Inghilterra, alla fine dell’Ottocento. Appassionata storia d’amore in forma di ritratto in piedi di una ragazza di campagna che cerca di dimostrare le sue nobili origini, ma finisce per ritrovarsi con un figlio illegittimo. Si ribella, uccide il seduttore, è punita. Dal romanzo Tess dei D’Urbervilles (1891) di Thomas Hardy. Tre temi centrali: natura, amore e destino. Lungo ma non prolisso. Troppo decorativo, sebbene squisito, nell’ultima parte trova la sua giusta combustione drammatica. Manca di sensualità e di slanci lirici. 3 Oscar: fotografia (Geoffrey Unsworth e Ghislain Cloquet), scene, costumi. Restaurato dalla Cineteca di Bologna.
Una complessa operazione internazionale, per neutralizzare una cellula terroristica, si intensifica quando alcuni dei maggiori ricercati si trovano nella stessa casa, a Nairobi, e stanno preparando attentati suicidi. Dopo una serie di estenuanti telefonate burocratiche tra il colonnello Powell, il generale Benson (ultima performance di Rickman) e i membri del Governo britannico e americano, la decisione è quella di inviare un drone. L’arma tecnologica è pilotata dal giovane ufficiale Steve Watts dall’interno di un hangar nel deserto del Nevada. Ma una bambina si siede davanti al bersaglio, a vendere pane. Il pilota si rifiuta di premere “il grilletto”. Che fare? Valutare nuovamente i danni collaterali? Rischiare di uccidere anche la bambina, considerando che i kamikaze provocheranno un numero nettamente superiore di morti? Hood affronta il dibattito sulla giustizia dei droni, come Good Kill di Niccol. Un racconto teso, con personaggi umani, cinici, dai nervi d’acciaio e un lessico tagliente; un film ambientato nei campi minati dell’etica. Un soldato obbedisce senza fiatare o viene rimosso dal suo incarico. Qui il soldato impersona la coscienza della guerra moderna; nodo narrativo in cui si impiglia la trama di questa profonda commedia nerissima, scritta da Guy Hibbert.
Da un romanzo di Joe David Brown. Nell’agosto del ’44, dopo lo sbarco in Normandia, due soldati americani incappano in una donna di sangue misto e se la contendono. E la guerra? Melodramma francese bellico con tensioni razziali. La storia fa acqua da molti buchi e gli attori sono di maniera, tolta l’intensa N. Wood. Ridistribuito come Attacco in Normandia.
Un film di King Vidor. Con Jeanne Crain, Kirk Douglas Titolo originale Man Without a Star. Western, durata 89 min. – USA 1955. MYMONETRO L’uomo senza paura valutazione media: 3,00 su4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Battaglia tra allevatori, che vogliono disporre dei ricchi pascoli del West senza limitazioni, e agricoltori che intendono invece recintare i loro campi da coltivare. La lotta vede per protagonisti due cowboy, alle dipendenze di una ricca e bella quanto egoista allevatrice.
Un ex sceriffo ritorna al paesello per vendicare la morte del figlio ucciso da un ranchero. Trova il tempo per fidanzarsi con una ballerina e insegnare a uno sbarbatello la difficile professione di sceriffo.
Un insegnante è il principale sospettato di un caso di pedofilia: sarebbe il responsabile di diversi omicidi e sevizie ai danni di minorenni. Un poliziotto è convinto della sua colpevolezza ma non riesce a dimostrarla, mentre il padre dell’ultima vittima ha ideato un piano perfetto per torturare il sospetto ed estorcergli la verità. Agevolato dal clamoroso endorsement di Quentin Tarantino, che lo ha definito il suo personale film dell’anno, Big Bad Wolves è destinato – nonostante il grado di violenza che è capace di raggiungere e la brutalità dei temi trattati – a uno status di sicuro e diffuso cult. Troppo astuta la regia di Papushado e Keshale, troppo impeccabile lo script e sapientemente dosata la tensione perché le critiche possano avere la meglio; e tale è la padronanza del ritmo da lasciar intravedere un futuro remake hollywoodiano all’orizzonte, senza dover ricorrere a vaticini. Riuscire a sostenere ancora qualcosa di cinematograficamente originale e significativo trattando di serial killer e vendette sanguinarie, d’altronde, è tutt’altro che semplice, ma Papushado e Keshale riescono a ipnotizzare lo spettatore, anche in virtù di un’umiltà che non nasconde le proprie influenze. È evidente la presenza non solo del suddetto Tarantino nel Dna dei due registi israeliani, ma soprattutto il modello di un film come The Chaser, pietra angolare del noir sudcoreano e punto di non ritorno (fino a quando?) sulla violenza di serial killer e di poliziotti vendicatori, già ripreso in India da un titolo come Ugly di Anurag Kashyap. Il nero-nerissimo è il colore del 2013, quindi, adatto a fotografare un’epoca di crisi economica, morale e spirituale in cui prevalgono confusione, sete di denaro e appetiti insani. Big Bad Wolves è quasi una dissertazione sullo stato di cose, sotto forma di slasher estremo che muta forma e sostanza sempre più verso un’astrazione dalla materia fondata su un sarcasmo corrosivo. Sull’inutilità della vendetta e della ricerca stessa della verità, impossibile da ottenere pienamente, sulla consapevolezza incrollabile da parte dell’uomo di potere di riuscire a risolvere qualunque cosa, non importa come. Riflessioni etiche costantemente mediate e alleggerite dalla confezione di genere e da uno script geniale, capace di sciogliere la tensione con interruzioni, spesso comiche, nei momenti di maggiore insostenibilità. Ribadendo con orgoglio e con la consueta autoironia la proprie radici ebraiche – le schermaglie madre-figlio sono degne del Woody Allen di New York Stories – nonostante qualche concessione di troppo al politically correct nella benevolenza nei confronti del personaggio del palestinese, unico a salvarsi in toto nel panorama misantropo di Big Bad Wolves. Ma si tratta di dettagli, in un’opera che fin dai titoli di testa sconvolge per la lucidità e maturità di una cinematografia in irresistibile ascesa.
In una New York a corto di acqua e dove la guerra è arrivata in forma di terrorismo, con attentati kamikaze, il giornalista Joel e la fotografa Lee hanno deciso che è rimasta una sola storia da raccontare: intervistare il Presidente degli Stati Uniti, da tempo trinceratosi a Washington mentre dilaga una feroce Guerra Civile. Partono così per un viaggio verso la capitale, cui si aggregano l’anziano e claudicante giornalista Sammy e la giovane fotografa Jessie, che vede in Lee un modello da seguire. Contro quel che resta del governo si muovono le truppe congiunte Occidentali di Texas e California, ma la regione che i giornalisti attraverseranno nel loro viaggio non è fatta di battaglie campali tra schieramenti ed è invece preda di un caos di microconflitti e atrocità.
Yasuke è una serie televisivaanime del 2021, prodotta da MAPPA e diretta da LeSean Thomas e Takeru Satō. La serie si ispira liberamente al personaggio storico di Yasuke da cui la serie prende il nome.
Nel Giappone feudale del XVI secolo – in una realtà alternativa in cui esistono la magia e la tecnologia è avanzata – un uomo africano di nome Yasuke passò dall’essere al servizio dei missionari gesuiti durante il commercio di Nanban a essere un guerriero e servitore al servizio di Lord Oda Nobunaga.
Famoso ballerino s’innamora a Londra di gentile signora in attesa di divorzio. 2° film RKO della più grande coppia di ballerini mai vista sullo schermo. Trabocca di balletti deliziosi e di canzoni. C’è la stupenda “Night and Day”, ma anche “Continental” (17′ di danza e musica) dove, per chi sa vedere, è chiaro che per la coppia ballare corrisponde a far l’amore. C’è anche B. Grable, allora sconosciuta, che si fa valere.
Ingeborg, insegnante di piano in precarie condizione di salute, e la figlia adottiva Nelly vivono, con il coinquilino Ulf in una piccola cittadina in cui “nulla può infrangere il silenzio della notte”. Un giorno questa tranquillità si spezza: in paese arrivano Jack, misterioso giovane che ammalia Nelly con la sua loquace parlantina, e soprattutto Jenny, la madre biologica della ragazza, che le offre un lavoro in città a cui lei non sa dire di no. Giunta nella metropoli la giovane ne scopre presto l’artificiosità: non è solo la sua innocenza a farne le spese. Dopo aver scritto la sceneggiatura di Spasimo , un acerbo e giovane Bergman si cimenta per la prima volta nella direzione di un film in cui, nonostante una ancora immatura elaborazione psicologica dei personaggi, riesce a dare un’ordinata struttura simmetrica alla sua opera mettendo Nelly al centro della vicenda: tutto gira intorno alla sua figura che evidenzia la dicotomia speculare tra la quiete del paese (rappresentata da Ingeborg e Ulf) e la falsità della città di cui fanno parte Nelly e Jack. La protagonista smaschera le debolezze, le crisi che entrambe le due realtà presentano: la staticità del paese e la fragilità della grande città.
Harry e Moe, uno italo-americano, l’altro ebreo-italiano, due criminali di piccolo calibro, vivacchiano alle dipendenze di un boss che li usa come cavie (assaggiano i cibi o avviano il motore dell’auto per proteggerlo da eventuale omicidio) e sognano di avere un ristorante. Un giorno scappano con l’ingente somma che dovevano puntare, per il capo, su un altro cavallo. Ne vedranno di tutti i colori ma poi riusciranno a recuperare i fondi per il loro ristorante.
Una compagnia di soldati USA presidia Samarra (Iraq), città santa dei musulmani sciiti. La solita vita dei militari al fronte in un paese straniero: noia, tensione, incomprensioni. Quando uno di loro salta in aria su una mina, alcuni vogliono vendicarlo. Nottetempo entrano in una casa, stuprano una quindicenne, fanno una strage e la fanno passare per azione antiterrorista. De Palma ricostruisce una storia vera, accumulando materiali di varia origine e forma presi da Internet, videocamere di sorveglianza, sfoghi in webcam, un diario filmato di un soldato, blog. Ogni immagine è immagine di immagini dentro altre immagini. Caso raro di film sperimentale, anche film di denuncia. Un’operazione mimetica che è anche teorica, e costringe a farsi domande sulle sue immagini: vere? false? Gelido formalismo o pugno nello stomaco? Nel sonoro una “Sarabanda” di Händel con “E lucean le stelle” nel finale. Discusso, discutibile. Boicottato in USA, in Italia non distribuito nelle sale. Leone d’argento per la regia a Venezia 2007.
Pokémon Adventures, pubblicato in Giappone come Pocket Monsters Special (ポケットモンスター SPECIAL Poketto Monsutā Supesharu?), è un manga scritto da Hidenori Kusaka e illustrato da Mato nei primi nove volumi e da Satoshi Yamamoto per i successivi. L’opera è pubblicata dal 1997 dalla casa editrice Shogakukan. È stata pubblicata per la prima volta in italiano da Panini Comics nel 2002 con il titolo Pokémon Adventures, tuttavia quest’edizione è stata sospesa dopo soli otto numeri. Una nuova edizione a cura di J-Pop intitolata Pokémon – La grande avventura è in corso dal 2016.
La storia è suddivisa in archi narrativi, i quali sono caratterizzati da cambi di ambientazione e di personaggi che rispecchiano i titoli della serie principale di videogiochi Pokémon. La divisione e i titoli non sono ufficiali, ma sono largamente diffusi su siti specializzati, inoltre anche l’editore italiano vi fa riferimento nella pubblicazione della serie.
Samuel Sand è una serie a fumetti creata da Giovanni Barbieri, Marco Abate e Antonio Sarchione nel 1996, pubblicata dalla casa editrice Star Comics, sull’onda del successo avuto con Lazarus Ledd. Nella serie sono presenti vari generi, tra cui spiccano l’avventura, il mistero e l’esoterismo. Dopo la chiusura della serie (avvenuta con il settimo volume) i personaggi sono ricomparsi negli albi di Lazarus Ledd.
In una Parigi farcita di misteriosi eventi e delitti, il californiano Samuel (Sam) Sand lavora presso l’agenzia investigativa Dupin, nella sezione “casi impossibili”, affiancato dalla collega Lilian (Lyla) De Cressy e il loro segretario Philo Durand. Per risolvere i suoi casi misteriosi Sam può contare sull’aiuto dell’ispettore Jospin della Sûreté Nationale, la polizia francese, ed in alcune particolari occasioni dell’amico newyorkese Lazarus Ledd, protagonista dell’omonima serie.
Arizona, luglio del 1972. Thorn Kitcheyan è un ex-militare di origini Navajo/Tohono O’odham che viene soprannominato Saguaro dalla sua gente per via del carattere poco remissivo. Dopo aver combattuto durante la guerra del Vietnam, ed essere stato congedato dall’esercito a seguito di una missione pericolosa in Laos in cui era rimasto gravemente ferito, è tornato a Window Rock, la capitale della Nazione Navajo, in cui è nato e cresciuto, ed ha acquistato un terreno arido da un vecchio nativo di nome Tocho, ben felice di cederglielo in quanto privo di acqua corrente e di elettricità, e vi si è stabilito. Il terreno, però, ha il pregio di essere adiacente alla Statale, e posto proprio sul confine tra l’Arizona ed il Nuovo Messico; per questo motivo, Noah Folsom, ricco e potente criminale, i cui terreni confinano con quello di Tocho, vorrebbe accaparrarselo e usarlo come via di passaggio per i suoi traffici di droga.
Giovanni Savarese è il figlio di un piccolo proprietario terriero siciliano, ucciso per questioni di mafia ai primi del Novecento, ed obbligato a fuggire a Palermo dopo l’uccisione sistematica di tutti i componenti della sua famiglia. Da qui, dopo una lite con i parenti che lo sfruttavano, si imbarca su una nave diretta negli Stati Uniti. Cresciuto a New York, nel quartiere di Little Italy, deriso per l’esile corporatura, ma dotato di un’integerrima onestà e di un’intelligenza deduttiva innata, si arruolerà prima nella polizia della città, e poi entrerà a far parte del primo nucleo della neonata FBI.
Rimasta vedova, Keiko deve preoccuparsi di mandare avanti un negozio di liquori che la famiglia del marito vorrebbe vendere. I problemi aumentano quando suo cognato Koji le dichiara il suo amore, che da tempo coltivava in segreto. La donna si convince a cedere l’attività e nel contempo rifiuta le avances di Koji; senza più legami, si lascia tutto alle spalle avventurandosi in un viaggio in treno. Ma Koji decide di seguirla… Un capolavoro in cui Naruse convoglia alcuni dei motivi tipici del suo cinema: l’attenzione per la routine quotidiana (ottima la fotografia di Jun Yasumoto), l’espressione sincera dei propri sentimenti come indizio di debolezza, l’ineluttabilità di un destino drammatico che si accetta pur di preservare una parvenza di status quo. Splendida la scena conclusiva, con un intensissimo primo piano di Hideko Takamine.
Yumiko ed il marito Hiroshi stanno progettando il loro trasferimento negli Stati Uniti quando un giorno l’uomo rimane vittima di un incidente stradale. Mishima, il responsabile, cerca di espiare la tragedia ed ottenere il perdono di Yumiko, ma riesce solo a farle accettare un vitalizio in denaro. Quando però la donna, perduta insieme al nome del marito anche l’eredità, va ad abitare nell’albergo di campagna gestito dalla sorella, il destino le farà reincontrare Mishima. Al suo ultimo film, Naruse ritorna al colore, con una fotografia dai toni saturi che rischia qua e là (come nella scena del temporale) di sopraffare il film. L’opera si dimostra comunque riuscita.
Dal romanzo di Pascal Brukner. Due coppie si incontrano su una nave in crociera per l’India: Nigel e Fiona, Oscar e Mimì. Nigel è un manager piuttosto convenzionale; sua moglie sembrerebbe la sua perfetta omologa, almeno in apparenza. Oscar è su una sedia a rotelle: è un cinico e depravato scrittore americano fallito che vive a Parigi. Mimì è bellissima, parigina e magica, fa sparire le altre donne. Oscar si accorge che Nigel mira a sua moglie e lo incoraggia, ma “in cambio” dovrà ascoltare tutta la sua storia, come fosse un analista.
Un film di Vsevolod Pudovkin. Con Aleksandr Cistjakov, Vera Baranowskaja, Sergej Komarov, Vsevolod Pudovkin Titolo originale Konec Sankt-Peterburga. Drammatico, durata 91′ min. – URSS 1927. MYMONETRO La fine di San Pietroburgo valutazione media: 2,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Nel 1914 a San Pietroburgo un giovane contadino sprovveduto, assunto in fabbrica, denuncia gli organizzatori di uno sciopero, si pente, si rivolta, finisce in carcere da dove lo spediscono al fronte. Nell’ottobre del 1917 partecipa all’assalto del Palazzo d’Inverno. I due temi centrali _ la presa di coscienza rivoluzionaria del protagonista, la trasformazione di Pietroburgo in Leningrado _ non sono bene amalgamati: il primo è sacrificato al secondo. Resta efficace, comunque, grazie alla forza del montaggio, la dialettica tra i motivi collettivi: i movimenti della Borsa, l’attività delle fabbriche di munizioni, la guerra al fronte, la volontà rivoluzionaria. Pur con qualche schematismo nelle trovate simboliche è innegabile l’afflato epico-lirico che gli storici del cinema hanno collocato al centro di una trilogia sulla presa di coscienza del proletariato russo, tra La madre (1926) e Il discendente di Gengis Khan (1928).
La qualità video, vista anche l’età della pellicola, non è granchè purtroppo.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.