesso tempo, il film appartiene a due generose, strepitose, intuitive attrici, Bruni Tedeschi e Ramazzotti; ogni altro elemento della messa in scena sembra al servizio della loro vitalità straripante. L’alchimia tra le due è perfetta. Presentato a Cannes nella sezione Quinzaine des Réalisateurs – 10 minuti di applausi – meritava il concorso e un premio. Nastro d’argento ai costumi di C. Dottori. Nel film recitano anche alcune donne del Centro di salute mentale di Montecatini diretto dallo psichiatra Vito D’Anza, che ha fondato il gruppo teatrale “Mah! Boh”.
François, che ha una relazione con Anne, vede un mattino un uomo che esce con lei dalla sua abitazione. Non sa che si tratta di un aviatore, suo ex, che le ha annunciato che il loro rapporto è definitivamente chiuso. François si ritiene tradito e cerca una spiegazione che Anne rinvia ma incontra casualmente l’uomo con una donna e si mette a pedinare la coppia. Li segue su un autobus dove conosce la quindicenne Lucie alla quale dice di essere un detective incaricato di verificare la fedeltà della donna. Lucie decide di affiancarsi a lui nel pedinamento.
Un film di Shinya Tsukamoto. Con Shinya Tsukamoto, Asuka Kurosawa, Yuji Koutari, Tomoro Taguchi, Susume Terajima, Teruko Hanahara Titolo originale Rokugatsu no Hebi. Drammatico, durata 77 min. – Giappone 2002. MYMONETRO A Snake of June – Un serpente di giugno valutazione media: 3,77 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Rinko è una giovane donna, sposata a un uomo più vecchio, col quale non ha ormai più rapporti da anni. La sua vita monotona è sconvolta dal ricatto di un maniaco, che la fotografa di nascosto in situazioni imbarazzanti e che per non diffondere le foto pretende che la donna compia gesti sempre più spregiudicati, trascinando nel gioco perverso anche il marito. Tsukamoto è un regista di culto per diversi aspetti: temi trattati, tecniche di ripresa e poetica di base sforano i limiti (canoni) del cinema contemporaneo, palesando la marca stilistica di un autore che percorre la sua strada senza mai scendere a compromessi, e che sembra ignorare in toto il resto della produzione del pianeta. Indicativo in tal senso che sia egli stesso regista, attore, montatore, scenografo, tecnico luci, fonico e quant’altro. A snake of June è l’ennesimo suo film estremo, inquietante, perverso, disturbante, sorprendente, che si può solo amare o odiare: niente vie di mezzo.
Il giornalista Moreau e il fotografo Delmas apprendono che un noto uomo politico misteriosamente scomparso è morto d’infarto. Delmas non conosce scrupoli davanti alla possibilità di realizzare un servizio eccezionale.
Al termine della terza guerra mondiale, l’emisfero settentrionale è un mondo completamente distrutto dalle esplosioni nucleari. Anche il resto della Terra è destinato a subire l’ondata devastatrice delle radiazioni, ma, per il momento, in Australia la gente si illude o finge di illudersi di avere ancora una via di scampo. Un sottomarino americano, il Sawfish, comandato da Dwight Lionel Towers, sfuggito al disastro perchè in immersione al momento dell’esplosione atomica, fa rotta verso le coste australiane per valutare le possibilità di sopravvivenza. Le speranze sono destinate a sfumare e gli uomini, consapevoli dell’approssimarsi della fine, fanno un bilancio della propria esistenza misurandosi con il significato della vita. In questo contesto si articola la struggente storia d’amore tra il comandante Towers e la disillusa Moira Davidson. Il film, per molti versi toccante, si chiude con la desolante immagine delle piazze di Melbourne prive di vita mentre il ritmo della celebre canzone “Waltzing Mathilda”, che per gli australiani è quasi un secondo inno nazionale, accompagna il silenzioso ed insignificante sventolio di una bandiera. Al momento della sua uscita L’ultima spiaggia suscitò più di una polemica al punto, perfino, di essere tacciato di sovversivismo dagli ambienti più conservatori. Rivista oggi, la pellicola conserva intatto il messaggio pacifista e si conferma come opera coraggiosa, nello stile migliore di Stanley Kramer.
La direttrice di una scuola di ballo dove gli omicidi non si contano, crede di aver trovato il colpevole: un maniaco munito di spillone. Le scene di ballo sono il Leitmotiv di questo stravagante thriller, quasi una parodia di Flashdance.
In un istituto che produce previsioni sull’avvenire attraverso il computer Simulacron-3 il direttore si suicida in circostanze misteriose. Il suo vice inizia un’indagine, tra l’incomprensione di tutti, esclusa la figlia del morto che lo aiuta. Scopre che il mondo in cui crede di vivere è la proiezione di un altro calcolatore. Dal romanzo Simulacron-3 (1964) di Daniel F. Galouye, è un film TV in 2 puntate, uno dei 4 che Fassbinder diresse nel 1973. Ispirato a Il grande sonno (1946) per l’aggrovigliato intrigo, ad Alphaville (1965) per l’uso di scenografie in esterni contemporanei, è fassbinderiano per il sofisticato gioco dei ruoli e delle apparenze e per il riscatto finale in nome dell’amore e della speranza che lo distacca dal pessimismo del romanzo. Trasmesso in Italia da RAI2 nel settembre 1979.
Come Luciano Lutring divenne un bandito famoso nell’Italia degli anni ’60 (ma ricercato anche dalla polizia francese) con la rapina a una gioielleria di via Montenapoleone a Milano. Caso raro di instant movie riuscito. Lizzani e il suo sceneggiatore Ugo Pirro ne fanno un ritratto di taglio semigiornalistico _ secco, veloce, in sapiente equilibrio tra azione e disegno incisivo dei personaggi _ che ridimensiona un dilettante del crimine, un balordo invasato che entra in un mondo di delinquenti e poliziotti più professionisti di lui. “E il film smonta a tal punto il personaggio che rischia di renderlo sbiadito” (T. Kezich). Tra gli interpreti _ Hoffman è un Lutring attendibile, Volonté cesella un ambiguo poliziotto _ fa macchia L. Gastoni, una Candida Lutring scavata in profondità.
Mentre si preparano a lasciare l’Iran per l’Australia, Amir e Sara ricevono la visita della baby-sitter dei vicini che affida loro per pochi minuti una neonata addormentata. In realtà sparisce e il destino vuole che la bimba muoia (per “morte in culla”, sembrerebbe). I due sciagurati nascondono la cosa a tutti e si barcamenano tra bugie, sotterfugi e inghippi per finire i bagagli e andarsene. Se si supera l’irritazione per l’assurdità dell’assunto di partenza, gli attori sono bravi e l’esordiente Javidi crea uno sviluppo nei meccanismi di coppia che, con un “pretesto” diverso, sarebbe assai interessante. Ignorato dal pubblico, ma nemmeno la critica si è sperticata.
Un gangster, serio “professionista”, è amico di un balordo che ha fama d’essere confidente della polizia. Quando il bandito viene arrestato, crede d’essere stato tradito dall’altro e incarica un sicario di punirlo con la morte.
Il film si apre con la scritta “Lucio Fulci presenta” e si dipana poveramente raccontando la vicenda del dottor Vogler (Peter Hinz), un pranoterapeuta con capacità extrasensoriali, che, chiamato a curare una benestante paralitica nel suo castello, è attirato dalla vicenda di presunti fantasmi che abiterebbero un’ala dismessa del medesimo. Aiutato da una giornalista locale, Vogler rintraccia la bambina, ora ragazza, la cui bambola gli è stata data da un misterioso vagabondo ubriacone (Vassili Karis) e la riconosce per la bambina che lui, in vacanza nei luoghi tanti anni prima, aveva salvato dall’investimento di un’auto, lasciando però che sotto le ruote dell’auto finisse la bambola. Sostanzialmente, la ragazza è la figlia della proprietaria del castello, che, paralitica, era morta in seguito alla caduta accidentale della carrozzella provocata dalla bambina. Motivi oscuri spingono la fantasmatica signora a vendicarsi anche di chi non le aveva fatto nulla (come il derelitto avvocato interpretato da Paul Muller) in un crescendo di violenza che porta a un colpo di scena non prevedibile. Caratterizzato da qualche eccesso di gore tipicamente anni ’80 inserito in un contesto telefilmico e ultrapoveristico, il film cerca qualche difficile suggestione rivisitando vecchie ossessioni spettrali, ma ha tutta l’aria d’essere stato girato in due giorni e non riesce né a coinvolgere né a convincere. Vassili Karis e Paul Muller sono gli unici nomi noti di un cast poco ispirato
Radio e televisione trasmettono un crescendo di allarmanti notizie sull’acuirsi della tensione internazionale tra Russia ed Occidente, ma a Lawrence, nel Kansas, come in altre parti dell’America, nessuno sembra farvi troppa attenzione. Mentre la gente è alle prese con i piccoli problemi quotidiani, le basi militari ricevono messaggi in codice che allertano i sistemi di sicurezza ed innescano le misure di ritorsione contro un’aggressione nucleare. Quando il cielo si squarcia in due accecanti bagliori, per un attimo la vita si ferma come sospesa: i motori non funzionano più, le radio ammutoliscono, poi la gente per le strade, in viaggio nelle macchine o all’interno delle abitazioni è investita dall’urto formidabile dell’esplosione. L’onda radioattiva polverizza uomini e cose. Coloro che si salvano scoprono una distesa di macerie e campi fumanti ricoperti da cenere bianca. Nell’unico ospedale ancora funzionante si organizzano i primi soccorsi, ma la situazione diventa insostenibile per l’ininterrotto affluire di feriti e per la scarsezza dei mezzi necessari a fronteggiare l’emergenza. All’esterno chi tenta di allestire campi di accoglienza non ha altra indicazione che quella dei manuali di sopravvivenza stilati tempo addietro dalle autorità locali, logori e inutilizzabili nella loro assurda impostazione burocratica. Il racconto intreccia il destino di un pugno di personaggi (il dottor Oakes, l’agricoltore Dahlberg, lo studente Klein e pochi altri) cogliendoli dapprima nella loro dimensione quotidiana e trasfigurandoli poi, nel dramma dell’olocausto, in figure emblematiche di una umanità allo sbando, priva delle certezze di un’intera vita, impotente di fronte al dolore e alla morte dei propri cari, senza la prospettiva di un futuro. Il regista e romanziere Meyer costruisce il racconto del “giorno dopo” intervallando con buona abilità situazioni da soap-opera con i meccanismi del filone catastrofico e del documentario-inchiesta, e chiudendo con due sequenze che in qualche modo riassumono il senso della trascorsa civiltà: la nascita di un bambino fortemente voluta da una madre, e l’abbraccio silenzioso tra due sopravvissuti sulla polvere di quella che un tempo era stata una casa.Prodotto per la televisione, il film ha riscosso grande successo presso il pubblico americano, ma non altrettanto presso la critica – specialmente europea – che ne ha fatto un piccolo “caso”, condannando l’intera operazione come una delle più astute spettacolarizzazioni dell’orrore, secondo un deprecabile gusto tipicamente hollywoodiano.
Celestina sembra un’efficiente donna di affari, ma in realtà dirige una casa di appuntamenti. Denunciata, se la cava grazie all’intervento di potenti politici. A. Noris torna al cinema dopo vent’anni di assenza e firma il soggetto e la produzione di questa allegra commedia a risvolti satirici che il più delle volte mancano il bersaglio. Ispirata alla lontana a La Celestina (1499) di Fernando de Rojas.
Da un romanzo di Richard McKenna. Adattato da Robert Anderson. Nel 1926 una cannoniera USA che pattuglia il fiume Yang Tse è coinvolta nel conflitto armato tra nazionalisti e comunisti. Complesso filmone con due storie d’amore a esito tragico, molte battaglie, moltissime esplosioni, qualche ammiccamento alla guerra nel Vietnam, un bravo S. McQueen, un memorabile R. Attenborough, una ventenne C. Bergen in fiore e una pregevole fotografia di Joe MacDonald. “Un film notevole ed estremamente coraggioso… Credo che Wise sia uno dei registi americani più sottovalutati” (Oliver Stone). Ebbe 8 candidature agli Oscar (tra cui quella, l’unica, per McQueen).
Un melodramma poliziesco del primo Fassbinder. Ci sono quasi tutti i suoi attori preferiti. Franz è stato in carcere. Una volta in libertà decide di riprendere i rapporti con l’assassino di suo fratello. Quest’ultimo aveva tradito e ora Franz ha un piano.
Giovane medico condotto (Mastroianni), assegnato a un paesino appenninico del Sud, deve fare i conti con la concorrenza sleale di Don Antonio (De Sica), guaritore un po’ imbroglione, e con l’ignoranza diffidente della gente. Scritta da Age & Scarpelli, è una commedia flebilmente progressista sul conflitto tra scienza e superstizione con qualche gaia trovata, un’ambientazione strapaesana di maniera, un De Sica amabilmente gigione, un Mastroianni con la sua faccia di bravo ragazzo e un Sordi in ombra.
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