In un presente alternativo, il fattorino Ray Tincelli fatica per mantenere se stesso e il fratello minore malato. Dopo una serie di infruttuosi espedienti, trova un lavoro insolito: tirare dei cavi nel bosco per collegare grandi cubi metallici che servono il nuovo mercato del commercio quantistico. Man mano che si addentra sempre più in profondità nella zona, incontra una crescente ostilità e la minaccia dei robot cablatori, e dovrà scegliere se aiutare i suoi compagni di lavoro, oppure arricchirsi e andarsene.
Per fronteggiare una forte crisi depressiva, Hae-won decide di andare a trovare un’amica dell’infanzia, Bok-nam, che vive a Mundo, una desolata isola sperduta a sud di Seoul. Là troverà una comunità maschilista che sfrutta la debolezza fisica delle donne per usurparle e ridurle a vittime incapaci di ribellarsi. La convivenza tra le due donne viene così inframmezzata da momenti di serenità, dove i ricordi del passato portano nuova energia al presente, a scene di violenza inaudita. Quando Bok-nam sospetta il marito di violentare la figlioletta, tenta di scappare dall’isola assieme a lei.
Siamo a Francoforte. Il prof. Monroe desidera sperimentare le reazioni di un gruppo di uomini e donne chiusi in un bunker antiatomico. Si offrono quindici volontari. Michael, un ingegnere, funge da capo. Inizia una serie di guai che getta nella più nera disperazione i quindici che inoltre scoprono che “fuori” è in atto una guerra atomica che ha gettato nel panico la popolazione.
Santa Vittoria è un paese italiano famoso per il suo vino. I tedeschi durante l’occupazione vogliono farsi dire ad ogni costo dove è nascosta la famosa riserva da un milione di bottiglie. Ma la riserva è imboscata bene. E il sindaco, da tutti ritenuto un imbelle, non parla nonostante le pressioni anche violente cui è sottoposto dal maggiore nazista.
Due ricchi milanesi, con il pretesto di investire i loro soldi in un’opera di pubblica utilità, vengono a Roma per spassarsela con donnine allegre; ci scapperà anche il morto.
Tandem non molto riuscito questo con i due fratelli Emilio Estrevez e Charlie Sheen, entrambi figli di Martin Sheen. Il primo, oltre che attore, firma la sua seconda regia e il secondo si accontenta del ruolo di protagonista. La storia vede due lavoratori della nettezza urbana rinvenire il cadavere del sindaco di Las Plaias. Una donna misteriosa e il dirigente di un’industria chimica sono gli altri personaggi dell’intrigo. Tra i tentativi di far ridere o di emozionare alla fine non rimane che il banale e la noia.
James Miller, un noto saggista, presenta a Firenze il suo ultimo libro intitolato «Copia conforme» nel quale sostiene che le copie abbiano un valore intrinseco superiore all’originale. Lei, una piccola mercante d’arte, assiste con il figlio alla presentazione e poi fa in modo di conoscere l’autore per fargli firmare alcune copie. Il giorno successivo, domenica, lo accompagnerà a Lucignano per ‘mostrargli una sorpresa’. Mentre i due si trovano in un piccolo locale e lui è uscito per rispondere a una telefonata, la proprietaria allude a loro come a una coppia sposata e Lei sta al gioco. Gioco che proseguirà anche al rientro di James. Alla non più tenera età di 70 anni (portati peraltro benissimo) è nato un nuovo Kiarostami. Se ne era avuta una prima avvisaglia nell’incerto episodio di Ticketsma oggi, dopo il teorico Shirin, ne abbiamo una piacevolissima conferma. Intendiamoci: il pluripremiato e osannato dalla critica (che a Cannes è sembrata oltremisura spiazzata) non ha affatto smesso di interrogarsi sulla natura umana e non ha neppure rinunciato a una ricerca stilistica. Ha però scelto una modalità diversa di approccio. Ha deciso cioè di compiere ancora, come spesso è accaduto nel suo cinema, un viaggio che comportasse non solo uno spostamento fisico nello spazio ma un percorso, talvolta doloroso, nelle psicologie dei personaggi. È quanto accade anche questa volta ma con una leggerezza e una voglia di ‘giocare’ (non dimentichiamo mai che in francese e in inglese recitare diventa ‘to play’ e ‘jouer’) con un doppio livello di rappresentazione.
Nel film si recita ovviamente (brava, ça va sans dire, Juliette Binoche ma altrettanto efficace il baritono prestato al cinema William Shimell) ma gli stessi personaggi, da un certo punto in avanti ‘recitano’ il ruolo di una coppia sposata da quindici anni. Ne nasce un’ analisi di speranze, illusioni e disillusioni che attraversano tante ‘cop(p)ie conformi’ sullo sfondo di una Toscana che diviene a sua volta protagonista. Kiarostami ha deciso di girare un film non ‘alla Kiarostami’. Viva Abbas
Dal romanzo di Beatrix Beck. Una donna, vedova e madre, rivela in confessione di aver perso la fede. Il sacerdote con cui parla, però, la persuade a riflettere; lei si ricrede e riesce anche a superare il momento di abbandono durante il quale aveva creduto di amare il religioso
Franz (R.W. Fassbinder) che convive con Johanna (H. Schygulla) e la sfrutta, è attratto fisicamente da Bruno (U. Lommel) che lo spia per conto del racket, disposto persino a dividere con lui la donna. Lei rifiuta e informa la polizia di un loro piano per una rapina in banca. Bruno dà ordine di ucciderla. Ritroviamo i due personaggi in Dei della peste , girato pochi mesi dopo, ma distribuito nella primavera del 1970. È il 1° lungometraggio di Fassbinder dopo 2 corti girati nel 1965-66. È già presente, insieme con la struttura triangolare di base (due uomini e una donna), il rapporto di padrone e vittima, tipico del regista. Formalmente è un’ibrida contaminazione tra atmosfere da film nero hollywoodiano (e Melville) e vezzi stilistici in prestito da Godard e Straub.
Tornato dal servizio nel corpo militare di stato, Laci è costretto a vivere con la moglie operaia Irén e la figlioletta nell’angusto appartamento dei suoi genitori, in attesa che il piano alloggi gliene fornisca uno. Il padre di Laci mal sopporta la nuora, imputandole l’incapacità tanto di educare la bambina quanto di mettere da parti soldi per far fronte alle spese comuni. Le incomprensioni crescenti porteranno all’inevitabile frattura del nucleo famigliare. Prodotto dai Béla Balázs Studio, l’esordio nel lungometraggio del giovane Béla Tarr affronta una problematica di stretto carattere politico-sociale, com’è la carenza di case nel sistema comunista ungherese, mediante il linguaggio di un cinéma-vérité aggressivamente polifonico. A conferma dell’interesse pubblico di quanto si vedrà sullo schermo, ad aprire è una didascalia inequivocabile nella sua chiarezza: «È una storia vera, non è accaduta ai personaggi del nostro film, ma sarebbe potuta accadere anche a loro».
L’effervescenza dell’impianto di un lavoro tanto fisico sta nell’impiego di attori non professionisti, nel suono in presa diretta, nella macchina a spalla orientata – come la lente di un microscopio – a focalizzare stralci di frasi, dialoghi sovrapposti, reazioni mimiche, spostamenti improvvisi dei corpi. Affine alle sperimentazioni di altre cinematografie, il primo metodo di Béla Tarr costituisce, invero, il punto d’incontro tra il vivo desiderio di ancorarsi alla realtà e la pochezza dei mezzi a disposizione, in un’intercambiabilità tra programma estetico e politico dove è già possibile scorgere quella deriva della condizione umana che sarà tema prediletto dei titoli maturi. Al di là del filtro di un “cassavetismo incolpevole”, allora Tarr non conosceva l’opera del cineasta americano, il dramma personale e ugualmente pubblico di Laci e Irén acquista sottigliezza psicologica caricandosi di credibilità ad ogni nuovo scontro-dialogo, fino alla resa dei conti delle due, splendide, confessioni finali in cui è palese il sapore schiacciante della sconfitta. Con un titolo che rimarca, per antifrasi, l’inferno della convivenza, Nido familiare costituisce, insieme a The Outsider, Rapporti prefabbricati e, in parte, Almanacco d’autunno, il periodo realista del regista prima della svolta stilistica segnata da Perdizione.
Hotel Magnezit Ungheria, Genere: Drammatico durata 12′ b/n Regia di Béla Tarr
Tibi Szepesi, un operaio ormai prossimo alla pensione, viene licenziato dalla fabbrica in seguito al furto di un motore. Dovrà abbandonare anche l’alloggio riservato ai dipendenti, ma lui, che è stato tenente dell’aeronautica e ha combattuto nell’ultima guerra, si oppone disperatamente alla decisione. Primo cortometraggio di Béla Tarr.
Karrer vive già da anni come tagliato fuori dal mondo, lontano da tutto. Passa il suo tempo osservando le benne della teleferica che si allontanano all’orizzonte, o vagabondando senza meta, sotto una pioggia incessante, per chiudere invariabilmente le sue giornate, qualunque sia la direzione presa la mattina, nella medesima taverna. Un giorno decide di coinvolgere nei suoi loschi affari il marito della cantante del Bar Titanic, per poter così avvicinare la giovane donna. Riesce ad allontanare l’uomo per qualche giorno, con la complicità di Willarsky, suo amico e proprietario del bar. Gli slanci affettivi mutevoli che caratterizzano i rapporti tra questi quattro personaggi indissolubilmente legati gli uni agli altri dai loro interessi e sentimenti, provocano tra di essi conflitti e ravvicinamenti disperati. Sarà Karrer a uscirne sconfitto; a lui non resterà che l’odio e il desiderio di vendetta. Le tappe del suo calvario lo porteranno non alla redenzione, ma a ciò che rappresenta il peggio per l’uomo europeo: la morte che precede la morte, la solitudine totale, il naufragio nella perdizione.
Nel 1994 le avventure della serie Star Trek: The Next Generation sarebbero finite (dopo sette stagioni) e quindi Star Trek: Deep Space Nine era destinata a restare l’unica serie di Star Trek in televisione. Fu allora che la Paramount si domandò se sarebbe stato possibile replicare il successo di TNG con una nuova serie ambientata su una nave stellare. Anziché navigare nello spazio federale, ormai fin troppo conosciuto, questa nuova nave avrebbe navigato in uno spazio più remoto, il Quadrante Delta.
Fu così che nacque la USS Voyager (“viaggiatrice”, riprendendo anche il nome delle celebri sonde spaziali del programma Voyager, già citate fin dal primo film della saga cinematografica). Si poté così tornare a raccontare avventure di un’astronave in missione nello spazio profondo, riprendendo lo spirito pionieristico della serie classica.
L’astronave della Federazione USS Voyager, comandata dal capitano Kathryn Janeway, viene inviata in missione alla cattura di un gruppo di Maquis, ribelli di confine che lottano contro i Cardassiani e non riconoscono i trattati di pace stipulati tra questi e la Federazione. Durante la missione, la Voyagerviene trasportata nel quadrante Delta della Galassia, a più di 70.000 anni luce dalla Terra dal Custode, un’entità aliena che muore prima di poter rimandare la nave indietro; per sopravvivere i due equipaggi, dei Maquis e della Flotta, che hanno subito gravi perdite, devono unirsi per affrontare il viaggio che si stima possa durare anche più di 70 anni.
Durante il viaggio la Voyager viene attaccata da un gran numero di specie ostili (tra cui i Kazon, i Borg e la Specie 8472), ma riesce a trovare anche degli alleati.
Dal romanzo (1910) di Gaston Leroux: una giovane cantante è protetta da una voce misteriosa che la incita e le permette di diventare una diva. La voce è di un uomo mascherato che, nascosto nei sotterranei del Teatro dell’Opera di Parigi, le chiede di rinunciare al fidanzato per consacrarsi al canto e poi la rapisce. È il secondo adattamento del romanzo dopo quello muto del 1925. Qui ovviamente è stata più curata la parte sonora e musicale, ma è ammirevole anche l’uso del colore. Eccellente Rains.
Dal romanzo (1910) di Gaston Leroux. Un musicista dal viso sfigurato e coperto da una maschera, che vive nei sotterranei del Teatro dell’Opera di Parigi, rapisce una giovane cantante lirica di cui s’è innamorato. È la prima versione, forse la migliore e una delle più fedeli, del romanzo e occupa un posto a parte nella carriera di Chaney. Fu giudicato uno dei dieci migliori film americani del 1925, fece entrare molti dollari nelle casse della Universal ed ebbe una grande influenza sul cinema di spavento successivo. In un seguito quasi ininterrotto di scene di bravura, il film resiste ancor oggi per il suo clima d’incubo, il ritmo alacre della narrazione, la patina mitica di cui i decenni trascorsi l’hanno incrostato come succede, per esempio, ad altri film muti, Les Vampires o Judex del francese Louis Feuillade. Alcune scene furono girate in Technicolor bicromico. Nel 1929 fu ridistribuito in due versioni, una delle quali parlata per un terzo (con la voce di Chaney doppiata da un altro attore) e allungata di una decina di minuti con scene d’opera. A causa di contrasti tra Julian e Chaney durante le riprese il primo fu costretto a lasciare il set, sostituito da Edgard Sedgwick e dallo stesso attore. Oltre ai rifacimenti sonori successivi, esiste anche una versione cinese in due parti (1937 e 1941): Yebang gesheng (Il canto di mezzanotte) di Ma-Xu Weiban
Un uomo, una donna, due figli e le loro difficoltà economiche. Dormono dove capita, si lavano nei bagni pubblici, vivono come possono, ai margini della metropoli di Taipei. Sempre più rarefatto, tanto nella frequenza delle sue opere che nella successione di avvenimenti all’interno delle opere stesse, Tsai Ming-liang muta con il mutare dello Zeitgeist. Inevitabile, forse, ma uno dei registi-chiave del passaggio di millennio può permettersi di togliere le briglie residue della propria poetica e lasciarsi andare alla libertà dell’astrazione, come se dalla provocazione delle bandiere invertite di Johns si passasse alle bicromie imperscrutabili di Rothko. Il cinema del regista taiwanese era iniziato sotto le luci al neon di Rebels of the Neon God o nella sessualità scandalosa de Il fiume: oggi, benché ancora contraddistinto dal volto di Lee Kang-shek e da un inconfondibile e ineguagliabile gusto per l’inquadratura perfetta e per i silenzi di Antonioni, Tsai è quasi irriconoscibile. Il regista si spoglia di ogni orpello e di ogni riferimento esterno: niente più strizzate d’occhio al musical (The Hole), alla cinefilia (Goodbye Dragon Inn), alla nouvelle vague (Che ora è laggiù?) o al porno (Il gusto dell’anguria). Cinema come inevitabilità della messa in scena, autosufficiente e incontaminato. Stanco del cinema a parole, Tsai ne è più che mai posseduto nei fatti. Forse Stray Dogs è l’epilogo e l’atto definitivo di una carriera, forse il suo film più libero e puro nella matta disperazione con cui racconta la Ferocia della miseria, di una vita ai margini che spegne lentamente ogni residuo di umanità.
Walt è il giovane proprietario di un negozietto di alimentari a Portland. Quando vi fa ingresso Johnny, un diciottenne messicano immigrato illegalmente, per lui è amore a prima vista. Non sarà così per il ragazzo latino americano che si protegge dall’assedio dello yankee facendosi scortare da un amico, Pepper. Per i due Walt è solo una persona da avere vicino per le primarie necessità e da evitare per altri motivi ma per ognuno dei protagonisti le cose non andranno secondo i desideri. L’esordio di Gus Van Sant dietro la macchina da presa ha tutte le caratteristiche del cinema indipendente degli Anni Ottanta.. Girato a bassissimo costo, con gli attori privi di compenso, il film fa percepire immediatamente la passione cinefila del neoregista e, al contempo, la sua originalità di scrittura. Girato in un rigoroso bianco e nero (con l’eccezione di un inserto e dei titoli di coda, un backstage antelitteram) Mala Noche insegue un’estetica personale denunciando al contempo un indubbio debito con il cinema pasoliniano. Il volto dello stesso Johnny denuncia il desiderio di avvicinarsi a quelle fisiognomiche che Pasolini mise al centro dei propri film. Doug Cooeyate ha infatti l’innocente sfacciataggine di un Ninetto Davoli ispanoamericano. Ma è nel rapporto sessuale ripreso in forte contrasto tra luce e oscurità che Van Sant inizia a mettere a fuoco un modo estremamente personale di portare sullo schermo il conflitto tra il desiderio di possesso e la possibilità di amore che si coniughi in una prospettiva più ampia. Sarà uno dei temi che accompagneranno il suo percorso d’autore. Qui già emerge con forza, insieme all’indiscutibile capacità di descrivere un microcosmo sociale grazie all’uso di primi piani solo apparentemente ‘rubati’ alla realtà.
Due donne si incontrano a Villa Biondi, comunità terapeutica, sulle colline pistoiesi, per pazienti con disturbi mentali: la contessa Beatrice Morandini Valdirana, colta chiacchierona, ricca di famiglia, elegante e snob, dopo una serie di condanne penali per frode e una denuncia da parte dello stesso giudice che l’ha condannata, è ritenuta socialmente pericolosa e sottoposta a misure restrittive; Donatella è una giovane di poche parole, dal corpo innaturalmente magro, segnato da cicatrici e tatuaggi, che nasconde un’infanzia infelice. Commette un gesto estremo e le perizie mediche sentenziano che è socialmente pericolosa. Contro ogni previsione le due stringono un’alleanza e alla prima occasione, incuranti, si danno alla fuga. Entrambe bisognose di affetto, diventano l’una per l’altra terapia di valium, sorrisi e coraggio, lottano per sopravvivere in un mondo che non le comprende. Virzì scrive il film con Francesca Archibugi citando Un tram che si chiama desiderio . Con toni spesso felici, ironici e teneri non vuole indorare la pillola, ma raccontare il dramma e infondere speranza e comprensione. L’unità di base delle inquadrature di Virzì è l’affetto, perché ama i personaggi che racconta. Profondo e leggero nello stesso tempo, il film appartiene a due generose, strepitose, intuitive attrici, Bruni Tedeschi e Ramazzotti; ogni altro elemento della messa in scena sembra al servizio della loro vitalità straripante. L’alchimia tra le due è perfetta. Presentato a Cannes nella sezione Quinzaine des Réalisateurs – 10 minuti di applausi – meritava il concorso e un premio. Nastro d’argento ai costumi di C. Dottori. Nel film recitano anche alcune donne del Centro di salute mentale di Montecatini diretto dallo psichiatra Vito D’Anza, che ha fondato il gruppo teatrale “Mah! Boh”.
François, che ha una relazione con Anne, vede un mattino un uomo che esce con lei dalla sua abitazione. Non sa che si tratta di un aviatore, suo ex, che le ha annunciato che il loro rapporto è definitivamente chiuso. François si ritiene tradito e cerca una spiegazione che Anne rinvia ma incontra casualmente l’uomo con una donna e si mette a pedinare la coppia. Li segue su un autobus dove conosce la quindicenne Lucie alla quale dice di essere un detective incaricato di verificare la fedeltà della donna. Lucie decide di affiancarsi a lui nel pedinamento.
Un film di Shinya Tsukamoto. Con Shinya Tsukamoto, Asuka Kurosawa, Yuji Koutari, Tomoro Taguchi, Susume Terajima, Teruko Hanahara Titolo originale Rokugatsu no Hebi. Drammatico, durata 77 min. – Giappone 2002. MYMONETRO A Snake of June – Un serpente di giugno valutazione media: 3,77 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Rinko è una giovane donna, sposata a un uomo più vecchio, col quale non ha ormai più rapporti da anni. La sua vita monotona è sconvolta dal ricatto di un maniaco, che la fotografa di nascosto in situazioni imbarazzanti e che per non diffondere le foto pretende che la donna compia gesti sempre più spregiudicati, trascinando nel gioco perverso anche il marito. Tsukamoto è un regista di culto per diversi aspetti: temi trattati, tecniche di ripresa e poetica di base sforano i limiti (canoni) del cinema contemporaneo, palesando la marca stilistica di un autore che percorre la sua strada senza mai scendere a compromessi, e che sembra ignorare in toto il resto della produzione del pianeta. Indicativo in tal senso che sia egli stesso regista, attore, montatore, scenografo, tecnico luci, fonico e quant’altro. A snake of June è l’ennesimo suo film estremo, inquietante, perverso, disturbante, sorprendente, che si può solo amare o odiare: niente vie di mezzo.
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