Otto Anderson, rimasto da poco vedovo, è un uomo rigido e incapace di relazionarsi con gli altri. Se la prende con qualunque persona che non rispetta alla lettera i regolamenti. Quando qualcuno entra senza permesso con l’auto nell’area riservata dove c’è anche il suo appartamento o non fa correttamente la raccolta differenziata, ci pensa lui a farglielo notare. Ogni giorno organizza infatti una ronda per controllare se c’è qualcosa che non va. In più non si è mai ripreso dalla morte della moglie Sonya a cui era legatissimo e programma il suicidio in più di un’occasione. A movimentare improvvisamente la sua esistenza c’è l’arrivo di Marisol e del marito che hanno affittato una casa di fronte alla sua. La giovane donna, già madre di due bambine e in attesa del terzo, irrompe come un uragano nella sua vita e tra loro nasce gradualmente un’amicizia che resterà per sempre.
Uno scrittore squattrinato accetta il lavoro propostogli da una vecchia e strana signora: riordinare le carte del marito, uno scrittore famoso quanto controverso. Nella vecchia casa conosce Aura, una bella ragazza che si dice nipote della signora. Ma l’abitazione sembra stregata.
Esordio nella fiction, dopo una lunga serie di documentari, del bielorusso Loznitsa che precede Anime nella nebbia , presentato come questo in concorso al Festival di Cannes. Un camionista bielorusso, che a pagamento viaggia oltre confine, carica alcuni viaggiatori. A ogni incontro la trama si dipana in tante storie calate nella realtà che sviluppano un racconto a spirale dove si ritorna fino alla 2ª Guerra Mondiale, tra i corsi e i ricorsi di un tempo sostanzialmente immobile. Lo sceneggiatore/regista recupera lo sguardo documentaristico, rievoca il passato con elegante concretezza, qua e là si concede qualche oscurità, sbilanciando la narrazione che, però, si ritrova nel finale dove convivono passato e presente, vita e morte. Fotografia di Oleg Mutu.
Il 28 giugno 1914, l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austro-ungarico, fu assassinato a Sarajevo. Il suo omicidio è considerato la causa scatenante della Prima Guerra Mondiale che precipitò l’Europa nel caos e nel sangue. Cento anni dopo il colpo di pistola sparato dall’anarchico Gavrilo Princip, che cosa rappresenta Sarajevo dentro la storia contemporanea e dentro la memoria collettiva europea? Alla domanda prova a rispondere il progetto artistico di Jean-Michel Frodon, giornalista, critico e storico del cinema, che recluta tredici registi e intende altrettante riflessioni su Sarajevo, cuore e cornice di tragici eventi storici.
Una donna riceve un pacchetto: contiene cibo e viveri inviati al di lei marito che si trova in carcere, rispediti al mittente senza spiegazioni. Decide quindi di intraprendere un viaggio lungo e sempre più travagliato in Siberia per cercare di vedere il marito detenuto.
Come un puzzle, la vicenda ha una partenza disagevole, che trova la sua logica narrativa nella seconda parte. Una giovane donna incontra due rapinatori di banche. Con uno di loro stabilisce uno strano legame dal quale non è escluso l’interesse. Conosce un giovane misterioso del quale si innamora: l’uomo fugge, inseguito dai servizi segreti di una superpotenza, portandosi appresso uno strano marchingegno con il quale cattura immagini che intende consegnare alla madre affetta da cecità e che potrà vedere tali immagini. L’inventore dell’apparecchio è il padre stesso del giovane. Ma il vecchio scienziato è in aperto dissidio con il figlio a causa di una diversa visione dell’esistenza. La madre potrà vedere le immagini e morirà. L’evento scatena alterne reazioni tra chi era presente all’esperimento. Ciascuno oppresso da un diverso destino e con un futuro carico di incognite. Costato 23 milioni di dollari, il film è un kolossal dell’anima. Wenders lo dissemina di inidizi e personaggi che conducono in un vicolo cieco. La prima parte è un rompicapo nel quale ogni sequenza non è la conseguenza della precedente. In seguito tutto sembra assumere un tono più solenne e nobile. Ma l’ermetismo delle metafore di Wenders ha come traguardo la sua ossessione per l’olocausto che attende l’umanità. Tuttavia una fastidiosa scenografia di stampo teutonico dà l’impressione che il film sia stato realizzato in un grande magazzino tedesco. La colonna sonora raccoglie il meglio della scena musicale rock (U2, R.E.M., Lou Reed, Talking Heads e molti altri). William Hurt si aggira per il film con aria assente facendo forse rimpiangere che Wenders non sia riuscito a convincere Sam Shepard e Willem Dafoe, ai quali il regista aveva chiesto di interpretare il ruolo.
Cinque suore inglesi di Calcutta s’installano in un palazzo sulle pendici dell’Himalaya, ricevuto in dono, e vi aprono una scuola e un’infermeria. L’altitudine, i profumi esotici, la stranezza e la sensualità del luogo (un ex harem) influiscono sulla loro psicologia. La missione viene chiusa. Da un romanzo (1939) di Rumer Godden (autore di Il fiume , cui si ispirò J. Renoir), Powell & Pressburger hanno cavato uno dei più affascinanti melodrammi del dopoguerra “chiuso in un’atmosfera stordente da serra” (E. Martini), fondato sul conflitto tra due culture, anima e corpo, dovere e desiderio. Girato in interni negli studi di Pinewood. Oscar alla fotografia di Jack Cardiff e alle scene di Alfred Junge.
Durante la guerra di Secessione il generale Grant incarica un colonnello nordista di condurre due reggimenti di cavalleria a distruggere le linee ferrate che portano rifornimenti ai sudisti. L’ufficiale ce la farà ma dovrà vedersela con una patriottica sudista (di cui finirà per innamorarsi) e con un ufficiale medico che prima disprezzerà (la prima moglie del colonnello è morta per un errore dei dottori) e che poi imparerà a rispettare. Il film è senza dubbio inferiore alla trilogia che Ford dedicò alla cavalleria americana negli anni Quaranta-Cinquanta, ma contiene scene memorabili, quali l’assalto della fanteria sudista per le vie della città e, soprattutto, l’attacco dei giovanissimi allievi di una scuola militare di fronte al quale il colonnello preferisce fuggire.
Un film di Sergei Komarov. Con Igor Ilinsky, Anel Sudakevich, Mary Pickford, Douglas Fairbanks, Vera Malinovskaya, Nikolai Rogozhin, M. Rosenstein, Abram Room, M. Rosenberg, N. Sisova, Y. Lenz, A. Glinsky Muto, durata 68′ min. – URSS 1926.
Nel 1926, un mese dopo la prima di Sparrows (Passerotti), Mary Pickford e Douglas Fairbanks partirono per una vacanza europea e il 20 di luglio arrivarono a Mosca. A Yartsevo, a 330 verste di distanza dalla loro destinazione, il treno si fermò per consentire una conferenza stampa. Dal momento del loro arrivo, furono costantemente assediati da grandi folle adoranti. Le illazioni secondo cui c’era stato un fallimentare tentativo ufficiale di imporre il silenzio stampa sulla visita paiono destituite di fondamento. In realtà, sulla scia della nuova politica economica dell’URSS, in quel periodo il turismo veniva attivamente incoraggiato. Doug e Mary si rivelarono i turisti occidentali ideali, e come tali furono pubblicizzati. I due firmarono un autografo che diceva: “Siamo incantati dalla cordiale accoglienza che ci è stata riservata e affascinati dall’entusiasmo dei Russi – davvero un grande popolo.” Si dichiararono entusiasti del recente meraviglioso film sovietico Bronenosec Potëmkin (La corazzata Potëmkin), ed espressero agli intervistatori tutta la loro ammirazione per Lenin, aggiungendo anche che il loro più grande desiderio era quello di incontrare Trotsky. Naturalmente furono invitati a visitare gli stabilimenti cinematografici Mezhrabpom-Rus. In quel periodo, quasi certamente, vi si stava ancora girando Miss Mend, cosa che spiegherebbe la presenza nello studio di Sergei Komarov e di Igor Ilinsky, entrambi interpreti di primo piano del film di Ozep (completato e distribuito in tre parti nell’ottobre del 1926). Komarov e Ilinsky colsero al volo l’occasione offerta dalla solenne visita delle due star americane. Leggenda vuole che Komarov si sia fatto passare per il cameraman di un cinegiornale, il che può anche darsi, pur se, in ogni caso, non sarebbe stato affatto difficile organizzare le riprese del cruciale evento del bacio concesso a Ilinsky da Mary Pickford. Igor Ilinsky, (1901-1987) aveva raggiunto in poco tempo le vette della popolarità col personaggio di Petya Petelkin, il vincitore della lotteria protagonista della commedia Zakroishchik iz Torzhka (Il sarto di Torzok, 1925) di Yakov Protazanov, e probabilmente sarebbe stato comunque presentato, come giovane astro in ascesa, a Mary Pickford, pertanto non era sicuramente difficile organizzare un bacio e una ripresa dello stesso da usare a fini pubblicitari.
Nel corso dell’anno seguente, Komarov e il suo co-sceneggiatore Vadim Shershenevich progettarono di scrivere una storia che ruotasse attorno a quel bacio e alle immagini di folla adorante colte per le strade di Mosca.La trama che ne uscì vedeva Ilinsky nel ruolo di Goga Palkin, lo strappa-biglietti di una sala cinematografica. Goga è innamorato di Dusia, che però sogna solo i divi del cinema e gli dice che lo amerà soltanto a condizione che diventi famoso. Recatosi nello stabilimento cinematografico, dopo una lunga serie di avventure, Goga partecipa come stuntman a una scena in cui deve pendere come un impiccato dal soffitto dello studio. Sennonché, nello scompiglio provocato dall’arrivo di Doug e Mary, tutti quanti abbandonano precipitosamente il set dimenticandosi di lui. Quando i visitatori raggiungono infine il teatro, lo scorgono appeso sopra di loro: Mary stabilisce che Goga è il novello Harry Piel e lo premia con un bacio. Ora che Goga è finalmente famoso, Dusia gli concede la sua mano. La pungente ironia nel descrivere lo stile hollywoodiano e le follie degli ammiratori adoranti è resa più leggera da una benevola invidia. Goga è il tipo di personaggio maldestro che dette grande popolarità a Ilinsky. Dapprima attore di teatro, Ilinsky lavorò dal 1920 al 1934 con Vsevolod Meyerhold. Le sue discontinue apparizioni sullo schermo iniziarono sotto ottimi auspici con Aelita (id. 1924) e in seguito inclusero Kukla s millionami (La bambola milionaria, 1928), l’unico altro film diretto da Komarov, e Volga-Volga (1938) di Grigori Alexandrov. Sergei Komarov (1891-1957) fu tra gli attori preferiti di Kuleshov, Pudovkin e Barnet, sotto la direzione dell’uno o l’altro dei quali girò la maggior parte dei suoi film fino alla metà degli anni ’40. Potselui Meri Pickford uscì nelle sale il 9 settembre del 1927. I titoli russi alternativi si possono tradurre con “Il re dello schermo” (Korol ekrana) e “La storia di come Douglas Fairbanks e Igor Ilinsky litigarono per Mary Pickford” (Povest o tom, kak possorilis Dooglas Ferbenks c Igorem Ilinskim iz-za Meri Pikford). Un altro tributo ironico a Fairbanks uscì nelle sale in concomitanza con la sua visita: “Il ladro, ma non di Bagdad” (Vor, no ne Bagdadskii), una comica di un rullo su un bambino di una delle repubbliche orientali che entra in possesso di un mantello dell’invisibilità. Realizzato per il consorzio statale dei tabacchi – Lentabaktresta – al fine di promuovere la vendita delle sigarette, il film era stato scritto da Alexander Rodchenko, che ne aveva curato anche scene e costumi, e fu diretto da V. Weinberg ma, purtroppo, non ne è rimasta traccia.
Kalan Varkey è un macellaio di bufali, su cui l’intero villaggio fa affidamento per la carne fresca. Un processo di macellazione va però in tilt creando scompiglio per tutto il paese. Polizia e cittadini si dedicano alla cattura del bufalo scappato ma a prendere il sopravvento sono Kuttachan e Anthony, nemici di vecchia data. Tanti altri cittadini vengono toccati da questa vicenda.
Ray Ruby è il titolare di un club di lap dance denominato «Paradise» in downtown Manhattan. Lo coadiuva l’amministratore Jay mentre il silente fratello Johnny è colui che finanzia l’impresa. Il problema è dato dal fatto che il fallimento è alle porte e l’anziana proprietaria dell’immobile non sembra più contenibile. Si precipita nel locale in piena attività reclamando i mesi di affitto non percepiti. Se aggiungiamo che Johnny comunica a Ray che non ha più intenzione di dargli un dollaro e che le ballerine sono intenzionate a tenersi addosso i vestiti in una sorta di sciopero dello strip tease, si può facilmente indovinare quale sia il clima che domina nel locale. Diventa indispensabile trovare una soluzione. Dopo il complesso e controverso Mary, Ferrara torna a circondarsi di attori amici (Dafoe, Modine, Argento) per raccontarci un divertissement affollato e claustrofobico. Il Paradise diventa così un luogo al contempo vicino e distante dal lontano (nel tempo) New Rose Hotel. Distante perché là i personaggi erano poco numerosi. Vicino perché torna di nuovo a essere ampia la confusione sotto il cielo ferrariano. Come nell’altmaniano Radio America ci viene raccontato il rischio di chiusura di un luogo d’intrattenimento. Ovviamente quello di Abel non può essere altro che un paradiso di nome per un inferno di fatto, dato non tanto dagli strip tease (assolutamente vietato toccare le ragazze), quanto dal tono da commedia in nero (quasi sontuosa sul piano fotografico). Il Paradise è una babele di suoni, rumori e attrazioni da cui sembrano autoescludersi uomini e donne come esseri umani. Sono tutti impegnati nei loro ruoli da commedia. La commedia della vita? Se pensiamo al Ferrara dei film migliori dobbiamo dire di sì. Tre stelle alla carriera
Un serial killer si costituisce alla polizia confessando di aver commesso una terribile catena di omicidi che hanno come vittime unicamente donne. L’uomo viene arrestato, in attesa della sentenza di morte per i suoi crimini. Ma i delitti non cessano e portano evidenti indizi che fanno pensare allo stesso assassino. Le indagini sono affidate a due detective, molto diversi e spesso in conflitto tra loro.
Manciuria, anni ’30. Chang-yi, raffinato sicario dandy, è assoldato a caro prezzo per recuperare una mappa in mano a un banchiere giapponese. A sua insaputa, intanto, lo stesso incarico è affidato dall’esercito indipendentista coreano a Do-won, famoso cacciatore di taglie. È un film avventuroso che in Italia può attirare 2 tipi di spettatori: la piccola schiera di conoscitori del cinema asiatico e un gruppo di spettatori più ignoranti, magari vecchi estimatori di western americani (o di Sergio Leone), che vogliono passare 2 ore abbondanti di un cinema d’azione ricco di sequenze mirabolanti alla King Hu, traiettorie visive ubriacanti, inseguimenti, cavalli a iosa, treni. Un film di puro godimento, insomma, senza problemi aggiunti.
Un ingenuo fattorino riesce, con alcuni colpi fortunati, a diventare giornalista. Un suo losco amico gli propone di rubare alcuni cani di razza per poi acquistare fama con servizi sullo strano furto. In realtà il mascalzone fugge con i preziosi animali e la ragazza del protagonista.
Sono almeno 4 i dati di fatto che dovrebbero suscitare meraviglia e ammirazione: 1) dopo una carriera iniziata mezzo secolo fa 2 registi 80enni hanno fatto uno dei loro film migliori e il più originale; 2) vent’anni dopo La casa del sorriso (1991) di Marco Ferreri, un film italiano ha vinto il 1° premio (e quello della Giuria Ecumenica) al Festival di Berlino; 3) nell’art. 27 della Costituzione si legge: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, e il film è in linea su questo tema; 4) il film dei Taviani dura solo 76 minuti. Nel carcere romano di Rebibbia, sezione di Alta Sicurezza, grazie al regista Fabio Cavalli si fa del teatro da anni. La proposta di mettere in scena Giulio Cesare di Shakespeare è dei 2 registi. Intendevano confrontare la condizione esistenziale dei carcerati (tra cui alcuni ergastolani) con le emozioni del testo più politico del drammaturgo inglese: l’amicizia e il tradimento, il parricidio e la congiura, il prezzo del potere e quello della verità. Ci sono riusciti con una intensità straordinaria pari al rifiuto di ogni risvolto didattico o ideologico. Il film comincia con la fine dello spettacolo tra gli applausi del pubblico borghese esterno e finisce con i carcerati che, uno a uno, rientrano nelle celle. Uno di loro dice, guardando la cinepresa: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione”. Sembra una smentita al tema della rieducazione, ma non lo è. È uno dei segni dell’antiretorica che permea il film. Molti dei carcerati riacquisteranno un giorno la libertà, ma non saranno più le stesse persone. Forse saranno migliori anche grazie all’arte. 5 David di Donatello: film, regia, montaggio (Roberto Perpignani), produttore (Grazia Volpi), fonico in presa diretta (Benito Alchimede, Brando Mosca).
Un film di Fabian Bielinsky. Con Gastón Pauls, Ricardo Darín Titolo originale Nueve Reinas. Avventura, durata 115 min. – Argentina 2003. MYMONETRO Nove Regine valutazione media: 3,41 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Due piccoli truffatori, Juan (Gastón Pauls) e Marcos (Ricardo Darín), uniscono le proprie forze per un colpo da mezzo milione di dollari. Di mezzo c’è una serie di francobolli contraffatti, bidoni e controbidoni, personaggi dalla doppia faccia e morale: ma anche i due bidonisti non si sono detti proprio tutto… Onusto di notevole successi raccolti in vari Festival, “Nove regine” è un bel film. Se i modelli sono dichiaratissimi (dal Mamet di “La casa dei giochi” alla commedia all’italiana di Monicelli e Risi), pure la sceneggiatura è un orologio svizzero, la regia mai banale, gli attori semplicemente strepitosi. E l’intrigo giallo e picaresco viaggia che è un piacere verso un finale, se non proprio sorprendente, quanto meno più originale della media del genere.
Nella Spagna franchista del 1966, un professore d’inglese che si serve delle canzoni dei Beatles in classe si mette in viaggio in auto per andare a cercare John Lennon che, dicono, sta girando un film in Almeria. Dà un passaggio a un ragazzino scappato di casa e da un padre poliziotto e a una fanciulla incinta in fuga da un istituto dove l’hanno rinchiusa. Tra i 3 s’instaura un legame che cambierà la vita a tutti. Ispirato alla storia vera del prof. Juan Carrión che incontrò davvero John Lennon durante le riprese di Come vinsi la guerra , è un piccolo film sulla solitudine, sulla ricerca della libertà (metafora anche della ribellione alla dittatura di Franco) e della lotta per ottenerla. Un cast perfettamente affiatato delinea con mille sfumature 3 personaggi qualunque e speciali nello stesso tempo. 6 premi Goya.
Da un racconto di Davis Grubb. Scontati quarant’anni di carcere, vecchio detenuto esce con due compagni e un assegno di venticinquemila dollari che fa gola a un disonesto banchiere e a un corrotto poliziotto. Nella curiosa mistura di comicità, avventura e violenza, il film ha un suo fascino dovuto alla bravura degli attori, il vecchio Stewart in testa.
I detective Mike Lowrey e Marcus Burnett hanno una manciata di giorni per trovare 100 milioni di dollari di eroina, prima che gli Affari Interni li chiudano. Mike viene coinvolto maggiormente dopo che un’amica viene uccisa dai rapinatori nel tentativo di aiutarli. Le cose si complicano ulteriormente quando Mike e Marcus devono scambiarsi di posto per convincere una testimone dell’omicidio a collaborare.
Dario (Abatantuono) e Federico (Bentivoglio) sono due attori e amici inseparabili. Partono su una vecchia Mercedes per una tournée in Puglia con un tragicomico allestimento di Il giardino dei ciliegi di Cechov. Durante il viaggio l’estroverso Dario deve dire a Federico di essersi innamorato della sua fidanzata (Morante). Il tema centrale è l’amicizia virile raccontata da Salvatores – 25 regie teatrali qui al suo 4° film – con una superficialità riscattata dal brio descrittivo dell’ambiente teatrale, dalla leggerezza degli sketch comici e delle divagazioni, dal sapiente uso del rock anni ’70. Grande affiatamento tra Abatantuono e Bentivoglio.
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