Un film di William Castle. Con Vincent Price, Alan Marshall Titolo originale House on Haunted Hill. Horror, b/n durata 75 min. – USA 1958. MYMONETRO La casa dei fantasmi valutazione media: 2,40 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Loren, eccentrico proprietario di un castello isolato, offre una forte somma a chi trascorrerà un’intera notte in casa sua. Accettano due giovani bisognosi di denaro, una anziana giornalista in cerca di notizie e uno psicologo. Sarà una lunga notte di terrore: Loren è un pazzo omicida. All’alba si conteranno i morti.
In una fatidica estate alcuni ragazzi delle elementari si ritrovano in un condominio alla deriva tra le onde e devono cercare dentro sé stessi un modo per tornare a casa.
Dal romanzo Uneasy Freehold di Dorothy Macardle. Una ragazza ritorna nella casa della sua infanzia, da poco acquistata da una coppia di fratello e sorella. Di chi è lo spirito che la abita? Una delle più belle storie di fantasmi nella storia del cinema. Molta atmosfera, nessun trucco, una bella melodia di Victor Young che divenne la canzone “Stella by Starlight”. Nell’edizione distribuita in Gran Bretagna i fantasmi non si vedono, tolti dalla censura inglese.
Un mercante d’armi s’è arricchito col commercio, spesso illecito, con i paesi africani. I soldi hanno permesso a lui e alla sua famiglia di vivere negli agi. Un giorno però i figli cominciano a criticare la sua attività e gli impongono di smettere. Lui accetta, però fa loro presente il ridimensionamento del tenore di vita. I ragazzi decidono di tornare sui propri passi.
Tredicenne nero, uscito dal ghetto, s’introduce in una casa proibita con due ladri adulti e vi rimane da solo a combattere le forze del male. Thriller orrorifico che comincia nelle false apparenze di un dramma sociale, diventa un racconto di spavento allo stato puro – con in filigrana una dimensione di divertita ironia – ed esplode nel finale in una parabola anticapitalistica. La grande trovata del film, scenografica e narrativa, è la casa: un labirinto di cunicoli, intercapedini, canali di aerazione, scivoli, camini che la attraversano orizzontalmente e perpendicolarmente.
Il film si articola su quattro storie ambientate nella Versilia di fine stagione. Nella prima un bambino di nome Simone si innamora di una ragazza e si allontana dalla colonia per seguirla. Nella seconda un sindaco conservatore si scontra con il figlio di tutt’altre idee e comportamenti. Nella terza l’ubriacone del paese viene fatto oggetto di uno scherzo decisamente pesante facendogli trovare in una bara un morto al posto del vino che lui pensava vi fosse contenuto. Nella quarta un bagnino di buon cuore salva dal fallimento la proprietaria del “Bagnomaria”. In attesa dei più che buoni ascolti televisivi, Panariello si cuce addosso un film di serie B che non va al di là di una serie di sketch. È quello che fanno da (quasi) sempre i Vanzina.
Romain è un giovane fotografo di moda a cui viene diagnosticato un cancro all’ultimo stadio. Alla (chemio-)terapia preferisce il decorso ineluttabile della malattia. Lascia la professione, il proprio compagno e gli affetti familiari per ritirarsi in solitudine nel suo appartamento parigino. Il ripiegamento affettivo è interrotto soltanto dalla visita all’anziana nonna e dall’incontro casuale con una coppia sterile a cui fa dono di un figlio. Davanti al mare si congeda dal mondo. Con un meccanismo a ritroso già applicato da Ozon in Cinqueperdue, per riferire la fine di una storia d’amore, ne Il tempo che resta è la vita di un uomo a procedere all’indietro fino all’infanzia, fino al punto zero in cui vita e morte coincidono e si annullano. Questa volta è la fine di una vita a venire esibita con un sapiente equilibrio dal regista francese. Il suo cinema, coerente alla sua poetica mortifera, non cede a soluzioni ricattatorie da consunzione melò, né tantomeno degenera in una indifferente insensibilità. La morte prossima di Romain è un fatto privato che si traduce in gesti carichi di emotività, perché sono gli ultimi e perché guariscono l’anaffettività del personaggio: la carezza al padre, l’abbandono sul petto della nonna, le foto scattate di nascosto alla sorella. Il volto di Romain, interpretato da un impenetrabile e patito Melvil Poupaud, “il ragazzo delle tre ragazze” di Eric Rohmer, ribadisce la frontalità del cinema di Ozon. Un attacco diretto che in Le temps qui reste si fa addirittura letterale: i primi piani dominano sui totali fino all’ultima sequenza dove è sempre il mare a “rubare” la vita, quella di Romain come quella del marito di Charlotte Rampling in Sotto la sabbia. Su un campo lungo finale e sostenuto si spegne il sole, in primissimo piano la vita.
Bella, trentacinque anni, lavora come cameriera in un fast food di New York ed è l’anima del locale. Continua ad incappare in relazioni senza futuro. Un giorno sua madre, che vive altrove, le propone l’incontro con Bruno, un tassista aspirante scrittore. Bella accetta senza farsi illusioni e, per non rivelare i suoi sogni matrimoniali, gli dichiara apertamente di non amare i bambini. Peccato che Bruno ne abbia due. Ma nella caffetteria Bella non è la sola a sognare l’amore. Paul, un vedovo piuttosto introverso, si fa prendere dalla passione per una vedova conosciuta mediante un annuncio, mentre il vecchio Seymour prende una sbandata per una ballerina di peep show. Commedia brillante sulle solitudini metropolitane questa del cinquantaquattrenne regista israeliano. Ricca di battute intelligenti e supportata da un’attrice come Anna Thomson che ha lavorato con Cimino, Eastwood, Stone, ma anche con autori intellettuali come Ozon.
Pennsylvania, in una cittadina di provincia. La serena vita di Keller Dover – falegname benestante, moglie amata, erede maschio cui insegna a sparare agli animali e figlioletta deliziosa – è sconvolta quando, durante la consueta festa del Ringraziamento, la bimbetta sparisce insieme a una coetanea figlia dei vicini. Il detective Loki arresta un ragazzo ritardato che vive con una vecchia zia. Senza prove è rilasciato. Dover si scatena. Non è solo un thriller di indagine poliziesca (la sceneggiatura di Aaron Guzikowski non fa una grinza), né solo la storia di un’inarrestabile discesa all’inferno del protagonista ma anche del poliziotto – 2 non-eroi, 2 uomini molto diversi, 2 solitudini, 2 concezioni del mondo e dell’ordine -, ma un affresco moderno della provincia USA, dove la linda facciata nasconde sempre “altro”, dove il Male contagia, infetta, distrugge. Splendida fotografia (Roger Deakins).
Dietro la consueta apparenza del triangolo amoroso, lei, lui, l’altro, si cela un terribile e mostruoso segreto. Anna, moglie di un uomo d’affari berlinese, vive una doppia vita scandita dagli omicidi e si congiunge carnalmente con un mostruoso essere gelatinoso.
Un film di Abbas Kiarostami. Con Babak Ahmadpoor, Ahmad Ahmadpoor, Khobadakhsh Defai, Iran Otari, Ayat Ansari, Iran Orari, Sedigheh Tohidi, Peiman Moafi, Tayebeh Soleimani, Mohammed Reza Parvaneh, Farhang Akhavan Titolo originale Khaneh-ye dust kojast?. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 80 min. – Iran 1987.
Un bambino che vive in un villaggio iraniano cerca di raggiungere un compagno che abita in un altro paesino. Deve consegnargli il quaderno che per errore è rimasto nella sua cartella. Se non potrà fare i compiti, il compagno verrà punito. Kiarostami racconta con tempi sospesi la microdissea del suo protagonista. Sembrano non esserci speranze per l’infanzia iraniana, se non quelle che sorgono dalla forza e dalla generosità interiore. Opera prima della trilogia dedicata alla difficoltà di essere giovani.
Non sono sicuro che i subita nella versione 720p siano perfettamente sincronizzati, fatemi sapere
Sono stati tradotti con google quindi potrebbero esserci delle imprecisioni
Isa, un bambino bianco abbandonato nella foresta del Sud Africa, viene trovato ed allevato come un figlio da un vecchio grande guerriero e da una vecchia nutrice, ambedue appartenenti ad una tribù di Bantu di etnia Swazi. A causa della sua pelle chiara, Isa non riesce a farsi accettare del tutto dai membri del villaggio, che per schernirlo lo chiamano Orzowei, il “trovato”. Particolarmente ostile è Mesei, il figlio del capo del villaggio. A causa del pregiudizio razziale, Isa non viene accolto fra gli adulti guerrieri della tribù pur avendo superato la drammatica prova dell’iniziazione.
Il dottor Sully Travis è un ginecologo di successo a Dallas, adorato dalle sue clienti che cura con pazienza, dolcezza e competenza. Marito fedele, è un uomo che ama le donne, ma le capisce poco o niente. Si ritrova con una moglie in piena regressione infantile e una delle due figlie, lesbica ignara, che durante la cerimonia nuziale scappa con l’amica del cuore. S’innamora di una istruttrice di golf che si comporta come un uomo. È un’altra delle commedie corali di Altman, ma con una variante: un uomo solo in mezzo a un gineceo. Il rossiniano piano-sequenza iniziale (7 minuti circa) nella sala d’aspetto del suo studio offre la chiave stilistica di un film dove quasi tutto è semplificato, sovreccitato, esagerato, alla texana. L’ironia si alterna con il sarcasmo e il piede sul pedale del grottesco è fin troppo pigiato nella descrizione di questa società opulenta fino al punto di trasformarla in una macchina femminile celibe. La discutibile e qua e là furbesca sceneggiatura di Anne Rapp ( La fortuna di Cookie ) è riscattata in parte dalla gioiosa eleganza della regia, dalla leggerezza serena dello sguardo, dalla simpatia con cui il vecchio Altman accompagna i personaggi anche se negativi, compreso il dottor T. È forse il 1° film mainstream di Hollywood in cui si filma un parto a distanza ravvicinata.
2001: gran parte della Terra è coperta dal ghiaccio. In una città fatiscente gli ultimi superstiti si cimentano in un gioco mortale. Il vincitore ha diritto di vita e di morte sugli altri e il suo premio è quello di poter continuare a giocare. Appartiene al filone occulto e fantastico di Altman e può offrire molte delizie a chi sappia guardarlo e accoglierlo senza troppe preoccupazioni di decifrazione. L’ambientazione quasi rinascimentale lascia il segno.
Quando tre ragazzi in divisa suonano alla sua porta, Dafna capisce subito cosa sono venute a dirle, e cade a terra priva di sensi. Sedata lei, per qualche ora, con un sonnifero, tocca al marito Michael sopportare sveglio il peso indicibile della notizia della morte del figlio Jonathan. Tutto appare incredibile. Non può essere vero, e forse non lo è: forse il destino ha in serbo una beffa ancora peggiore.
Cantore della solitudine urbana, con I don’t want to sleep alone, Tsai Ming-Liang costruisce un’opera densa e inquietante. Girato a Kuala Lumpur, in Malesia, paese d’origine del regista, il film segue le traiettorie dei suoi personaggi: un senza tetto cinese pestato a sangue, ospitato da un lavoratore del Bangladesh, e una cameriera di un coffee shop. Privati di qualsiasi caratterizzazione psicologica, i protagonisti si muovono in uno spazio urbano indefinito e sospeso, lasciandosi trascinare in un’esistenza anonima e incolore, ribelli donchisciotteschi di una società postmoderna, malsana e contaminata: il loro grido è muto e disperato, almeno quanto lo sono gli spazi nei quali si muovono.
Santiago del Cile, 1973. Mario Corneo lavora come funzionario presso l’obitorio. Trascrive a macchina le autopsie. Si innamora di una ballerina di cabaret, Nancy, sua vicina di casa. Ma sono i giorni del colpo di stato, l’obitorio si riempie di cadaveri, della casa e della famiglia di Nancy non rimangono tracce. La ragazza si nasconde nel cortile della casa di Mario, che le porta il cibo e le sigarette. Intanto, all’obitorio, i morti riempiono le sale, i corridoi, le scalinate dell’ospedale. Il cileno Pablo Larrain dà nuovamente prova, dopo Tony Manero, di una capacità di racconto ammirabile, perché inedita ed efficace. Il protagonista è ancora Alfredo Castro, figura ambigua, tra obbedienza e umanità (rispetto alla tragedia in atto), sentimento e istinto (nel rapporto con Nancy, e fino all’epilogo), mondo dei vivi e terra dei morti. Un essere che appartiene da subito all’universo del Post Mortem che dà al film il titolo e diversi significati. La sua esistenza squallida, priva di qualsivoglia slancio vitale, si movimenta un giorno al contatto con la morte, scuotendo improvvisamente anche il film intero e ridisegnandone le coordinate.
Dopo un tentativo fallito nel 1994, i Fantastici Quattro, celeberrimi personaggi tratti dall’omonimo fumetto della Marvel Comics creati da Stan Lee e Jack Kirby nel novembre del 1961 in Fantastic Four n. 1, compiono un nuovo ingresso nelle sale cinematografiche in un film del 2005 diretto da Tim Story. Lo scienziato Reed Richards (Ioan Gruffudd), una delle menti più brillanti del XXI secolo, passa in affari con una sua vecchia conoscenza, Victor Von Doom (Julian McMahon), per organizzare un viaggio nello spazio insieme ai fratelli Susan (Jessica Alba) e Johnny Storm (Chris Evans) e Ben Grimm (Michael Chiklis) per scoprire le reali potenzialità di uno strano fenomeno, ovvero una sorta di nube cosmica. Qualcosa, però, non va come previsto e la nube avanza molto più rapidamente rispetto a quanto calcolato da Reed, investendo la stazione spaziale in pochi minuti. Le radiazioni cosmiche emesse dal fenomeno donano al team incredibili poteri: Reed/Mr.Fantastic è capace di allungare ed espandere il suo intero corpo, Susan/la Donna Invisibile scopre di poter diventare totalmente invisibile e creare campi di forza, Johnny/la Torcia Umana può generare fiamme ed avvolgere il suo corpo con il fuoco, potendo anche volare, mentre Ben/La Cosa viene rivestito da una specie di esoscheletro roccioso che gli garantisce una forza straordinaria e una resistenza fisica eccezionale. Victor, invece, si ritrova con il volto sfregiato, il potere di generare energia elettrica e una lega metallico-organica indistruttibile che si estende lungo varie zone del suo corpo. Arrivato a chiamarsi Dottor Destino, Victor terrorizza New York ed è pronto a conquistare il mondo. Sarà solo grazie all’intervento dei Fantastici Quattro, in nome del gruppo composto da Reed, Sue, Johnny e Ben, che il nemico potrà essere fermato. Caratterizzato da buoni effetti speciali, un’ottima interpretazione da parte degli attori principali, in particolare nel caso di Chris Evans e Michael Chiklis, un’orecchiabile colonna sonora e una trama a tratti divertente e tutt’altro che noiosa, il film è adatto ad un pubblico di tutte le età e a chi desidera passare circa due ore di puro intrattenimento.
Con impeccabile e asciutto stile documentaristico, il prolifico regista hollywoodiano Henry Hathaway racconta una vittoriosa azione del controspionaggio americano, che grazie a un suo agente infiltrato fra spie naziste scardina l’intera rete negli Stati Uniti.
Una giovane immobilizzata su una sedia a rotelle giunge in casa del padre, che vive con la seconda moglie. Il padre è assente e la matrigna si comporta in modo strano. Thriller di taglio tradizionale ricco di suspense con colpo di scena finale, sulla scia di Les Diaboliques, scritto con competenza da Jimmy Sangster. Funzionale bianconero di D. Slocombe. Titolo in USA: Scream of Fear.
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